Vorrei condividere un pensiero sul dharma1 e la ritualità visto che è un tema tocca molti e ha toccato personalmente anche me (facendomi confrontare con tutte le resistenze di una mente occidentale) e parlare di come sono più o meno riuscito ad accettare ed integrare tutto questo nella pratica senza grandi problemi.
Dico più o meno perché infatti vivendo da molti anni in Asia, dove tra la gente comune questa ritualità non è compresa e spesso rimane solo una superstizione, qualche volta ho qualche “ricaduta”.
Come tutte le cose anche la ritualità ha un significato. I rituali infatti sono dei “mezzi abili” (upaya) che aiutano ad estendere la consapevolezza del momento presente o presenza mentale oltre la pratica formale che nella meditazione può essere seduta o camminata.
Questa consapevolezza ovviamente andrebbe estesa a tutte le azioni del quotidiano ma cominciare da un rito formale rende questo spesso più facile perché, mantenendo quel senso di sacralità in ogni gesto, la nostra consapevolezza ne è enormemente rafforzata.
Un’altra funzione dei rituali è quella di “delimitare” lo spazio in cui il dharma è insegnato e praticato. Questi non devono necessariamente essere elaborate cerimonie senza fine, possono essere anche solo il semplice bruciare l’incenso e fare un inchino, suonare un gong o recitare le scritture all’inizio della giornata e spesso sono costituiti da elementi culturali che, presi da soli, sarebbero di poco valore ma che in rapporto al dharma e alla pratica ne formano il “contenitore”.
Proprio come una bella tazza che può essere più o meno decorata e con forme diverse ma senza la quale il buon te’ del dharma, oltre che a essere più difficile da bere, perderebbe anche la sua bellezza.
Forse non ci accorgiamo che anche la nostra vita nella sua quotidianità è un continuo ripetersi di riti. Il rito della doccia, il rito del caffè o della sigaretta, ecc. ma, quando questi non vengono svolti con consapevolezza o non vengono compresi e apprezzati, purtroppo diventano per noi quella serie di abitudini meccaniche che rendono la vita una noiosa routine senza senso.
Tornando al caffè: per gli italiani il caffè è un rito.
Basterebbe assumere solo quel liquido scuro contenente caffeina per goderne gli effetti e quindi potremmo prenderlo in fialette tipo enterogermina mentre stiamo fermi in macchina al semaforo. Più pratico e immediato no?
Ma non è così, pensare che c’è chi se non non è al vetro il caffè non lo prende nemmeno.
Detto questo possiamo scegliere il “contenitore” con le decorazioni che più ci piacciono, più vicine alla nostra sensibilità o, se abbiamo ancora questo limite rispetto alla ritualità, che ci disturbi meno.
Sì perché, come non dobbiamo attaccarci eccessivamente alla tazza o scambiarla con il suo contenuto (questo sarebbe infatti scambiare il mezzo con il fine), non dobbiamo, una volta compreso il suo valore o funzionalità, nemmeno esserne disturbati perché è un limite anche quello.
Come ha detto anche il famoso maestro di musica classica indiana, Ravi Shankar:
Ascolta! Niente al mondo può disturbarti tanto quanto la tua stessa mente. Infatti sembra che sono gli altri a disturbarti ma non sono gli altri, è la tua stessa mente.
Insomma che lo vogliamo o meno i riti sono parte di noi e scandiscono il ritmo della nostra vita come dei colpi di tamburo o il suono del gong all’interno dei templi e delle sale di meditazione e ci invitano ad apprezzare pienamente quello che stiamo facendo.
In quanti compleanni abbiamo seguito il rito della torta e delle candeline, se non per noi quanto meno per rendere felici gli altri?
Apprezzando questi momenti, questi piccoli gesti con gioia, gratitudine e presenza mentale, rendiamo l’ordinario straordinario ed è così che tutto può diventare sacro.
Ma quando il sacro diventa “religioso” c’è un intervento dell’Ego, una volontà di voler possedere, congelare questi momenti e istituzionalizarli. La “mela del peccato” è stata già colta!
Quindi la religiosità è in questo senso un “espropriazione” del sacro e ne rappresenta la fine.
Oggi noto inoltre la tendenza a proporre il dharma con caratteristiche asettiche, un dharma “sradicato” completamente da alcuni elementi importanti.
Molti medici consigliano di prendere sostanze nutritive e vitamine varie dal cibo e non dalle pasticche.
Ma si sta tentando di vendere un “nuovo dharma” in pasticche.
Un dharma “rilucidato” considerato a mio avviso erroneamente più veloce ed efficace negli “obbiettivi da raggiungere”.
Questo avviene quando una mente eccessivamente logica e scientifica come quella occidentale moderna (nel suo aspetto negativo) incontra la sfera spirituale e cerca “chimicamente di estrarne i principi attivi” per creare qualcosa di “migliore”.
Certo che è importante integrare la tradizione con la modernità contestualizzandone o decontestualizzandone alcuni elementi ma questo è più un processo di lenta osmosi che un estrazione di principi attivi in laboratorio, altrimenti se si usa molto l’intelligenza e poco la saggezza, si finirà come Icaro con le sue ali di cera e si praticherà un dharma col botto, senza però fuochi d’artificio.
1 In questo contesto quando parlo di dharma mi riferisco alla dottrina del Buddha e alla sua pratica, la meditazione. Secondo me queste riflessioni (soprattutto il valore del rito come “mezzo abile”) possono essere estese, almeno in parte, ad altre tradizioni spirituali o quantomeno possono essere uno spunto per riflettere sul il valore dei rituali e imparare ad apprezzare e a vivere le piccole azioni quotidiane con più consapevolezza.
