
Dopo aver fatto colazione intorno alla stufa con della tuma1 e della carne secca che Targye ci riscaldava, siamo usciti.
Fuori ci aspettava un piccolo cavallo marrone chiaro dove Targye ha caricato un sacco con delle coperte. Eravamo diretti verso gli alti pascoli dei nomadi, lassù in cima alle montagne, dove finivano le foreste.
Alessandro e Targye sarebbero andati a piedi e io li avrei seguiti su quel cavallo.
Mentre tutti erano ancora occupati ad organizzare la partenza, mi sono avvicinato all’animale e ho cercato di farci amicizia. Lo accarezzavo sul collo, sussurrandogli delle parole gentili e la preghiera del Rifugio all’orecchio, un po’ per familiarizzare con lui e per invitarlo a collaborare durante il lungo tragitto ma soprattutto perché pensavo che a nessuno piace fare un lungo viaggio con un grosso peso (me, cibo e coperte) sulla schiena.
Provavo una forte empatia nei suoi confronti, certamente avrebbe preferito pascolare in tranquillità o galoppare libero senza alcun carico o cavaliere.
“Grazie Khampa. Grazie che mi porti su ai pascoli. Non potrei andarci in un altro modo modo, è difficile per me. Grazie amico.” Ripetevo di tanto in tanto mentre eravamo in cammino con affetto e gratitudine.
Siamo saliti e scesi su stretti sentieri, passando torrenti e inoltrandoci tra i rami di fitte foreste.
Di tanto in tanto ci fermavamo a riposare. All’inizio Targye camminava davanti a me tirando il cavallo con una corda ma poi ho acquistato sufficiente dimestichezza.
Khampa andava da solo e quando si fermava a mangiare dei ciuffi d’erba qua e là io lo lasciavo fare.
Siamo saliti per ore fino a raggiungere la cresta delle montagne sopra la valle e sotto di noi, alle nostre spalle, scorgevamo le casette del villaggio e il tetto giallo del Karchö Gönpa.
Una nuvola alla nostra altezza ci inseguiva e in poco tempo ne eravamo completamente avvolti.
Ha cominciato a piovere. Targye stava andando in direzione di una piccola tenda bianca nascosta tra gli alberi e gridava per avvertire che stavamo arrivando.
La sua voce echeggiava per quelle lande alte e una voce di donna gli rispondeva.
“Sono miei parenti.” Ci diceva lui.
Passavamo sotto degli alberi. Il cavallo saliva e scendeva sulla montagna. Il terreno era pieno di grandi massi e io mi dovevo chinare e proteggere il viso dai rami.
Eravamo ormai vicini e una donna dalla testa e il volto coperto da una sciarpa grigia era comparsa nella boscaglia sopra di noi. Il cammino diventava sempre più scosceso, gli alberi sempre più fitti e, mentre il cavallo scendeva, mi sono sbilanciato cadendo a terra.
Un uomo dai capelli lunghi raccolti in una coda mi ha aiutato ad alzarmi insieme a Targye.
“Ti sei fatto male? Hai sbattutto sulle pietre?” Mi ha detto.
Ho risposto che non mi ero fatto male e che non c’era problema.
Dopo pochi metri abbiamo raggiunto la tenda che si trovava sotto degli abeti e siamo entrati.
All’interno il terreno, in leggera pendenza, era stato livellato con dei ramoscelli di abete e tutto intorno erano sparsi vestiti, scarpe e oggetti di vario genere. In un angolo era sistemato un grande materasso vicino a cui erano ammucchiate tante coperte.
Io e Alessandro ci siamo seduti per terra in fondo alla tenda appoggiandoci con la schiena ai mucchi di coperte.
L’uomo con i capelli lunghi, che era un altro zio di Targye, era lì accanto a noi seduto in modo rilassato e ci guardava con curiosità.
Aveva i capelli ancora neri rasati ai lati e raccolti in una coda, i suoi occhi erano sgranati sotto delle sopracciglia arcuate e aveva sempre uno strano sorriso sul volto.
Il suo abbigliamento sembrava più quello di uno di città che quello di un nomade: sotto la giacca scura infatti indossava un maglione rosso e una camicia azzurra e portava dei jeans e degli scarponi di pelle chiara.
Ci hanno offerto del pane cinese al vapore e dello yogurt acido senza zucchero in delle grandi ciotole di metallo smaltate.
Improvvisamente ha cominciato a piovere forte e a grandinare e l’uomo è scoppiato a ridere fragorosamente guardando in alto, come un pirata che sul ponte del suo veliero guarda il cielo e ride della tempesta.
Il rumore era assordante e riuscivamo a malapena a sentire le parole dell’altro.
Se non avesse smesso di piovere avremmo dovuto passare la notte in quella tenda perché era già pomeriggio ma dopo un po’ la pioggia era diminuita notevolmente e così ci siamo rimessi in cammino.
Il terreno da quell’altezza in poi era erboso e privo di alberi come quello dei pascoli d’alta quota.
In un primo tratto c’erano molti grandi massi rotondi, continuavamo a camminare dentro la nuvola, procedevamo lentamente avvolti in quella nebbia bianca che dava al paesaggio un che di magico e di surreale.
Intorno a noi si dispiegavano vaste vallate e in lontananza delle montagne rocciose con le loro divinità sembravano osservare i nostri movimenti.
Alle nostre spalle ci ha raggiunto un cavaliere su un cavallo bianco, aveva i capelli lunghi nerissimi e un cappello a falda larga di feltro chiaro e anche lui, come noi e tutto il paesaggio che ci circondava, sembrava irreale. Targye gli ha chiesto in quale direzione dovevamo procedere , l’uomo ci ha indicato la strada e ha continuato a cavalcare per un po’ con noi per poi scendere in una parte della valle più in basso, passando vicino ad un labtse.2

Cominciavamo a vedere delle tende nere e alcuni yak che pascolavano placidamente nella nebbia. Nel frattempo si era rimesso a piovere e ci siamo affrettati verso la cresta di una piccola altura alla nostra sinistra. Giunti in cima ci si è dispiegata alla vista, sotto di noi, un’altra pianura dove c’erano altre tende nere e dove pascolavano molti yak e cavalli.
Targye chiamava le persone che stavano fuori tra gli animali.


Eravamo arrivati. Quello era il posto dove era nato e dove vivevano ancora un fratello e una sorella con le loro famiglie.
Era la sua terra: quei pascoli alti dei nomadi nascosti tra nuvole sorvegliati dalle divinità del cielo.
Continua da Case, strade e genti di Mukrong
(Ta’u, 18 Agosto 2015)
1 Zuppa di farina d’orzo tostato, burro e formaggio secco.
2 “Supporto” di una divinità del luogo, di solito di una montagna. Una piccola costruzione di pietra sulla cui sommità sono infilate delle frecce e altre armi di legno e a cui sono legate delle bandiere di preghiera di vari colori.