
Il sole stava per tramontare quando siamo andati alla casa del lama di Danpa, Alak Chomge.1
La sua casa era in alto in direzione della montagna, vicino alla khora. La strada sterrata saliva fino ad uno spiazzo su cui si affacciava una porta. Siamo entrati nella grande porta di legno a due ante e attraversato un ampio cortile salendo delle scalette di pietra.
In una stanza di legno ad un angolo del cortile sedeva il lama con altri due monaci. Mi dissero che aveva 84 anni ed era uno dei lama più anziani del monastero. Mi hanno colpito i suoi occhi, chiari per la vecchiaia, sembrava che vedessero oltre l’apparenza delle cose. Quando sono entrato la prima cosa che ho fatto è stata inginocchiarmi davanti a lui porgendogli una sciarpa rituale bianca (katak) tenuta con entrambe le mani e lui, dopo averla presa, me l’ha appoggiata sulle spalle e toccandomi dolcemente le guance con entrambe le mani come si fa con i bambini ha detto: “o ya!”
Sedeva in un angolo della stanza, questa era tutta rivestita di legno rossastro con katak bianchi, gialli e azzurri appesi alle pareti.
I monaci che stavano nella stanza ci hanno offerto una ciotola di yogurt. Abbiamo parlato un po’ con Alak Chomge, Danpa traduceva e di tanto in tanto l’anziano rideva calorosamente.
Danpa gli stava spiegando che avevo studiato e lavorato per un po’ a Pechino e che ero poi venuto a Labrang l’estate e il lama disse che vedeva tutte le cose che avevo fatto in precedenza. Ero molto emozionato, non ho mai creduto a queste cose ma mentre il lama parlava e mi guardava non avevo alcun dubbio che quello che diceva fosse vero.
Quando Danpa gli ha raccontato la mia paura riguardo a quello che mi sarebbe successo a 36 anni, lui si è messo a ridere, dicendo che se avessi recitato dei mantra la mia vita non avrebbe avuto problemi. Prima di andare via mi ha fatto mettere di nuovo in ginocchio davanti al piano rialzato dove sedeva e, prendendo un testo buddhista avvolto in una tela gialla, lo ha appoggiato sulla mia testa, poi sulla spalla destra, poi su quella sinistra, poi ancora sulla testa e così via, recitando dei versi in sanscrito a voce bassa che non capivo.
Alla fine ha appoggiato di nuovo il tomo sulla mia testa e ha concluso la recitazione con la parola samaya detta a voce un po’ più alta. In quel momento ho sentito un’energia penetrare nella sommità della testa e propagarsi verso il basso come un brivido.
Abbiamo salutato Alak Chomge e gli altri monaci e siamo andati via.
Stavamo andando a casa di Danpa e scendevamo giù per le vie del monastero. Era buio.
Quando siamo arrivati, il fratello di Danpa, Lobsang e il piccolo monaco allievo di Danpa, stavano preparando da mangiare. La stanza di legno era riscaldata dal calore della stufa. Dopo mangiato ho studiato un po’ di tibetano con Danpa e gli ho insegnato un po’ d’inglese. S’erano fatte le dieci, era tardi e l’indomani dovevo insegnare inglese ai bambini con il mio amico Gönpa, dovevo andare.
Danpa mi ha accompagnato con una piccola torcia lungo le strade di terra che serpeggiano irregolari tra le case dei monaci dai muri d’argilla. Tutto intorno era buio, solo la luce di stelle mai viste prima. La via lattea era chiara e distinta, sopra di noi brillava la costellazione dello scorpione con la sua stella rossa: Antares.