Questa mattina, dopo una colazione non cinese da Mei Mei’s Cafe, abbiamo preso un bus in direzione sud per Damenglong (o Menglong).
Lungo la strada si vedevano piccoli villaggi tai, risaie, foreste, stagni, alberi della gomma e bufali d’acqua. Due monaci in tunica arancione sono passati sfrecciando su una moto e il pilota aveva degli occhiali da sole specchiati.
Arrivati alla stazione del bus, in un ristorantino gestito da una signora tai ho preso degli spiedini di doufu, uno xifan dolciastro e dei liangfen in brodo col pomodoro e verdure.
Damenglong è una cittadina tra montagne ricoperte da una fitta vegetazione tropicale a pochi chilometri dal confine con la Birmania e non molto lontano dal Laos.
Le strade sono alquanto deserte e sembra essere un posto abbastanza sperduto. Non si vedono turisti in giro. Al centro di un incrocio c’era una strana scultura e dei maialini neri camminavano per strada.
Siamo vicino al Triangolo d’Oro, allo stato Shan, ex-regno di uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo: Khun Sa, il Re dell’Oppio.
Qui l’unico posto dove possono stare gli stranieri è una guesthouse (zhaodaisuo) dentro il recinto del governo locale: pavimento di cemento, soliti letti pulciosi con lenzuola rosa e trapunta, soffitto con ragnatele e macchie di muffa. Il bagno è fuori a due minuti a piedi e di notte ci si arriva con una torcia.
L’edificio è in mezzo alla natura e dal ballatoio si gode una vista bellissima: montagne ricoperte di verde, tetti di case tradizionali lungo una strada sterrata. Su una delle montagnesi vede uno stūpa bianco.
Sono circa le undici di sera. Ho scritto per più di un’ora a lume di candela. Spengo la candela e mi sdraio.
(Damenglong, 1 settembre 2000)
E’ mattina, piove ininterrottamente da stanotte e tutto è fangoso e umido.
Sono uscito per andare al bagno, una latrina situata dietro il padiglione della guesthouse sulla riva di uno stagno artificiale. Intorno alla guesthouse era pieno di polli e galline starnazzanti e vicino al bagno mi sono imbattuto in un maiale nero e un gallo che mangiavano lungo il sentiero.
Mi sono lavato la faccia ai rubinetti nel cortile, e ora mi farò una tazza di tè sul ballatoio godendomi la vista nebbiosa delle montagne e ascoltando il rumore della pioggia.
Più tardi siamo andati in un tempio non lontano dove dei signori tai anziani ci hanno invitato a sedere accanto a loro e uno di loro, in un cinese con un forte accento tai, ha cominciato a farmi domande su di noi e sul nostro paese.
“Voi avete le statue di Buddha?” “Avete le banane?” “Avete l’ananas?” “Avete….?” Ecc.,ecc.
Questo vecchietto era nonno di tre bambine e una di queste parlava bene cinese così abbiamo cominciato a chiacchierare.
Sono accorsi altri bambini che giocavano a carte nel cortile del tempio, hanno cominciato con le loro domande e ci hanno chiesto di cantare, ho cantato qualche canzone italiana e cinese, poi loro hanno voluto che anche mia madre cantasse e si sono avvicinati a lei per ascoltarla con molto interesse.
Tutto questo avveniva dentro il tempio dove un monaco recitava le scritture. Forse abbiamo esagerato? Comunque i bambini sono bambini.
Una cosa che mi ha colpito è l’aria di tolleranza che regna nei templi buddhisti tai.
I bambini ridono, schiamazzano e giocano, gli uomini e le donne, di solito seduti su lati differenti della sala, chiacchierano fra loro sorseggiando tè o acqua calda e mangiano della frutta (piccole banane, pere e mele). Gli uomini fumano sigarette.
Tutto avviene su stuoie o materassini disposti lungo le pareti della sala dove la gente può anche dormire.
Al centro della sala, sotto un altissimo tetto di legno si stagliano le statue di uno o più Buddha Śākyamuni, verniciati d’oro .
I monaci siedono su un piano rialzato che corre lungo la parete, si solito dietro o al lato dei buddha. Posseggono sono una tunica arancione e una ciotola per la questua del cibo, ora anche in ferro.
Questo almeno in teoria, il monaco con cui ho parlato a Jinghong aveva un cellulare ma d’altronde nel duemila certe cose sono utili.
Spesso gli occidentali proiettano i loro sogni in posti lontani, dove vorrebbero che la gente rimanesse cristallizzata a qualche secolo indietro per ammirarla da dietro un vetro immaginario scattando fotografie da fare vedere agli amici al loro ritorno.
Un posto e la sua gente non dovrebbero essere visti da fuori ma da dentro e per fare questo la migliore macchina fotografica è il cuore.
Quanto siamo disposti noi a rinunciare alle nostre comodità?
Un inglese in un posto così bello si lamentava perché non riusciva a trovare la ricarica del suo telefonino.
Dopo un po’ i bambini ci hanno accompagnato lungo la strada che portava alla Pagoda Nera (Heita) e che dal tempio s’inerpicava sulla cima della montagna.
La strada era cementata e liscia e saliva in mezzo alla vegetazione. Mia madre e Paula erano avanti, io invece ero dietro con i bambini chiacchierando e mangiando delle aspre foglie e frutti che dicevano di essere ottime per combattere la stanchezza.
I lati della stradina ne erano pieni. Il frutto era di colore verde e sembrava quasi un sottile e lungo chili appuntito e dal suo interno usciva un lattice bianco che inizialmente mi avevano indicato di sputare. Era asprissimo con un retrogusto limonoso, le foglie, invece, avevano un sapore un po’ meno aspro ma abbastanza simile.
Lo stūpa era costituito da un grande pinnacolo centrale attorniato da altri pinnacoli più piccoli. Tutti erano a sezione circolare e avevano la forma di una guglia.
Sulla loro cima tintinnavano tante campanelle argentate intorno a dei piccoli parasoli, anche essi d’argento.
Draghi (nāga) bianchi dalle creste verdi serpeggiavano tutto intorno stringendo lo stūpa nelle loro spire e, in alcuni punti, si fronteggiavano.
I nāga e i pinnacoli poggiavano su una bassa piattaforma piastrellata e a gradini che la gente circoambula in senso orario.
Quello che chiamano Stūpa Nero in realtà è bianco leggermente tendente al giallo. Intorno allo spiazzo dove è situato, sotto una tettoia, c’è un buddha bianco sdraiato chiuso dietro un cancelletto con a fianco un altro buddha e altre raffigurazioni pittoriche.
Mi sono seduto a guardare il panorama e a mangiare qualche altro frutto duro e aspro colto dai bambini che me ne hanno fatto una larga offerta.
Tutto questo dopo aver reso omaggio ai vari buddha.
Dietro lo stūpa dopo aver sceso alcuni gradini c’era una bassa costruzione di pietra di piccole dimensioni, mi sono affacciato all’interno e ho visto che c’era un grande fiore di loto piatto anch’esso di pietra. Ho pensato che fosse una casetta per la meditazione, il fiore infatti sembrava fatto a posta per sedervisi sopra. I bambini dopo mi hanno detto che c’era una sorgente ma non ho capito bene.
Siamo riscesi e loro hanno continuato la raccolta di quelle foglie e di quei frutti aspri.
Tornati al tempio ci siamo seduti fuori e c’era della gente che preparava da mangiare, non c’era del cibo per tutti e così i bambini mi hanno offerto dei biscotti che ricordavano un po’ il gusto di quelli Montebovi.
Una di loro si e messa a pestare le foglie aspre in una ciotola di porcellana, io e un’altra bambina l’aiutavamo a staccare le foglie e gliele porgevamo. Alla fine la bambina mi ha dato da mangiare l’impasto misto a un po’ di peperoncino, aveva un sapore agro-piccante, era buono.
Ho salutato i bambini e gli ho promesso di tornare il giorno dopo con le carte piacentine per insegnargli a giocare a Scopa ma sto pensando che forse è meglio Uomo Nero.
Dopo pranzo abbiamo preso un moto rickshaw, tipo un mini apetto, e ci siamo diretti alla Pagoda Bianca (Bai Ta).
Mi è venuto da pensare: “se la Pagoda Nera era bianca, come sarà la Pagoda Bianca?”
Prosegue da Manting Lu e il Mekong
(Damenglong, 2 settembre 2000)
