Case, strade e genti di Mukrong

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La casa nel villaggio. Nyinko

La macchina si ferma davanti al monastero ed entriamo.

L’unico  edificio è un piccolo padiglione buio dal pavimento in assi di legno. Le decorazioni che vediamo sembrano molto antiche.

Targye infatti ci spiega che durante la Rivoluzione Culturale il monastero non è stato distrutto come è successo altrove ma trasformato in granaio e per questo ha più o meno conservato il suo aspetto originale.

Molte delle statue originali sono state portate via ma rimangono ancora delle bellissime statue di argilla dipinta raffiguranti Shakyamuni, Padmasambhava e altri buddha e bodhisattva.

Il Karchö Gönpa è di tradizione Nyingma e ha circa ottanta monaci, cinquanta dei quali studiano nelle varie scuole (shedra) dei più importanti monasteri Nyingma del Kham, il Tibet Orentale (Serta Larung, Kathok, Minyak Gönchen, ecc.).

Ora ne rimangono solo una trentina e solo nelle cerimonie più importanti (che si tengono cinque volte l’anno) i monaci sono tutti al completo.

Chiedo a Targye se qui  ci sono  dei tulku o “lama reincarnati” e lui mi responde che non ce ne sono ma che il khenpo1 più anziano, che ha più di ottant’anni, vive da trent’anni in ritiro su una montagna.

Usciamo e proseguiamo verso la casa di Targye ma dopo pochi metri la macchina si impantana su un lato della strada.

Delle donne del villaggio  vengono subito per cercare di tirarci fuori ma, dopo ripetuti tentativi, continuiamo a sentire il rumore sordo del motore e le ruote continuano a girare a vuoto, così Targye ci dice di aspettare in una delle case lì vicino: quella di suo zio.

Come tutte le case dei contadini tibetani, anche questa al piano terra ha il deposito dei viveri e la stalla e al piano di sopra le stanze tutte rivestite in legno ma la cosa che mi ha sorpreso è che qui gli spazi sono grandissimi e le travi e i pilastri sono costituiti da tronchi enormi.

Dopo essere saliti su per una scala veniamo accolti nella cucina e come accade sempre quando si è ospiti dai tibetani a prescindere dal momento della giornata2, ci offrono del tè e qualcosa da mangiare.

Come al solito, devo insistere che non vogliamo altro altrimenti quel qualcosa potrebbe diventare molto più sostanzioso.

Dopo un po’ che eravamo lì seduti, arriva lo zio di Targye, Nyinko,  un uomo alto con i capelli corti, dal volto scuro e un’espressione dura che ci sollecita a mangiare ancora e ci offre delle piccole patate arrostite.

Intorno a noi c’erano altri famigliari  tra cui una bambina silenziosa e il suo fratellino, un bambino dagli occhi vispi.

La cucina è l’ambiente più importante della casa tibetana: è qui infatti che di solito si mangia e ci si riscalda ed è qui che vengono accolti gli ospiti.

La grande stufa di ghisa rettangolare, piatta come un tavolo di metallo non solo è il fuoco dove si prepara da mangiare e si mette l’acqua o il tè a bollire ma, specialmente d’inverno, è il fulcro attorno a cui ruota tutto il mondo famigliare, il cuore della casa, dove risiede la divinità tutelare.

Prima della diffusione delle televisioni dei dei tablet e degli smartphones (che ormai stanno invadendo il Tibet) era qui che vertevano gli sguardi delle persone.

Sono rimasto tante volte accanto alla stufa a sorseggiare il tè ascoltando il gorgoglio dell’acqua e lo scoppiettio del fuoco o semplicemente il silenzio.

Passavo così giornate intere, sorseggiando il tè, immerso in quel   silenzio.

Un affettuoso silenzio in cui quelle persone erano semplicemente lì, finalmente vicine, con la stessa tolleranza ed empatia che hanno gli anziani con i bambini.

Molto spesso infatti il silenzio unisce e le parole dividono.

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La casa nella radura. Apa e Ama3

Mentre stavamo ancora lì seduti è tornato a prenderci Targye e siamo saliti su due moto: mio cugino dietro a lui e io dietro a uno dei ragazzi che era in cucina.

Abbiamo proseguito a fatica per un breve tratto di strada, le ruote delle moto scivolavano nel fango e abbiamo rischiato più volte di cadere.

Arrivati vicino ad una distesa erbosa, sotto una piccola collina, abbiamo proseguito a piedi. La luce era quasi quella del tramonto e un uomo magro dal volto rugoso e i capelli grigi lunghi raccolti in una treccia ci aspettava sul versante della collina.

L’uomo ci è venuto incontro e insieme agli altri mi ha aiutato a salire oltre una fila d’alberi, in una piccola radura dove c’erano una vecchia casa di legno che sembrava inabitata e, più in alto, una casa di pietra.

Sulla soglia di quella di pietra ci aspettavano una donna anziana con i capelli raccolti nell’acconciatura tradizionale delle donne del Minyak4  e due bambini.

L’uomo dai capelli grigi e la donna, che erano il padre e la madre di Targye, ci hanno invitato ad entrare facendoci sedere su dei sottili cuscini di lana di pecora e pelo di yak intorno alla stufa e ci hanno offerto subito del tè e del cibo: pezzi di carne magra da tagliare con il coltello e mangiare con le mani.

“Siamo nomadi, ci sediamo per terra. Le nostre case non sono come quelle dei contadini.” Diceva il padre.

La casa era costituita di un unico spazio grande diviso da tende variopinte con dei motivi floreali e colori molto vivaci. Tranne un piccolo spazio vicino alla porta d’ingresso, le pareti e il pavimento della stanza erano totalmente rivestiti di legno.

L’atmosfera era accogliente e, a parte alcuni scaffali dietro la stufa e il chökhang, l’altare delle offerte in un angolo, l’unica mobilia erano dei letti di ferro su cui erano ammassati vestiti e vari oggetti e due ciocchi di legno che i genitori di Targye usavano come sgabelli.

Non avevo mai visto una casa così: in effetti lo spazio e la mobilia ricordavano più quelli di una tenda.

Nella stanza oltre a noi c’erano anche i nipotini: Norbu Lhamo, una bambina di dodici anni molto calma e responsabile, Pema Lodrö, un bambino che non stava mai fermo e Yeshe Tondak, il più piccolo, a cui piaceva cavalcare un cervo rotondo di gomma verde.

Abbiamo parlato un po’. Fuori dalla finestra gli alberi e le montagne erano avvolte dalla nebbia e cominciava a calare l’oscurità .

Il posto era proprio isolato, il telefono non prendeva e ho pensato che sarebbe stato perfetto per dei ritiri.

Verso le dieci e mezza Targye ci ha preparato due letti con dei cuscini tibetani sul pavimento nell’angolo del chökhang, tirando una delle tende a fiori per separarci dall’ambiente principale e siamo andati a dormire.

Era stata una giornata proprio lunga ed eravamo stanchi.

Continua da Ta’u, la via verso casa.

(Ta’u 17 agosto 2015)

1 Titolo più o meno equivalente a dottore in studi buddhisti che viene conferito dopo circa 13 di studio.

2 Dico “momento della giornata” perché come ho già detto qui le ore non esistono o almeno non come le intendiamo noi.

3 In tibetano “padre” e “madre”.

4 Una treccia “intrecciata” con un nastro rosso avvolta intorno alla testa.

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