La fanciulla che guarda il mare

Trovo sempre un fascino particolare nelle piccole città di confine, una sensazione di essere arrivato alla fine e all’inizio di qualcosa.

Un senzo di nostalgia e allo stesso tempo  curiosità e voglia di varcare un confine entrando in un territorio ignoto. 

Questa sensazione è nell’aria a Kep, una tranquilla cittadina sulla costa della Cambogia a pochi chilometri dal confine vietnamita.

La vita lenta scorre monotona, lungo la strada che costeggia il mare, dove poco lontano bambini e giovani passano le giornate a giocare e fare il bagno tra le onde e a rilassarsi o passeggiare lungo la spiaggia nel tardo pomeriggio e al tramonto.

Un’ atmosfera pacifica e gioiosa, dove le grida dei bambini si sentono lontane attutite dal suono del mare.

Sono passati solo pochi giorni da quando siamo arrivati ma potrebbero esserne passati cento, infatti la monotonia e la vastità del mare danno una sensazione di spazio fuori dal tempo.

La sera le lucine del crab market e dei ristorantini sul mare punteggiano l’oscurità come quelle delle lucciole nelle notti di primavera.

Di fronte al mare le colline ricoperte di foreste offrono un rifugio durante i giorni più caldi. E su al Led Zep Café, nel parco nazionale, si potrebbero passare ore a riposarsi all’ombra guardando il panorama della baia.

Ma c’è una presenza tranquilla e silenziosa di cui non vi ho ancora parlato, una statua di una fanciulla bianca che guarda il mare.

Esistono tante storie su questa fanciulla bianca, tra queste si dice che la statua sia quella di una giovane che stia aspettando il ritorno del marito dal mare.

Oggi per i locali sembra essere diventata una sorta di entità protettrice dei pescatori e di chi si avventura per mare e incensi e frutta  vengono regolarmente offerti davanti a lei.

Un giorno ho passato del tempo vicino a lei alla luce del tramonto guardando l’isola di Phu Quoc, ora parte del Vietnam, a pochi chilometri di distanza, pensando a quanto fosse vicina e allo stesso tempo diversa, con i suoi resort, lunapark, aquapark, finte città italiane ed europee e attrazioni turistiche di ogni tipo e mi ricordavo quando da lì, dall’alto della ruota panoramica del lunapark, guardavo la costa della Cambogia immaginandomi la spiaggia con i bambini e i  giovani di Kep e la fanciulla bianca dall’altra parte che avevo appena lasciato pochi giorni prima.

Phu Quoc vista dalla fanciulla bianca sembra solo una delle tante isole semi disabitate  della Cambogia. Forse è più bello guardarla da lì.

Tra poco lasceremo Kep, ti saluto per questa volta fanciulla bianca. Stando dalla tua parte mi sento di penetrare i tuoi pensieri e le tue emozioni, tu che rappresenti per me questo senso di nostalgia e di guardare l’orizzonte lontano, tutto ciò che è sconosciuto. Spero di rincontrarti presto.

Immagini riflesse

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Sang Hing Praya Street

Sono seduto a un tavolo del King’s Cafe, uno dei tanti locali che si affacciano sul lungo mare di Sang Hing Praya Street (新興海傍街).

Le barche e i pescherecci ondeggiano lentamente nella baia e la luce del sole si rifrange sull’acqua  in un luccichio abbagliante.

Davanti a me vedo la sagoma di una piccola isola che ricorda un po’ quella del Vesuvio e alla  mia destra si allunga una delle punte di Lantau.

È sabato pomeriggio e c’è un continuo via vai di persone e biciclette che sfrecciano al suono di campanelli.

Per la maggior parte sono visitatori provenienti da Hong Kong, come li chiamano i locali, tra cui molti giovani.

Sulla Piazza del Tempio

Sulla Piazza del tempio di Tin Hau, qualche giovane arrostisce carne alla brace bevendo birra. Seduto con un amico ad un tavolo guardo i grandi alberi e le luci d’oro e d’argento della baia, Sorseggiando una bottiglia di Jiu Jiang Mi Jiu ci sentiamo pirati dei mari orientali.

E’ sceso il silenzio

E’ sceso il silenzio davanti al tempio di Pak Tai, appoggiato ad una ringhiera di ferro guardo il campo da basket bagnato che luccica nell’oscurità come un mare nero.

Una brezza notturna mi accarezza lievemente il viso e la luce rossa di un altare illumina, fioca, una piccola finestra di un balcone buio.

(Cheung Chau, Hong Kong 2016)

Giornate a Jamda

È il primo pomeriggio e in una piccola stanzetta di legno, fuori dalla finestra nuvole grigie si stanno addensando sulle montagne ondulate e in lontananza si sente il rumore dei tuoni. Sono sdraiato su un letto tibetano e la stanza è illuminata dalla luce fioca della finestra. Sono a Jamda nella casa di Rinpoche, in alto sulla collina sopra il monastero. Sono stanco e ora voglio dormire.

(Jamda, Golok )

Pace sulle colline

Sul bancone una statua di Cristo dai colori lucidi sembra benedire una stanza in ombra dove sono sistemate poche sedie di bambù e dei tavolini bassi. Siamo seduti su dei gradini di cemento, davanti a noi, su un grande piazzale, dei bambini giocano a calcio a piedi nudi in una stazione dei bus deserta di Parapat.

(Parapat, Lago di Toba, Sumatra)

Jakarta, completa vittoria! 

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Dopo un po’ di mesi di silenzio, mi trovo finalmente a scrivere qualcosa. Di solito quando scrivo qualcosa comincio da una idea generale, da una frase e lascio che le parole sorgano spontaneamente seguendo il loro flusso naturale. Queste a volte scorrono lentamente come un fiume e a volte fluttuano leggere come nuvole. Tra una nuvola e l’altra c’è sempre l’azzurro del cielo, lo spazio. Lo spazio è molto importante, in tutte le nostre azioni, parole e pensieri. Questo spazio, la leggerezza e la giocosità (senza un obbiettivo rigido da raggiungere) sono quello che per me è l’ispirazione.

Quando viaggio non sempre ho voglia di mettermi lì a scrivere e , quando mi sento ispirato, spesso non ho la penna e il quaderno a portata di mano.

Del resto credo che anche Sinbad il marinaio non si mettesse a scrivere durante le sue avventure o che almeno lo facesse nei momenti più tranquilli, quando riapprodava a terra.

Da qualche giorno siamo riapprodati, vicino alle coste meridionali di Suvarnadvipa, sull’isola di Giava, nella città della “completa vittoria” Jaya Karta meglio conosciuta come Jakarta.

Mi piace divertirmi cercando nel significato dei nomi, delle immagini e degli oggetti, dei buoni auspici. Per me questo è un po’ un gioco ed è importante che rimanga un gioco e che non diventi una cosa troppo seria. Infatti  la serietà, almeno come la intendono molti in Occidente, ha una qualità rigida, poco flessibile e fredda, un “tocco pesante” spesso accompagnato dalla necessità di intellettualizzare ogni cosa e ogni esperienza. Ma ogni cosa che studiamo e impariamo, se la  consideriamo troppo seriamente , diventa un’ostacolo.

Jaya Karta “completa vittoria”, come dicevo, ha un significato molto importante per me, specialmente alla fine o all’inizio di un viaggio (almeno è quello simbolico che ho voluto dargli io): Jaya Karta è la completa vittoria su tutti i nostri ostacoli, su tutti i nostri nemici, quelli esterni e quelli interni.

Ma a parte il significato del nome e la sua posizione geografica vicino a Suvarnadvipa (l’odierna isola di Sumatra) a darle un fascino particolare, Jakarta oggi è la capitale di un paese, l’Indonesia, di più di duecento milioni di persone1 che si estende su più di 17.000 isole (di cui solo circa settemila sono abitate), un gigantesco agglomerato di grattacieli e palazzoni attraverso cui scorrono stradone piene di macchine.

Fatta eccezione degli edifici coloniali costruiti dagli olandesi nella zona centrale di Menteng e quella nord sul mare vicino al vecchio porto, come altre città dell’Asia, Jakarta si è sviluppata quasi dal nulla, senza nessun piano urbanistico. A poca distanza dai mall e dagli uffici di cemento, ferro e vetro, tra strade e corsi d’acqua pieni di rifiuti, sorgono ancora case fatiscenti dal tetto di bandone e le casette basse di cemento dal tetto spiovente color mattone dei kampung più nuovi.

La città con la sua promessa di sviluppo, oltre ai capitali stranieri, continua ad attrarre masse di gente un po’ da tutto il paese, è sovrappopolata, mancano le infrastrutture e anche su brevi distanze si devono fare lunghi giri e inversioni. La macchina è il simbolo della ricchezza e della classe sociale più alta. A Jakarta non si cammina: i ricchi vanno in macchina anche per poche centinaia di metri e ognuno ne possiede una.

Tra le macchine sfrecciano serpeggiando la seconda e terza “casta”: l’esercito dei motociclisti con le marmitte modificate, mentre quelli che camminano sui marciapiedi sono la casta degli “intoccabili”. Sui marciapiedi infatti non cammina quasi mai nessuno, la gente ci parcheggia la moto, ci dorme per terra o ci si ferma a mangiare e a bere nei warung, i baracchini che a Jakarta sono, appunto, sui marciapiedi. Insomma se per l’automobilista è già difficile muoversi in città, per via del traffico continuo (in certe ore per percorrere circa due chilometri ci vuole più di mezz’ora), per il pedone è una missione molto difficile, se non impossibile.

I parchi e gli spazi all’aperto sono pochi e le persone si incontrano nei mall dove comprano, mangiano e vanno al cinema e spesso passano da un mall all’altro.

Kota Kasablanka, Kuningan City, Mega KuninganSetiabudi One, Grand Indonesia sono solo pochi di quelli che esistono in città e ci si trova più o meno tutto.

Jakarta è piena di mall, i mall sono un po’ ovunque, sono belli e moderni,  pieni di locali, café e ristoranti di tutti i tipi. Delle oasi piacevoli dove passare il pomeriggio a riparo dal caldo tropicale e dal rumore delle moto ma soprattutto dal traffico.

A parte tutto, Jakarta rimane una grande metropoli, sempre viva di giorno e di notte e capitale di quello che per me rimane uno dei paesi più interessanti dell’Asia, con tutte le sue follie e contraddizioni.

Di “vittorie complete” a Jakarta ce ne sono state tante, molte sono state dell’oscurità sulla luce ma in fondo basta mangiarsi un nasi goreng e bersi un cocco fresco all’ombra per dimenticarsi di tutto. Ada makan ada minum, tidak ada masalah! (C’è da mangiare, c’è da bere, non c’è problema!). Forse anche per gli integralisti islamici che stanno cercando di prendere piede nel paese e tra la gente (e che hanno già costruito tantissime scuole religiose), non sarà un’impresa facile, almeno finché ci saranno riso, pollo fritto e noci di cocco.

Per ora mi accontenterei solo in un’altra vittoria completa: quella sul traffico!

Jaya Karta! Jaya Karta! Jaya, Jaya Karta!

 L’Indonesia è la quarta nazione più popolata del mondo, dopo la Cina, l’India e gli Stati Uniti. E’ il paese con la più grande popolazione di mussulmani del mondo. Infatti solo gli indonesiani ne costituiscono circa il 13%.

La saggezza dietro le mura rosse

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Quando arrivai a Chengdu per la prima volta, quasi vent’anni fa, fui colpito, da come qui il Buddhismo e il Taoismo fossero ancora forti e vivi tra la gente, soprattutto tra gli anziani. Era estate e venivo dalla polverosa Cina del nord e, a parte il Fayuan Si a Xuanwu Men e un altro monastero a Xinjie Kou a Pechino, non avevo avuto l’impressione che il Buddhismo fosse così diffuso tra i pechinesi o i cinesi che avevo incontrato.

Mi ricordo di come nel monastero di Xinjie Kou parlai con un uomo di sessant’anni che mi disse che era la prima volta nella sua vita che metteva piede in un tempio buddhista.

Nel Sichuan rimasi stupito nel vedere come i templi buddhisti fossero vissuti, non solo come posti in cui pregare ma anche per altre attività ricreative. Nei loro cortili e giardini, infatti, ci si poteva incontrare per mangiare cibo vegetariano, bere il tè, giocare a carte o a majiang e cantare brani dell’opera locale. Questa loro tollerante accoglienza, in cui la spiritualità e la vita di tutti i giorni non erano mai così separate, faceva sì che in qualche modo ognuno, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente fosse a contatto con questo mondo. I buddha dalla penombra delle loro sale osservavano in silenzio la vita che si svolgeva all’interno di quelle mura rosse.

A Chengdu e nei dintorni ci sono tanti monasteri e templi buddhisti e taoisti, c’è la Montagna Emei, sacra al Bodhisattva Samantabhadra (cin. Puxian Pusa), la montagna taoista Qingcheng e il Grande Buddha di Leshan.

Nel centro della città ci sono il Monastero della Chiara Illuminazione, Zhaojue Si, il Monastero della Grande Compassione, Daci Si  e il Tempio della Capra Verdeil Qingyang Gong ma il mio preferito è quello che si trova tra le vie di Wenshu Fang piene di negozi, sale da tè e ristoranti a ridosso del lato nord del Primo Anello: il Monastero di Manjushri, il Wenshu Yuan.

Un altro tempio bellissimo è il Monastero della Luce dei Tre Gioielli, Baoguang Si che si trova a Xindu, un nuovo quartiere di Chengdu e che si affaccia su una grande piazza nuova. Il tempio custodisce alcune tra le poche reliquie del Buddha conservate in Cina e ha un grande giardino con uno stagno di fiori di loto, una tradizionale sala da tè all’aperto con sedie e tavolini di bambù e un padiglione dove ci sono delle statue a grandezza naturale dei Cinquecento Arhat (Wubai Luohan) e di altri bodhisattva.

Tanti anni fa Xindu era ancora una piccola cittadina a un’ora di autobus da Chengdu e al posto della piazza sulla strada che portava al Baoguang Si si affacciavano negozi con fuori esposti majiang dai mattoncini di vari colori (verde acqua, blu, fucsia, gialli, lilla ecc. ecc.). E’ stato qui che ho comprato il mio primo majiang ed è stato proprio su uno dei tavolini del giardino del tempio che ho imparato le regole di quel gioco e o iniziato a giocare, vicino ai fiori di loto, poco lontano dagli sguardi dei Cinquecento Arhat.

Il Wenshu Yuan però è sempre stato il “cuore” della città e, prima della costruzione di Wenshu Fang, si trovava in mezzo a viuzze strette, tra vecchi palazzi bassi. La sala da tè e il ristorante vegetariano del tempio erano tra i più frequentati e andavo sempre lì a mangiare o bere il tè.

In una delle mie visite avevo fatto amicizia con la coppia di anziani, marito e moglie, “custodi” del tempio che vivevano in una casetta piccolissima adiacente al muro di cinta accanto alla porta laterale. Non capivo molto quello che dicevano perché parlavano solo il dialetto locale e io ero uno studente di cinese alle prime armi ma loro sembravano capirmi abbastanza. La moglie era la più comunicativa, era lei che mi aveva adescato a uno dei tanti tavolini della sala da tè invitando me mia madre e un amico a prendere il tè nel cortiletto della sua casupola insieme al marito che aveva più di novant’anni. Ci aveva regalato delle medagliette dorate con l’immagine del Buddha della Medicina (Yaoshi Fo) e aveva tirato fuori per l’occasione, probabilmente molto rara e preziosa, dei biscotti scaduti. Quando la vidi per la prima volta muoversi tra i tavoli nel giardino vestita di nero e venirmi incontro, mi sembrò essere una maga.

Questo monastero è sempre stato per me un punto di riferimento, una culla di spiritualità, un posto dove caos e tranquillità sembravano stranamente coesistere ma dove anche il caos in fondo era permeato da una più vasta dimensione di quiete e contenuto in essa così come le nuvole sorgono e sono contenute nello spazio azzurro del cielo. In Cina è qui che sono sempre ritornato per riconnettermi con la saggezza di base della mia mente, rappresentata dal Bodhisattva Manjushri (cin. Wenshu Pusa). Con il tempo questo è diventato un rito e ancora oggi, ogni volta che arrivo a Chengdu, vado a rendere omaggio alla grande statua di Manjushri a quattro braccia che si trova nel giardino del monastero, all’ultimo piano della biblioteca.

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Questo infatti è uno dei segreti del Wenshu Yuan insieme alla reliquia del monaco Xuanzang e altre reliquie di Buddha e arhat conservate nei due lati dell’ultimo padiglione, quello del Vero Dharma (Zhen Fa), del Ruggito del Leone (Shizi Hou).

E’ così che, dopo aver ritrovato Manjushri, Il Vero Dharma e Il Ruggito del Leone, la mia mente è di nuovo forte e chiara. Sono di nuovo saggio e posso rilassarmi bevendo una tazza di tè al gelsomino in mezzo al caos dei giocatori di carte e di majiang mangiando semi di girasole.

I nove draghi prigionieri

In uno dei discorsi finali del ritiro di dieci giorni il maestro Goenka consigliava di meditare prima del sorgere del sole, verso le cinque del mattino quando ancora la gente dorme, parlava infatti di come le persone, in ogni loro azione, fossero animate dagli stati mentali negativi dell’attaccamento e dell’avversione e di come questi si riversassero nell’ambiente circostante come fattori inquinanti e avessero il potere di influenzare la nostra meditazione.

Il discorso filava, dopotutto quando entri in un ambiente dove tutti sono tristi o felici sei in qualche modo affetto da questi stati d’animo, ma il fatto che questo potesse influenzare la propria capacità di calmarsi anche stando nella propria stanza mi sembrava un po’ esagerato: “possono davvero gli stati negativi degli altri influenzare la nostra calma mentale fino a questo punto?” Mi chiedevo.

Sugli scaffali delle librerie nella sezione “spiritualità” ci sarà capitato di imbatterci in quei libri sull'”energia” spesso editi da case editrici anonime con titoli come I Vampiri Energetici, L’Energia Guaritrice della Preghiera, Gli Angeli Custodi e altri titoli strani questo genere.

Quando, perso nel magnetismo mentale del libro-shopping, mi ci cade lo sguardo, li sfoglio spesso per curiosità, ne guardo la copertina, le illustrazioni interne e tutta quella serie di schemi, diagrammi e tabelle che li costituiscono. Ora ammetto di averli sempre considerati libri di serie F1 e per questo non particolarmente rilevanti ma da un po’ di tempo ho cominciato a pensare che anche questa sia una sottile forma di orgoglio e che, come tutte le forme d’orgoglio, renda impossibile ogni vero apprendimento. Infatti ogni cosa è in un certo senso di per sé un insegnamento, sta a noi coglierlo.

Insomma, le verità di questi libri mi sono sembrate in un certo senso connesse a quello che Goenka diceva nel suo discorso, verità che mai prima d’ora ho sentito così reali e tangibili come qui a Hong Kong, dove le ansie, i desideri, le speranze e le delusioni  delle persone sono così intense e concentrate in uno  spazio così ristretto, da creare delle polarità energetiche di grande forza.

Come le acque di un torrente impetuoso che scorrono fragorosamente in una stretta gola di montagna (questa è anche l’immagine evocata dal fiume di gente che avanza freneticamente nelle strade strette tra le gole dei grattacieli) o come un cielo nuvoloso, apparentemente “calmo” ma carico dell’elettricità del fulmine.

Il fatto che il magnete trainante di questa città sia forse solo esclusivamente il denaro rende il tutto più intensificato: i soldi e il potere, infatti, attraggono facilmente il “lato oscuro della Forza” e mettono alla prova anche il più puro e forte dei cavalieri Jedi.

Mi era capitato più volte di tornare da una giornata in centro con il mal di testa ma non avevo mai pensato che questo potesse essere legato all’energia del posto. All’inizio infatti avevo pensato che fosse una coincidenza e avevo cercato le cause altrove ma poi , affinando sempre più le mie percezioni, e osservando più attentamente le circostanze in cui questi sintomi si manifestavano, fui quasi certo che queste sensazioni di malessere dipendessero dall’ambiente stretto e chiuso e dalle persone che mi giravano vorticosamente intorno.

Anche adesso, quando vado in centro (soprattutto nelle zone più affollate di Hong Kong Island come Central o Caswaybay o di Kawloon come Tsim Sha Tsui, Jordan, Mongkok e Hung Hom) noto che queste sensazioni diventano più forti e vanno attenuandosi appena mi allontano gradualmente dal caos. Una delle energie più evidenti a Hong Kong è l’aggressività, il modo in cui la maggior parte della gente si muove per strada è secco e ruvido, non c’è gentilezza nelle espressioni, nei movimenti, nei gesti e la maggior parte della gente si muove davvero veloce, troppo veloce. Inoltre penso forse di non aver mai parlato qui con una persona veramente calma, c’è una certa ansia di fondo, quasi sempre presente nelle espressioni e nel tono di voce che è sempre veloce e confuso.

In altre città forse questo è meno evidente o determinante perché la vita non è così veloce, c’è molto più spazio, piazze e giardini dove la gente si riposa e non è così ossessionata dal lavoro o dal successo (inoltre non tutto gira così esclusivamente e freneticamente intorno al denaro, almeno non ai livelli di Hong Kong) e soprattutto non ci sono più di 7 milioni di persone in molto meno di 250 kmq (infatti dei 1000 kmq di territorio meno del 25% è costruito e solo il 7% è a scopo residenziale).

È strano come Macau, con i suoi casinò e la sua fama della Las Vegas dell’Asia, sia comunque una città più dolce. Notai come la gente lì fosse più rilassata e camminasse piano e rimasi stupito nel vedere un  cinese locale leggere comodamente il giornale la mattina con tutta calma su una delle panchine di una piazzetta o la gente passassare più tempo nelle caffetterie. Forse era stata l’influenza dei portoghesi pensai o forse il fatto che lì ci vivono in pochi o che a Macau ci sia un lato oscuro latino della Forza (Lado escuro da Força) ma queste sono solo mie supposizioni. Adesso torniamo all’argomento principale, volevo solo fare un paragone.

In Cina esiste da millenni l’arte dell’individuare le energie della natura cercando di convogliarle in modo positivo, o di non ostacolarle, l’antica geomanzia cinese: il feng shui.

La teoria base del fengshui è che l’ambiente esterno influenza la nostra condizione psicofisica. Stranamente ora il fengshui delle città europee sembra essere migliore di quello di molte città cinesi.

A Hong Kong si dice che il feng shui del territorio sia estremamente positivo, quasi ideale per attirare prosperità e longevità, con il mare davanti, le verdi montagne nell’entroterra e le sue isole e coste guarnite di innumerevoli insenature e golfi. Nel feng shui infatti l’energia del Qi, rappresentata dal drago, scende dalle montagne e si ferma davanti a uno specchio d’acqua dove si raccoglie e si condensa. L’ironia però vuole che l’intervento esterno dell’uomo abbia quasi letteralmente distrutto il feng shui del posto, rendendo l’area urbana di Hong Kong una delle città con il peggiore feng shui dell’Asia.

I draghi, infatti, come gli abitanti umani di questa città, sono rimasti imprigionati nel cemento e la loro magica perla sta perdendo la sua lucentezza e con essa il suo potere. I draghi non hanno colpa, sono stati imprigionati dagli uomini ma gli uomini chi li ha imprigionati?

Esiste una prigionia mentale, quella dell’attaccamento e dell’avversione, dell’incapacità di vedere la vita sotto altri punti di vista, della resistenza al cambiamento e una prigionia fisica materiale, del luogo dove si vive. Spesso una genera e influenza l’altra.

Mi diverto a pensare come il concetto di prigionia sia relativo, infatti molti alloggi qui sono più simili a celle d’isolamento (sempre però a carissimo prezzo) mentre alcune prigioni dell’Austria o della Norvegia sembrano pensioni di villeggiatura. Con i prezzi del real estate ad una media di 10000-12000 HKD (1200-1400 euro) per “piede quadrato”, alla prigionia si aggiunge anche la schiavitù di decenni di mutuo sulla casa e il cittadino-prigioniero che dichiara con gioia la “grande notizia” di avere ottenuto il mutuo dalla banca, ora e anche schiavo.

Anche io sono prigioniero qui, prigioniero di una città, prigioniero di un’isola, prigioniero di una stanza, prigioniero di un sistema di valori che non mi piace ma spesso guardo il cielo e l’esempio da seguire, la via verso la libertà me la danno loro, le aquile che volano in quegli spicchi d’azzurro lasciandosi trasportare dalle correnti e le cui sagome si specchiano nei vetri  dei grattacieli.

E’ l’alba e dalla finestra al trentacinquesimo piano di un grattacielo guardo sotto di me una stretta strada ad alto scorrimento incurvarsi leggermente e passare in mezzo a degli anonimi palazzi altissimi poco lontano che serrano dei campi sportivi. In lontananza una linea serpeggiante di un treno sopraelevato passa dietro agli edifici e si vede anche una vecchia fabbrica messa di traverso. Inspiro ed espiro lievemente e mi viene in mente il fengshui.”A mali estremi estremi rimedi!” penso divertito ed è così infatti che dei maestri di feng shui vengono pagati a carissimo prezzo per “rimediare” ai misfatti dell’uomo (che qui mi sembra molto confuso). Io comunque ho deciso di seguire i miei maestri alati perché la vera libertà e il feng shui migliore anche i cittadini più ricchi di Hong Kong non se li possono comprare.

La cicala e le formiche

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Negli ultimi anni ho vissuto molto tempo in quelli che forse potrei definire i “grandi formicai dell’Asia” (primo tra tutti Hong Kong). Per fortuna l’aver volutamente rifiutato contratti a lungo termine mi ha permesso di viaggiare di più e di osservare da “esterno” questo stile di vita con tutti i falsi obbiettivi e falsi desideri che la gente crede veramente di voler perseguire. Io per ora non ho soluzioni, sono alla ricerca e sto facendo ancora dei tentativi ma sono sempre più consapevole dell’insensatezza di molte cose e di come a volte l’infelicità ci venga trasmessa sotto forma di felicità.

E’ da tempo quindi  che stavo pensando ad una favola conosciuta, La cicala e la formica e a come il suo messaggio possa anche essere visto da un altro punto di vista, perché tutti sappiamo come va a finire la storia classica ma forse, dopo quel finale, ce ne potrebbe essere un altro con un’altra morale.

Quando ero bambino e mi raccontavano la favola anche se dal tono si capiva che il narratore stava dalla parte della formica e che voleva convincermi ad unirmi al suo partito, a me è sempre stata più simpatica la cicala. La cicala era infatti un personaggio allegro e generoso che voleva condividere la sua gioia con le formiche invitandole a fermarsi a riposare all’ombra per cantare insieme a lei. Voleva che si riparassero dal caldo dell’estate e voleva condividere con loro la sua gioia. Cantava con il cuore riempendo del suo canto il cielo e la terra.

Quanto è bello il canto delle cicale! D’estate mi fermo sempre ad ascoltarle, danno una sensazione di pace e, all’ombra della calura estiva, conciliano il sonno.

Nelle valli ricoperte di foreste di Chongqing mi immergevo completamente in quel loro suono e per me era in un certo senso simile a quello di una cascata.

Le formiche invece mi sembrano fare attività senza senso, faticano enormemente e rischiano la vita solo per qualche misera mollica di pane, per poi tornare nei loro buchi sotterranei con poco spazio e senza luce. Sì, senza luce.

Nella storia de La cicala e la formica, alla fine sopraggiunge l’inverno. Viene la neve e la cicala non trova più niente da mangiare.

E’ affamata e trema dal freddo e va a bussare a casa della formica in cerca di cibo e di un riparo ma formica non l’aiuta, anzi la deride dicendole che, come aveva cantato tutta l’estate, adesso doveva ballare.

Senz’altro la formica è un esempio di operosità e dedizione ma mi viene da pensare: per che cosa?

Sì è vero, forse alla fine la cicala muore ma, dopo poco, morirà anche la formica, con una differenza però: la cicala almeno ha vissuto pienamente la sua vita e ha fatto veramente quello che voleva fare, si è divertita e ha donato la sua gioia al mondo.

La formica, invece, dopo una vita “piccola e meschina” di lavoro e sacrifici proiettati verso il futuro non si è goduta il presente campando miseramente solo qualche giorno, mese o anno  in più della cicala.

La formica per parafrasare le parole di un maestro tibetano: ha vissuto come se avesse dovuto vivere in eterno ed è morta come se non avesse mai vissuto.

La morale non c’è bisogno che la faccia io ma la scrivo comunque: la vita passa veloce e non torna indietro. Fai quello che ti rende veramente felice! Questo infatti è il vero e unico lieto fine.

Lo dico a voi ma lo sto dicendo anche a me stesso.

Questa è Hong Kong: la città dei ricchi poveri

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Il mio primo arrivo a Hong Kong è stato tutt’altro che traumatico, infatti come avevo scritto in un precedente post, ero andato a partecipare ad un ritiro di vipassana di dieci giorni nel villaggio di Hang Tau a Sheung Shui  ed ero entrato subito in una routine di ritmi lenti, scanditi da gong e silenziose pause del tè. Arrivavo dal rumore e dal disordine della Cina “Continentale” (Mainland o Da Lu come la chiamano un po’ tutti i cinesi per differenziarla da Hong Kong, Macau e Taiwan) e questa mi sembrava un’oasi di pace e libertà, almeno qui mi sentivo lontano dalla politica e dalla propaganda che ronzava dalle radio e compariva sugli schermi un po’ ovunque.

Alla fine di quel ritiro passai il resto della mattina e tutto il pomeriggio in giro nella zona di Tsim Sha Tsui, dove si trova il vecchio porto, il Victoria Harbour, e presi lo Star Ferry fino a Central  su Hong Kong Island. Venendo da dieci giorni di ritiro con una media di dieci ore giornaliere di meditazione, mi sembrava normale vedere tutto e tutti scorrere più veloce intorno a me e la cosa non mi aveva impressionato più di tanto. Passai delle ore intense come turista nella città prima di riprendere il treno verso Luohu e passare il confine per tornare a Shenzhen, nel Continente.

La seconda volta ci tornai due anni dopo sempre per qualcosa di “spirituale”: il primo insegnamento Dzogchen del mio maestro in Cina. Venivo da Chengdu e avevo prenotato una stanza economica alla Hakka’s Guesthouse, nell’Hua Feng Da Sha, in un grande e fatiscente edificio sulla via principale di Kawloon, Nathan Road, non lontano dal casino del Mirador Mansion e del Chungking Mansion, dove c’è la maggior concentrazione di guesthouse a poco prezzo della città.

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La stanza era forse la più piccola in cui io avessi mai pernottato, fatta eccezione per una di Bangkok e quella di Linxia. Comunque era sicuramente la più piccola per quel prezzo visto che pagavo 30 euro ma questo fattore non influiva più di tanto sul mio umore perché ero entusiasta di partecipare all’insegnamento e avevo tutta una città da scoprire. Rimasi in tutto una decina di giorni e, siccome l’insegnamento era la sera, il giorno andavo sempre in giro, uscivo la mattina e tornavo la sera tardi. Mi perdevo per le strade e le stradine seguendo il flusso e le sinergie di quella che per me era un’enorme Chinatown che sembrava uscita dai film di John Carpenter.

A Hong Kong avevo un vecchio amico conosciuto a Roma molti anni prima, spesso andavamo in giro insieme e lui mi mostrava la vita e la cultura locale. In quei giorni abbiamo visto una buona parte delle attrazioni turistiche e ho sperimentato in piccolo come gli Hongkonghesi vivono la loro città. Hong Kong allora mi sembrava una città molto cool.

L’anno dopo feci un biglietto Roma-Hong Kong perché non avevo ancora un visto per la Cina e quindi decisi di farlo lì. Anche questa volta presi una stanza alla Hakka’s Guesthouse fermandomi due settimane. Alla fine di quel viaggio presi l’aliscafo approdando in una terra amica e come un gesuita mi preparai per entrare a corte degli imperatori, arrivando a Zhuhai da Macau. Questa volta non rividi Tommy, il mio amico di Hong Kong perché non c’era ma girai sempre molto la città, divertito da quel ritmo veloce ed energico che mi girava intorno come un ciclone mentre sedevo in un Cha Can Ting bevendo il tè con latte locale e addentando sandwich con prosciutto e formaggio.

Sì infatti una cosa che ho capito dopo è che finché consumi, alimenti la catena e sei nel flusso, non sei estraneo a quel sistema e tutto fila liscio: come l’acqua.

Le leggi della termodinamica che regolano il movimento veloce di quei corpi nello spazio sembrano essere direttamente proporzionali a quelle che regolano la Borsa o le banche e i circuiti elettronici degli ATM. Spendi e non ti fermare! (Almeno non senza consumare). Consuma o continua a produrre, non riposare e soprattutto non pensare (perché forse se pensassi ti renderesti conto di questa grande follia, di tutto questo fumo senza arrosto).

Sì, è vero che oggi sempre più, tutto gira intorno al denaro e che questo modello è stato inventato in Occidente ma io non l’ho mai visto così moltiplicato all’ennesima potenza come l’ho visto a Hong Kong dove, se la gente nell’ora di punta ti travolge, spesso non ti chiede neanche scusa e se ti fa cadere a volte, preso così com’è dalla frenesia del correre (forse perché il tempo è denaro), neanche se ne accorge (mi è capitato almeno un paio di volte).

Vivo a Hong Kong ormai da un’anno e l’ho girata abbastanza per dire di conoscerla ma sono sempre più convinto che, al di là del particolare effetto scenografico di molti dei suoi paesaggi caratteristici, questo sia uno dei posti più infelici che io abbia mai visitato.

C’è da dire però che nelle mie analisi sono sempre soggettivo e non mi piace essere “corretto” e coerente, quindi forse questa visione potrebbe essere, come a volte accade, solo passeggera e filtrata attraverso stati d’animo che possono cambiare, o forse semplicemente ho vissuto troppo di tutto questo ma comunque per quanto possa piacere o non piacere, penso che certi elementi rimangano abbastanza oggettivi. Se volete quindi concentrarvi sui lati positivi leggete gli altri miei post che ho scritto o che scriverò su Hong Kong o altre pagine.

Come ho detto i lati positivi ci sono ma per me, soprattutto se si ha intenzione di vivere qui, la mancanza di spazio e la sproporzione esagerata del rapporto qualità-prezzo alla lunga li fa passare tutti in secondo piano.

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Sì, a Hong Kong tutto è conveniente, trovi tutto e di tutto quasi sempre a chilometro zero ma, soprattutto nelle zone centrali, questa città finisce quasi per essere un unico negozio urbano.

Nei lucidi e sterilizzati shopping centre la vita si svolge al chiuso sotto luci elettriche. Quando poi esci per strada e in pochi chilometri vedi sempre le stesse catene di negozi e conti la centesima scatola di Ferrero Rocher comincia a essere troppo.

I brand sono ovunque, anche sui vestiti della gente che attraversa di fronte a te ai semafori.

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Un altra’cosa che caratterizza Hong Kong è la varietà, infatti in poco più di 1000 kmq ci sono riserve naturali, montagne, isolette e spiagge dalla vegetazione rigogliosa. Questo è perfetto per un viaggiatore che si ferma qui pochi giorni o mesi ma dopo un po’ tutti finiscono per fare sempre le stesse cose e andare negli stessi posti e sembra un po’ di vivere in una di quelle bolle di vetro con la neve che vendono come souvenir.

La monotonia ci coglie un po’ dovunque ma a differenza di altre città dove puoi sempre prendere il treno o la macchina e allontanarti di chilometri e chilometri guardando la campagna o, quanto meno, la strada che scorre per ore fuori dal finestrino, a Hong Kong se vuoi viaggiare via terra ti devi accontentare di viaggi brevi, spesso insignificanti. Infatti Hong Kong è una città-stato, lo spazio è molto limitato e non e facile uscirne se non in aereo (infatti per andare nella “Cina Continentale” serve un visto e si deve passare il controllo passaporti).

C’è anche da dire, però, che con le montagne ricoperte di foreste incontaminate, le spiagge paradisiache e l’acqua cristallina dei paesi del Sud-Est Asiatico a poche ore di distanza  e soprattutto paesi come la Thailandia, dove il rapporto qualità-prezzo-convenienza-comodità, è tra i migliori dell’Asia, o la Malaysia, con l’ “isola cinese” dall’architettura coloniale di Penang, l’attrattiva di Hong Kong passa immediatamente in secondo piano (il mare qui infatti non è proprio pulito e le spiagge in alcuni periodi dell’anno si riempiono di rifiuti) e si riduce a quello che poi effettivamente è: un porto, uno snodo verso altri paesi. La Cina dietro la porta, con la sua storia danneggiata ma pur sempre millenaria, e Taiwan vicino sminuiscono ulteriormente la moderna Hong Kong agli occhi di un viaggiatore amante dell’Asia che infatti preferisce viaggiare altrove e passa a Hong Kong una media di 2-5 giorni.

E’ vero, ci sono le outlying islands: isole con case basse dove la gente è più umana e dove non possono circolare macchine ma Hong Kong è già di per sé una “città-isola” e vivendo lì uno finisce per vivere nell’isola dell’isola ed isolarsi ancora di più.

La visibile mancanza di spazio nelle abitazioni, i cui costi e dimensioni rasentano quasi il comico, e nelle strade, chiuse tra palazzi altissimi, alla lunga ti fa vivere in una dimensione claustrofobica e, per uno come me, che ama gli spazi ampi e i cieli azzurri è facile sentirsi prigioniero da questa realtà innaturale.

Anche se hai la fortuna di vivere in una casa “grande” infatti, accanto e di fronte al tuo edificio, a pochissima distanza (il concetto di distanza di sicurezza a Hong Kong è infatti inesistente) molto probabilmente c’è un altro alveare di cemento e la sensazione che si prova è comunque opprimente. L’unico rilassamento per l’occhio e per lo spirito è guardare il mare.

Infatti dei poco più di 1000 kmq di terreno meno del 25% è costruito e solo il 7% è destinato ad abitazioni dove vivono più di 7 milioni di persone.

Per finire la qualità e l’inquinamento sono migliori di quelle delle grandi città costiere della Cina ma non più tanto migliori.

Quando fai notare queste cose alla gente, questa ti risponde con un tono a metà tra orgoglio e rassegnazione: “This is Hong Kong!”

This is Hong Kong! Penso io, riflettendo su come la gente ripeta frasi fatte e vuote prive di significato e di quanto il brand possa servire come toppa per coprire i buchi dei vestiti vecchi.

This is Hong Kong! La “Perla dell’Asia”, una città ormai che campa sulla sua gloria passata, un porto, un crocevia affascinante e bello per una breve sosta turistica ma non per passarci degli anni.

This is Hong Kong! Una città con uno dei più alti tassi d’impiego del mondo, una città dove manca l’umanità ma non manca il lavoro e i numeri sono quelli del GDP e dell’Average Income, il lavoro è quello dei salary man e i soldi quelli delle banche. Una città ossessionata dal successo e dove chi non ce l’ha, molto spesso ha già deciso di uscire dalla scena in un gesto silenzioso è indolore.

Questa è Hong Kong, dove la gente sorride poco e le ragazze, pur spendendo fior di soldi per comprare cosmetici per i loro make-up, diventano brutte per via di quei loro visi imbronciati dalle espressioni infelici, dove si posta compulsivamente su Facebook ogni ristorante e ogni evento a cui si partecipa anche se sempre nel raggio di pochi metri o chilometri perché più in là non si può andare.

E’ qui che quando ho chiesto ad una ragazza di 19 anni qual era il suo sogno mi ha risposto comprarsi una Lamborghini, non pensando però che qui le Lamborghini e le Ferrari rombano e sfrecciano su vie quasi sempre strette e serpeggianti prima di fermarsi davanti all’ennesimo semaforo solo pochi metri più avanti.

Ci sono eccezioni? Chiederete voi. Certo ma per me non confermano la regola.

Primo viaggio a Cheung Chau

Cheung Chau è stata la prima delle outlying islands che ho visitato qui a di Hong Kong, ancora prima di Lamma e di Peng Chau.

E’ un isola piccolina (2,5 kmq) qualche chilometro a sud ovest di Hong Kong, costituita da due massicci di granito ricoperti da una rigogliosa vegetazione collegati tra loro da una lunga lingua di terra e da questo deriva appunto il nome che in cinese significa “isola lunga”.

Tutto è cominciato da una conversazione in un Mac Donald con il mio amico Lal, un indiano anziano che vive a Hong Kong da tantissimi anni, da quando era giovane.

Avevo incontrato Lal per la prima volta nel dormitorio di un centro di meditazione di Sheung Shui. Eravamo seduti ad un tavolo e stavamo compilando il modulo di partecipazione di un ritiro di dieci giorni di vipassana, dove, per tutto il tempo a partire dal giorno successivo, non avremmo dovuto parlare e guardare gli altri partecipanti negli occhi, oltre che ovviamente seguire gli otto precetti di shila, la disciplina. Stavo per firmare qualcosa in cui promettevo che avrei rispettato tutte queste e altre regole fino alla fine del ritiro e sapevo che sarebbe stato duro.

Tra i tanti cinesi di Hong Kong che erano lì più o meno silenziosi Lal era l’unico che parlava un po’ con tutti. “My name is Lal!” diceva con voce calda guardandoti dritto negli occhi.

Il suo non era semplicemente un “io mi chiamo…” “mi potresti dare la penna?”, “grazie!”, Quando vedeva che qualcuno lo ascoltava cominciava a fare dibattiti filosofici, parlava del Buddha e della meditazione ma non solo.

“Do you know who is one of the greatest masters of India?” chiedeva con una voce lenta e ondulata nel suo inglese dall’ accento indiano scandendo tutte le parole e quando rispondevi “Chi è?” Lui dopo una breve pausa di silenzio, tuonava: “Ooosho!”

Nel pronunciare quel nome si soffermava molto sulla “o” iniziale, la pronunciava con energia, prolungandone il suono come per creare un atmosfera mistica e misteriosa e faceva così anche con gli altri nomi. Non stava semplicemente parlando: muoveva le braccia e le dita delle mani in gesti istrionici la cui velocità ed energia seguivano il ritmo e la veemenza delle sue parole.

Ti fissava con quei suoi occhi sgranati e magnetici con le pupille leggermente cerchiate di grigio. Il suo sguardo era ipnotico e le sue espressioni solenni come quelle di un antico faraone egizio. Mentre lo ascoltavo con grande interesse pensavo che per lui mantenere un silenzio totale dal giorno successivo non sarebbe stata una cosa facile e così sarebbe stato anche per me. Forse era per questo che ci eravamo subito trovati.

La sua presenza durante il ritiro per me è stata importantissima e durante le pause il solo vederlo camminare fuori in tuta da ginnastica con quei pochi capelli bianchi spettinati mi metteva di buon umore. Spesso dopo pranzo o il pomeriggio si sedeva al sole sul muretto vicino a me in silenzio con in mano una tazza di te con latte. La sua era una presenza calda e sentivi di volergli bene.

Mi divertiva quando cercava il contatto con gli altri esprimendosi con gli occhi e con varie espressioni del viso nonostante ci fosse stato chiesto di rimanere raccolti e in silenzio.

Ma come sono trascorsi i giorni di quel ritiro forse ne parlerò un’altra volta, dopotutto questo post è su un isoletta di Hong Kong e non sui dieci giorni di vipassana se no l’avrei intitolato diversamente e comunque nella narrazione a me piace usare la tecnica delle scatole cinesi o delle matrioske. “Una storia dentro una storia” come le Mille e una Notte e Big Fish. Il rischio è però che a volte mi perda un po’ anch’io ma non sarà questo il caso.

Allora io e Lal stavamo seduti in un Mac Donald. Volevo prendere un tè o un caffè con lui il pomeriggio e Lal mi aveva portato lì. Infatti  Hong Kong è una città molto frenetica e non sono tanti i posti dove si può stare seduti a lungo senza dover riordinare per forza qualcosa, Mac Donald era appunto uno di questi e per noi era fondamentale. Vi ho già detto, infatti, quanto e come Lal riusciva a parlare e quindi per noi stare seduti a lungo voleva dire molto a lungo.

Avevo sentito parlare dell’isola di Lamma e chiesi a Lal ma lui mi disse che era meglio Cheung Chau che era più “caratteristica” così mi decisi ad andarci.

“Devi andare a Central e prendere il ferry dal molo numero cinque.”

“Come hai detto che si chiama?” Gli chiesi ancora fuori prima di salutarci.

“Cheung Chau” mi ridisse. “Molo numero cinque! E’ facile.”

“Ok! Grazie!”

Non avevo preso nessuna nota e mi allontanai ripetendo quelle parole tra me e me. “Cheung Chau! Cheung Chau! Cheung Chau!…..”

Quella e stata l’ultima volta che io e Lal ci siamo incontrati.

Il giorno dopo dal mio albergo-loculo del Hua Feng Building a Jordan o preso la linea rossa fino a Central e, uscito dalla stazione della metro, chiedendo un po’ in giro, sono arrivato al molo numero cinque da dove ho preso la slow ferry.

Per quasi tutto  il viaggio sono stato in piedi fuori a poppa della nave guardando i grattacieli allontanarsi davanti a me.

Dopo un po’ il mio sguardo finalmente si perdeva nello spazio. Nel blu del cielo e del mare mi sono sentito veramente di nuovo libero.

Sul ponte davanti a me cerano due ragazze giovani, anche loro sembravano provare la stessa sensazione, annusavano l’aria ricca di iodio e guardavano le onde e la scia bianca e spumosa della nave sorridendo sotto il sole.

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Mentre ci avvicinavamo alla terra, si vedevano gli edifici bassi e il verde delle colline. Il traghetto procedeva lento verso il molo in mezzo a barche, barchette e pescherecci di varie dimensioni che oscillavano sull’acqua.

Siamo scesi e prima di sedermi in uno dei tanti ristorantini a prendere qualcosa ho fatto una breve passeggiata.

Non c’erano tante persone in giro, finalmente un’atmosfera tranquilla, il mare e il sole e nessuna macchina. Quando scopro dei posti nuovi di solito mi piace camminare senza avere una lista delle cose da fare e da vedere ma scoprirlo piano piano, chiedendo alle persone, un po’ come una Caccia al Tesoro, soprattutto ora che mi trovavo in un’isola di pescatori e di pirati dei mari del sud.

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Ho preso la strada alla mia sinistra perché era quella che mi piaceva di più.

Qui, sul lungomare, c’erano tanti tavoli rotondi di ristoranti che facevano il pesce. Volevo trovare un tempio così ho chiesto a una delle signore di quei ristoranti che mi volevano far sedere a mangiare. Ero nella direzione giusta. Stavo procedendo in direzione di una piccola collina verdeggiante e, dopo un po’, mi sono trovato in una piazza con dei campi sportivi dove si affacciava rivolto verso il mare il tempio principale dell’Isola (Il Tempio di Pak Tai) con i tetti decorati da draghi, miniature di leoni e varie divinità dai colori vivaci.

In cima alla scalinata del tempio, ai lati dell’ingresso c’erano quattro leoni di granito e un grandissimo albero di banyan che faceva ombra su delle panchine poco più in là.

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Dopo aver visitato il tempio, mi sono infilato in una stradina perdendomi nelle vie laterali. Un   te’, poi un altro tè con latte in due ristorantini dai tavoli rotondi per strada e la sera un chao fan (risotto alla cantonese) e una birra ad uno dei ristoranti sul lungo mare.

Dal tavolo guardavo il tramonto e poi le luci delle navi e dei lampioni lasciare striature d’oro e d’argento sull’acqua scura.

Era tardi dovevo tornare.

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Le persone! Quanto sono belle le persone! Anche io spesso, preso dai miei problemi e insoddisfazioni me ne dimentico ma in altri momenti riscopro quanto mi piaccia di più parlare delle persone che incontro e degli eventi  che mi accadono per arrivare in un luogo che descrivere il luogo stesso, che staccato da tutti questi elementi diventa addirittura noioso.

“Insomma che cosa hai fatto a Cheung Chau?”

“Sono sceso dal traghetto. Ho passeggiato sul lungo mare. Ho visto un tempio. Ho mangiato qualcosa, bevuto una birra e ho ripreso il traghetto.”

Questa per me è la morte! Per fortuna il telegrafo non è stata una mia invenzione.

Forse la mia versione non è stata proprio lineare ma del resto non sono lineare neanche io e poi anche mia nonna mi diceva che dovevo prendere il risotto dai lati e non dal centro altrimenti mi sarei scottato la lingua.

Il cuore di Avalokiteshvara

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Dopo il mio ultimo post ho pensato di presentare alcuni video scegliendo quelli che per me sono i più belli.

Comincio dalla versione cantata di un mantra molto ascoltato in Cina e tra le altre comunità cinesi dell’Asia e che forse, a chi ha viaggiato molto in Cina, è capitato di ascoltare in uno di quei negozi di incensi, piccoli altari, rosari e statue di buddha che spesso si trovano ai lati delle strade vicino a un tempio buddhista.

Questo mantra è il dharani1  di Avalokiteshvara a Undici Volti e a volte lo potete sentire proprio nel giardino di un tempio, o su una montagna sacra come il Monte Emei o Wutai.

Dopo tanti anni in Cina, passati quasi interamente nel Sichuan, io sicuramente ho perso il conto di quante volte mi è capitato di ascoltarlo, a volte anche nei posti più inaspettati e impensati magari come suoneria di un cellulare e questo è per darvi un idea di quanto, nonostante tutto, Amitabha (cin. Amitofo) e Avalokiteshvara (cin. Guanyin) siano parte della società cinese dove il sacro e la vita di tutti giorni non sono poi così separati, e dove buddhisti e non buddhisti si riversano nei templi facendo quello che deve essere fatto lì: perché la cultura cinese è una cultura del fare.

Se ho detto che questo mantra si sente spesso, la versione cinese di un altro mantra, il Mahākaruṇā Dhāraṇī (cin. Da Bei Zhou), il Mantra della Grande Compassione, si sente ancora di più (ieri l’ho pure sentito in una bancarella del mercato notturno di Temple Street qui a Hong Kong che vendeva souvenir per i turisti). “La luce del Buddha illumina ogni cosa” (Fo Guang Pu Zhao) dicono i cinesi ed è proprio vero.

Avalokiteśvara ikadaśamukha dhāraṇī, il Dharani di Avalokiteshvara a Undici Volti (cin.聖十一面觀自在菩薩根本咒).

E’ un mantra essenziale del bodhisattva della compassione Avalokiteshvara dagli innumerevoli benefici tra cui quelli di protezione, purificazione. Nel sutra sono enuciati i 15 benefici specifici di questo dharani.

Dharani:

NAMO RATNA TRAYĀYA NAMAḤ ĀRYA JÑĀNA SĀGARA VAIROCANA VYŪHA RĀJĀYA

TATHĀGATĀYA ARHATE SAMYAKSAMBUDDHĀYA NAMAḤ SARVA TATHĀGATEBYAḤ

ARHATEBHYAḤ SAMYAKSAṂBUDDHE BYAḤ NAMAḤ ARYA AVALOKITE ŚVARĀYA

BODHISATTVĀYA MAHĀ SATTVĀYA MAHĀ KĀRUṆIKĀYA TADYATHĀ OṂ DHARA

DHARA DHIRI DHIRI DHURU DHURU IṬṬE VIṬṬE CALE CALE PRA-CALE PRA-CALE

KUSUME KUSUMA VARE ILI MILI CIṬI JVALA MA PANĀYA SVĀHĀ.2

Versione della cantante malese Imee Ooi più vicina alla pronuncia originale sanscrita.

Versione famosa della cantante di Hong Kong Cally Wong.

Ora, sia che vogliate solo ascoltare la sua melodia, sia che vogliate cantare o recitare il dharani, vi lascio all’ascolto.

1 I dharani (scr.dhāraṇī, dalla radice dhṛ: “che mantiene”; “che sostiene”; “che porta” ; che preserva”; “che protegge”) sono delle formule rituali recitate simili ai mantra, in genere molto più lunghi.  Secondo il monaco Kukai, fondatore dello Shingon giapponese, i mantra sono usati esclusivamente nelle pratiche esoteriche mentre i dharani sono usati sia in quelle esoteriche che essoteriche. Kukai classifica i mantra come una classe speciale di dharani e insegna che ogni sillaba di un dharani sia la manifestazione della vera natura della realtà.

2 Questo dharani si trova nel Sūtra del Dharani di Avalokiteshvara a Undici Volti (scr. Avalokiteśvara Ikadaśamukha Dhāraṇī Sūtra; cin.佛說十一面觀世音神咒經)  un sutra Mahayana tradotto dal sanscrito al cinese dal monaco Xuan Zang nel 656 d.C. Viene spesso scambiato con la versione sanscrita di un altro mantra molto usato nei paesi dell’Asia Orientale e soprattutto in Cina, il Mahākaruṇā Dhāraṇī, il  Mantra della Grande Compassione (cin.大悲咒).

Il mantra breve di Avalokiteshvara è invece OM MANI PADME HUM.

Mantra, preghiere e cantanti pop

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Nei viaggi in Asia i mantra e le preghiere insieme alle canzoni pop locali hanno sempre scandito le mie giornate. Nei templi e nei luoghi sacri, per le strade, negli alberghetti e nei negozi queste erano onnipresenti e spesso si mischiavano tra loro come il fumo dolciastro dei satay e degli altri spiedini si mischiava con l’odore dei vari curry, del latte di cocco, del durian o della frutta fresca di un chioschetto di frullati.

Capitava molto spesso infatti di mangiare in un baracchino per strada proprio vicino alle mura di un tempio e di sentire la voce di un cantante pop mischiarsi a quelle che per me erano ancora litanie e cantilene strane. Strane sì ma mi affascinavano così come mi affascinavano le melodie dei cantanti pop malesi, cinesi, thailandesi e indonesiani. Era così infatti che mi compravo gli album dei talenti locali facendomi consigliare i più belli o i più nuovi dai passanti o dai venditori.

Spesso guardavo la copertina per vedere se il cantante o la cantante mi piaceva, guardavo l’aspetto e lo stile. Qualche volta invece girando tra i negozi che vendevano cassette (sì cassette! Infatti ancora non c’erano i CD o forse ero io che ancora non avevo il lettore!) sentivo una canzone che mi catturava, un intro, un ritornello, un assolo e subito chiedevo: “chi è questo?!” “Questo!” Mi rispondevano allungandomi una cassetta ancora sigillata nella plastica che io prendevo subito in mano guardandola con entusiasmo, senso di vittoria e desiderio.

Ricordo ancora a Sibu, nel Borneo Malese, comprai quella che forse fu la mia prima cassetta di pop cinese. Tornato nel piccolo albergo sudicio dove stavamo, mi misi subito ad ascoltare il mio ultimo acquisto. Sulla copertina c’era un bel cantante alla moda con un’aria molto cool, non capivo una parola di quello che cantava ma mi piaceva così tanto che da quel giorno divenne mia colonna sonora del viaggio. Nella cassetta c’era anche un libretto di carta a soffietto con i testi delle canzoni, erano tutte in caratteri cinesi e mi sarebbe davvero piaciuto capirne il significato.

Non avrei immaginato che quattro anni più tardi avrei cominciato davvero a studiare cinese e che l’avrei imparato così bene. Nel corso del tempo ho riascoltato più volte quella cassetta e oggi ne comprendo perfettamente il significato e conosco il nome e la nazionalità del cantante. Dovrei avere ancora quella cassetta da qualche parte ma su youtube ne ho già ritrovato i brani.

Un’altra scoperta fu quella di un cantante pop/rock thailandese Andi: le sue canzoni insieme al cantante di Hong Kong Andy Lau furono la colonna sonora  dei miei giorni passati a Bangkok e del viaggio nel sud del paese verso la Malaysia.

Oltre alle cassette pop e rock varie collezionavo anche quelle della musica tradizionale, che a volte erano solo strumentali: le musiche dei batak e dei minankabau di Sumatra, quelle thailandesi, indiane e quelle taoiste cinesi che a volte potevano ridursi solo a dei ding e dong che duravano minuti.

Mi sono dimenticato di dire che come tutte le cose a scatola chiusa l’acquisto di una cassetta poteva andare bene come andare male.

Facevo anche scorta di cassette di preghiere di varie tradizioni spirituali e le ascoltavo prima di dormire, quando cercavo un po’di tranquillità o semplicemente per riconnettermi con l’Asia, quel continente che fin da quando ero piccolo è stato sempre la mia vera madre.

Di questo genere quelle dedicate alle varie divinità indiane erano le più numerose. Ero attratto dalle  figure colorate dei vari deva sulle copertine: Shiva, Durga, Ganesha, Rama, Hanuman, Krishna, ecc. ma, come per i film di Bollywood, erano lunghissime e poche erano quelle che davvero mi piacevano così mi dovevo sforzare per ascoltare tutto il lato della cassetta e spesso finivo per ascoltare solo una o due canzoni.

Le canzoni cinesi dedicate al bodhisattva Guan Yin o al Buddha della Medicina erano belle ma le mie preferite erano quelle tibetane che avevo comprato a Labrang: avevano una melodia tremolante accompagnata da un mandolino e la forte qualità di infondere la gioia e la calma.

A me infatti la musica come ogni altra cosa (e in questo rientra anche ogni forma d’arte) piace non perché è impegnata o rappresentativa o unica nel suo genere o importante (e qui potrei andare avanti all’infinito) ma semplicemente perché è bella, mi piace: è una cosa di sensazioni e non di costruzioni mentali e ragionamenti. Non è mente, è quore e lo scrivo pure con la q!

Quei pascoli alti nascosti tra le nuvole

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Dopo aver fatto colazione intorno alla stufa con della tuma1 e della carne secca che Targye ci riscaldava, siamo usciti.

Fuori ci aspettava un piccolo cavallo marrone chiaro dove Targye ha caricato un sacco con delle coperte. Eravamo diretti verso gli alti pascoli dei nomadi, lassù in cima alle montagne, dove finivano le foreste.

Alessandro e Targye sarebbero andati a piedi e io li avrei seguiti su quel cavallo.

Mentre tutti erano ancora occupati ad organizzare la partenza, mi sono avvicinato all’animale e ho cercato di farci amicizia. Lo accarezzavo sul collo, sussurrandogli delle parole gentili e la preghiera del Rifugio all’orecchio, un po’ per familiarizzare con lui e per invitarlo a collaborare durante il lungo tragitto ma soprattutto perché pensavo che a nessuno piace fare un lungo viaggio con un grosso peso (me, cibo e coperte) sulla schiena.

Provavo una forte empatia nei suoi confronti, certamente avrebbe preferito pascolare in tranquillità o galoppare libero senza alcun carico o cavaliere.

“Grazie Khampa. Grazie che mi porti su ai pascoli. Non potrei andarci in un altro modo modo, è difficile per me. Grazie amico.” Ripetevo di tanto in tanto mentre eravamo in cammino con affetto e gratitudine.

Siamo saliti e scesi su stretti sentieri, passando torrenti e inoltrandoci tra i rami di fitte foreste.

Di tanto in tanto ci fermavamo a riposare. All’inizio Targye camminava davanti a me tirando il cavallo con una corda ma poi ho acquistato sufficiente dimestichezza.

Khampa andava da solo e quando si fermava a mangiare dei ciuffi d’erba qua e là io lo lasciavo fare.

Siamo saliti per ore fino a raggiungere la cresta delle montagne sopra la valle e sotto di noi, alle nostre spalle, scorgevamo le casette del villaggio e il tetto giallo del Karchö Gönpa.

Una nuvola alla nostra altezza ci inseguiva e in poco tempo ne eravamo completamente avvolti.

Ha cominciato a piovere. Targye stava andando in direzione di una piccola tenda bianca nascosta tra gli alberi e gridava per avvertire che stavamo arrivando.

La sua voce echeggiava per quelle lande alte e una voce di donna gli rispondeva.

“Sono miei parenti.” Ci diceva lui.

Passavamo sotto degli alberi. Il cavallo saliva e scendeva sulla montagna. Il terreno era pieno di grandi massi e io mi dovevo chinare e proteggere il viso dai rami.

Eravamo ormai vicini e una donna dalla testa e il volto coperto da una sciarpa grigia era comparsa nella boscaglia sopra di noi. Il cammino diventava sempre più scosceso, gli alberi sempre più fitti e, mentre il cavallo scendeva, mi sono sbilanciato cadendo a terra.

Un uomo dai capelli lunghi raccolti in una coda mi ha aiutato ad alzarmi insieme a Targye.

“Ti sei fatto male? Hai sbattutto sulle pietre?” Mi ha detto.

Ho risposto che non mi ero fatto male e che non c’era problema.

Dopo pochi metri abbiamo raggiunto la tenda che si trovava sotto degli abeti e siamo entrati.

All’interno il terreno, in leggera pendenza, era stato livellato con dei ramoscelli di abete e tutto intorno erano sparsi vestiti, scarpe e oggetti di vario genere. In un angolo era sistemato un grande materasso vicino a cui erano ammucchiate tante coperte.

Io e Alessandro ci siamo seduti per terra in fondo alla tenda appoggiandoci con la schiena ai mucchi di coperte.

L’uomo con i capelli lunghi, che era un altro zio di Targye, era lì accanto a noi seduto in modo rilassato e ci guardava con curiosità.

Aveva i capelli ancora neri rasati ai lati e raccolti in una coda, i suoi occhi erano sgranati sotto delle sopracciglia arcuate e aveva sempre uno strano sorriso sul volto.

Il suo abbigliamento sembrava più quello di uno di città che quello di un nomade: sotto la giacca scura infatti indossava un maglione rosso e una camicia azzurra e portava dei jeans e degli scarponi di pelle chiara.

Ci hanno offerto del pane cinese al vapore e dello yogurt acido senza zucchero in delle grandi ciotole di metallo smaltate.

Improvvisamente ha cominciato a piovere forte e a grandinare e l’uomo è scoppiato a ridere fragorosamente guardando in alto, come un pirata che sul ponte del suo veliero guarda il cielo e ride della tempesta.

Il rumore era assordante e riuscivamo a malapena a sentire le parole dell’altro.

Se non avesse smesso di piovere avremmo dovuto passare la notte in quella tenda perché era già pomeriggio ma dopo un po’ la pioggia era diminuita notevolmente e così ci siamo rimessi in cammino.

Il terreno da quell’altezza in poi era erboso e privo di alberi come quello dei pascoli d’alta quota.

In un primo tratto c’erano molti grandi massi rotondi, continuavamo a camminare dentro la nuvola, procedevamo lentamente avvolti in quella nebbia bianca che dava al paesaggio un che di magico e di surreale.

Intorno a noi si dispiegavano vaste vallate e in lontananza delle montagne rocciose con le loro divinità sembravano osservare i nostri movimenti.

Alle nostre spalle ci ha raggiunto un cavaliere su un cavallo bianco, aveva i capelli lunghi nerissimi e un cappello a falda larga di feltro chiaro e anche lui, come noi e tutto il paesaggio che ci circondava, sembrava irreale. Targye gli ha chiesto in quale direzione dovevamo procedere , l’uomo ci ha indicato la strada e ha continuato a cavalcare per un po’ con noi  per poi scendere in una parte della valle più in basso, passando vicino ad un labtse.2

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Cominciavamo a vedere delle tende nere e alcuni yak che pascolavano placidamente nella nebbia. Nel frattempo si era rimesso a piovere e ci siamo affrettati verso la cresta di una piccola altura alla nostra sinistra. Giunti in cima ci si è dispiegata alla vista, sotto di noi, un’altra pianura dove c’erano altre tende nere e dove pascolavano molti yak e cavalli.

Targye chiamava le persone che stavano fuori tra gli animali.

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Eravamo arrivati. Quello era il posto dove era nato e dove vivevano ancora un fratello e una sorella con le loro famiglie.

Era la sua terra: quei pascoli alti dei nomadi nascosti tra nuvole sorvegliati dalle divinità del cielo.

Continua da Case, strade e genti di Mukrong

(Ta’u, 18 Agosto 2015)

1 Zuppa di farina d’orzo tostato, burro e formaggio secco.

2 “Supporto” di una divinità del luogo, di solito di una montagna. Una piccola costruzione di pietra sulla cui sommità sono infilate delle frecce e altre armi di legno e a cui sono legate delle bandiere di preghiera di vari colori.

Case, strade e genti di Mukrong

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La casa nel villaggio. Nyinko

La macchina si ferma davanti al monastero ed entriamo.

L’unico  edificio è un piccolo padiglione buio dal pavimento in assi di legno. Le decorazioni che vediamo sembrano molto antiche.

Targye infatti ci spiega che durante la Rivoluzione Culturale il monastero non è stato distrutto come è successo altrove ma trasformato in granaio e per questo ha più o meno conservato il suo aspetto originale.

Molte delle statue originali sono state portate via ma rimangono ancora delle bellissime statue di argilla dipinta raffiguranti Shakyamuni, Padmasambhava e altri buddha e bodhisattva.

Il Karchö Gönpa è di tradizione Nyingma e ha circa ottanta monaci, cinquanta dei quali studiano nelle varie scuole (shedra) dei più importanti monasteri Nyingma del Kham, il Tibet Orentale (Serta Larung, Kathok, Minyak Gönchen, ecc.).

Ora ne rimangono solo una trentina e solo nelle cerimonie più importanti (che si tengono cinque volte l’anno) i monaci sono tutti al completo.

Chiedo a Targye se qui  ci sono  dei tulku o “lama reincarnati” e lui mi responde che non ce ne sono ma che il khenpo1 più anziano, che ha più di ottant’anni, vive da trent’anni in ritiro su una montagna.

Usciamo e proseguiamo verso la casa di Targye ma dopo pochi metri la macchina si impantana su un lato della strada.

Delle donne del villaggio  vengono subito per cercare di tirarci fuori ma, dopo ripetuti tentativi, continuiamo a sentire il rumore sordo del motore e le ruote continuano a girare a vuoto, così Targye ci dice di aspettare in una delle case lì vicino: quella di suo zio.

Come tutte le case dei contadini tibetani, anche questa al piano terra ha il deposito dei viveri e la stalla e al piano di sopra le stanze tutte rivestite in legno ma la cosa che mi ha sorpreso è che qui gli spazi sono grandissimi e le travi e i pilastri sono costituiti da tronchi enormi.

Dopo essere saliti su per una scala veniamo accolti nella cucina e come accade sempre quando si è ospiti dai tibetani a prescindere dal momento della giornata2, ci offrono del tè e qualcosa da mangiare.

Come al solito, devo insistere che non vogliamo altro altrimenti quel qualcosa potrebbe diventare molto più sostanzioso.

Dopo un po’ che eravamo lì seduti, arriva lo zio di Targye, Nyinko,  un uomo alto con i capelli corti, dal volto scuro e un’espressione dura che ci sollecita a mangiare ancora e ci offre delle piccole patate arrostite.

Intorno a noi c’erano altri famigliari  tra cui una bambina silenziosa e il suo fratellino, un bambino dagli occhi vispi.

La cucina è l’ambiente più importante della casa tibetana: è qui infatti che di solito si mangia e ci si riscalda ed è qui che vengono accolti gli ospiti.

La grande stufa di ghisa rettangolare, piatta come un tavolo di metallo non solo è il fuoco dove si prepara da mangiare e si mette l’acqua o il tè a bollire ma, specialmente d’inverno, è il fulcro attorno a cui ruota tutto il mondo famigliare, il cuore della casa, dove risiede la divinità tutelare.

Prima della diffusione delle televisioni dei dei tablet e degli smartphones (che ormai stanno invadendo il Tibet) era qui che vertevano gli sguardi delle persone.

Sono rimasto tante volte accanto alla stufa a sorseggiare il tè ascoltando il gorgoglio dell’acqua e lo scoppiettio del fuoco o semplicemente il silenzio.

Passavo così giornate intere, sorseggiando il tè, immerso in quel   silenzio.

Un affettuoso silenzio in cui quelle persone erano semplicemente lì, finalmente vicine, con la stessa tolleranza ed empatia che hanno gli anziani con i bambini.

Molto spesso infatti il silenzio unisce e le parole dividono.

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La casa nella radura. Apa e Ama3

Mentre stavamo ancora lì seduti è tornato a prenderci Targye e siamo saliti su due moto: mio cugino dietro a lui e io dietro a uno dei ragazzi che era in cucina.

Abbiamo proseguito a fatica per un breve tratto di strada, le ruote delle moto scivolavano nel fango e abbiamo rischiato più volte di cadere.

Arrivati vicino ad una distesa erbosa, sotto una piccola collina, abbiamo proseguito a piedi. La luce era quasi quella del tramonto e un uomo magro dal volto rugoso e i capelli grigi lunghi raccolti in una treccia ci aspettava sul versante della collina.

L’uomo ci è venuto incontro e insieme agli altri mi ha aiutato a salire oltre una fila d’alberi, in una piccola radura dove c’erano una vecchia casa di legno che sembrava inabitata e, più in alto, una casa di pietra.

Sulla soglia di quella di pietra ci aspettavano una donna anziana con i capelli raccolti nell’acconciatura tradizionale delle donne del Minyak4  e due bambini.

L’uomo dai capelli grigi e la donna, che erano il padre e la madre di Targye, ci hanno invitato ad entrare facendoci sedere su dei sottili cuscini di lana di pecora e pelo di yak intorno alla stufa e ci hanno offerto subito del tè e del cibo: pezzi di carne magra da tagliare con il coltello e mangiare con le mani.

“Siamo nomadi, ci sediamo per terra. Le nostre case non sono come quelle dei contadini.” Diceva il padre.

La casa era costituita di un unico spazio grande diviso da tende variopinte con dei motivi floreali e colori molto vivaci. Tranne un piccolo spazio vicino alla porta d’ingresso, le pareti e il pavimento della stanza erano totalmente rivestiti di legno.

L’atmosfera era accogliente e, a parte alcuni scaffali dietro la stufa e il chökhang, l’altare delle offerte in un angolo, l’unica mobilia erano dei letti di ferro su cui erano ammassati vestiti e vari oggetti e due ciocchi di legno che i genitori di Targye usavano come sgabelli.

Non avevo mai visto una casa così: in effetti lo spazio e la mobilia ricordavano più quelli di una tenda.

Nella stanza oltre a noi c’erano anche i nipotini: Norbu Lhamo, una bambina di dodici anni molto calma e responsabile, Pema Lodrö, un bambino che non stava mai fermo e Yeshe Tondak, il più piccolo, a cui piaceva cavalcare un cervo rotondo di gomma verde.

Abbiamo parlato un po’. Fuori dalla finestra gli alberi e le montagne erano avvolte dalla nebbia e cominciava a calare l’oscurità .

Il posto era proprio isolato, il telefono non prendeva e ho pensato che sarebbe stato perfetto per dei ritiri.

Verso le dieci e mezza Targye ci ha preparato due letti con dei cuscini tibetani sul pavimento nell’angolo del chökhang, tirando una delle tende a fiori per separarci dall’ambiente principale e siamo andati a dormire.

Era stata una giornata proprio lunga ed eravamo stanchi.

Continua da Ta’u, la via verso casa.

(Ta’u 17 agosto 2015)

1 Titolo più o meno equivalente a dottore in studi buddhisti che viene conferito dopo circa 13 di studio.

2 Dico “momento della giornata” perché come ho già detto qui le ore non esistono o almeno non come le intendiamo noi.

3 In tibetano “padre” e “madre”.

4 Una treccia “intrecciata” con un nastro rosso avvolta intorno alla testa.

Ta’u, la via verso casa

Questa mattina ci siamo alzati alle quattro e da Serta siamo partiti per Ta’u (cin. Daofu). L’autista era un tibetano dalla faccia rotonda di piccola statura con un taglio di capelli con la riga che mi  ricordava quello di un mio amico turkmeno.

In macchina c’erano alcuni cinesi: un uomo di mezza età con gli occhiali e l’accento del nord, due sorelle di Ziyang, un tipo del Guangxi molto entusiasta che faceva agli altri discorsi sul buddhismo, sulle vite precedenti e future e sul sedile davanti era seduta una ragazza alta dai capelli lunghi, silenziosa e pallida che soffriva il mal di macchina.

Ci siamo fermati a Luhuo (tib. Dranggo) per una breve colazione in uno dei tanti mian guan, negozi di noodles ai lati della strada. Il tipo del Guangxi sgranocchiava contento del pane fritto tibetano durissimo cercando di offrirlo a chi gli stava intorno. Dopo un po’ siamo ripartiti arrivando a Ta’u verso le nove.

Ta’u è una piccola cittadina dell’altopiano tibetano ma la bassa altitudine, i campi coltivati, il verde e gli alberi che la circondano non gli fanno avere quel aspetto di polverosa città del far west come se ne vedono tante soprattutto nel Qinghai e nel Gansu. L’aria è più umida e la temperatura più mite e questo è di per sé già più riposante.

Appena scesi dalla macchina veniamo fermati da un gruppo di autisti che ci vogliono portare in destinazioni diverse e, come spesso accade, nel posto da cui siamo appena venuti. Prendo il numero di un’autista massiccio dai capelli mossi e dai lobi prominenti che mi dice di chiamarsi Orgyan ma che non sa scrivere il suo nome in tibetano.

Attraverso la strada e vado in un negozio a comprare due katak e chiamo il mio amico Targye che si presenta poco dopo in una macchina nera con un altro monaco del Karchö Gönpa.1  Targye ci chiede per prima cosa se abbiamo mangiato, io dico di no e così finiamo tutti in una sala da tè in quella che sembra la via principale, dove al centro, sotto un ponticello sormontato da un gazebo cinese (ting zi), scorre un torrente.

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La sala da té, come altre in cui mi era già capitato di andare, è in “stile vittoriano” con lampadari a finte gocce di cristallo (probabilmente plastica). Tutto intorno scintillano oro e specchi che riflettono la luce che entra dalle grandi finestre. Accanto alle finestre sono sistemati dei tavoli con divani di finto velluto scuro con incastonati tanti grossi diamanti di plastica.

Ci sediamo sui divani e ordiniamo del tè e dei noodles che ci vengono portati da uno dei ristorantini lì vicino. Targye e il suo amico scompaiono di nuovo lasciandoci per un tempo lungo e indeterminato a sorseggiare le nostre bevande.

In Tibet vivi veramente il fatto che il tempo come lo intendiamo noi, con i secondi, i minuti e le ore, non esiste e che sia solo un artificio, una costruzione mentale ma la buona notizia è che, dopo aver scoperto di non avere niente sotto controllo, puoi finalmente farti due risate e rilassarti.

A questo proposito mi viene in mente una storia divertente accadutami tanti anni fa in India…

Eravamo in Kerala, forse proprio a Kovalam, io mia madre e una sua amica e stavamo seduti in uno dei tanti ristoranti “per turisti” che hanno nei menù anche il caffè, i toast e altre cose dei western breakfast. Avevo ordinato dei toast con la marmellata e un chai, il tè con il latte e altre spezie indiano e, dopo tanto tempo che aspettavo, di tanto in tanto facevo dei cenni al cameriere, un ragazzo giovane dalla pelle scura, ricordandogli della mia ordinazione, lui sorrideva e mi guardava con uno sguardo rassicurante facendo dei movimenti ondulatori con la testa come fanno gli indiani del sud quando affermano qualcosa. Intanto il tempo passava e alla mia crescente impazienza lui continuava a reagire con estrema calma, senza il minimo imbarazzo, come se quell’attesa fosse la cosa più normale del mondo, senza scomporsi di un millimetro. Dopo circa quaranta minuti si presenta al tavolo portando in mano solo una tazza, ancora nessun toast e poggiando la tazza davanti a me dice: “your coffee sir!” io rimango sorpreso, mi coglie completamente alla sprovvista, “coffee?” penso tra me e me “ma io avevo ordinato un chai!” per un momento ho pensato di dirglielo ma poi, un po’ per la fame, un po’ per paura di aspettare altri quaranta minuti e un po’ perché mi ero, appunto, arreso, mi sono messo a ridere e ho cominciato a sorseggiare il caffè ed era buono anche quello. Ora non mi ricordo bene cosa ne è stato dei toast ma a quel punto non era più importante perché era quasi ora di pranzo e abbiamo ordinato del pesce.

Ok, torniamo alla sala da tè. Dopo un paio d’ore Targye e l’amico tornano a prenderci, risaliamo in macchina e ci fermiamo a comprare delle cose in un negozio per poi uscire dalla città.

La macchina comincia a salire su una strada sterrata che serpeggia sopra dei pendii scoscesi a ridosso di alte montagne coperte di alberi. In basso nella valle scorre un grande fiume, nei campi le spighe dell’orzo hanno già assunto il loro aspetto dorato  e  qua e là si vedono dei piccoli villaggi dalle colorate case tradizionali di pietra e legno. Siamo diretti a Mukrong, il paese di Targye.

Comincia a cadere una pioggia leggera, Targye ci dice che è un segno di buon auspicio e la macchina prosegue sobbalzando a ritmo di musica disco di artisti occidentali semi sconosciuti.

La natura sembra incontaminata. Ci fermiamo per una sosta.

Nell’aria si sente un profumo di alberi e fiori. Anche qui ci sono le stelle alpine, ne vediamo tante crescere proprio sul ciglio della strada.

Passiamo vicino ad una grande roccia con sopra scolpiti dei mantra bön, quello di Matri e di Shenlha Ökar. 2

“Qui vicino c’è un monastero bön e quella è la montagna sacra Drakkar.”

Finalmente arriviamo ad un villaggio con un piccolo monastero.

“Quello e il Karchö Gönpa.”

Siamo arrivati a casa.

(Ta’u, 17 Agosto 2016)

1 Monastero di Karchö.

2 Nomi di due divinità bön.

Pearl Blue Iced

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Ho appena guardato la pubblicità di una birra locale, la Blue Girl e ho pensato a quanto fosse idiota.

Un gruppo di occidentali si stanno, come sempre ovviamente, godendo la vita alla grande. Non è un apprezzare le piccole cose ma una vita spericolata vissuta al massimo, quasi da cocainomane.

Sì perché se non urli “wooooh!” o dici ciao con quella falsa euforia e quel tono ascendente, come avviene spesso ora anche in Italia, non sei abbastanza positive e non avrai molti “amici” o followers sulle piazze della città e su quelle di internet. Altri “amici” ti contatteranno meno perché non sarai abbastanza cool o non farai o avrai fatto abbastanza cose da mostrare e per questo non sarai degno di cosiderazione. Il loro Ego non ne sarà soddisfatto, non potranno dire ” Io c’ho un amico….” facendoti diventare una loro estensione.

Come se la nostra esistenza come esseri umani debba essere riconosciuta dagli altri in base a quello che facciamo o che mostriamo di aver fatto e non per il semplice fatto di esserci, di essere vivi su questa terra e di, come cantava Zucchero, avere bisogno di amore fin dai nostri primi istanti di vita, proprio come le piante hanno bisogno del sole. Ma forse non ci amiamo tanto ed è per questo che preferiamo fare gli idioti per essere universalmente accettati da altri idioti.

La nostra tristezza, la solitudine, le situazioni e gli stati mentali più ordinari e insoddisfacenti vengono nascosti, il tenerci sempre iperattivi può diventare uno dei modi per non farceli vedere, per sfuggire a noi stessi. Raramente parliamo della sofferenza, almeno della nostra, ne siamo quasi imbarazzati, oppure al contrario la ingigantiamo esaltandone i lati tragici e quando parliamo della sofferenza degli altri molto spesso lo facciamo con cinismo come un giornalista o un presentatore di un varietà televisivo. Facebook, Instagram e gli altri social con la loro sublimazione dell’Ego sono un po’ lo specchio di tutto questo.

Ritorno alla pubblicità perché spesso mi perdo nel fare questi voli pindarici.

Allora i giovani della pubblicità fanno trekking, vanno in bicicletta in salita nella neve, salgono lungo i pendii delle montagne ghiacciate come quelli della Compagnia dell’Anello, insomma di tutto di più.

Fin qui niente di così strano: la frivolezza della pubblicità del Cornetto Algida o del Maxi Cono mista allo spirito di squadra, “amici per la pelle volemose bene” e senso di raggiungere uno scopo condiviso che ritroviamo un po’ in Amaro Montenegro, solo che alla fine, giunti soddisfatti sulla vetta, a -10 tutti imbacuccati e stanchi, invece di un bicchierino del buon vecchio liquore o uno di cognak portato da un San Bernardo, si stappano e bevono una bottiglia ghiacciata di Blue Girl a testa con qualche frase edificante che dovrebbe essere un insegnamento per i telespettatori.

Mi vengono in mente i testi della canzone di Battiato “sul ponte sventola bandiera bianca!” e penso a quanto siano attuali soprattutto oggi.

A proposito di bandiere bianche, ora me ne devo andare in fretta perché in questo ristorante di Taiwan stanno cercando di ricreare il microclima dell’Antartide e sono in maglietta a maniche corte (qui una Blue Girl a temperatura ambiente sarebbe diventata un Calippo).

Esco, l’aria tropicale mi travolge, mi si appannano gli occhiali e arranco per qualche metro sulla via notturna piena di insegne luminose appoggiandomi ad una ringhiera. Di sottofondo qualcuno, probabilmente un po’ alticcio, ulula da un karaoke. Alzo lo sguardo è vedo sopra di me un grande cartello che sporge dal primo piano di un edificio: Aberdeen Fish Balls.

La gerarchia naturale

Dopo aver girato a lungo per le chinatown di Singapore, Kuala Lumpur, Bangkok e di altre città del Sud Est Asiatico, una delle prime impressioni che ho avuto arrivando a Hong Kong è stata quella di trovarmi in una grande chinatown, una chinatown enorme, da dove non si esce e dove ad ogni angolo e in ogni vicolo avrei potuto incontrare le Tre Bufere o David Lo Pan o dove ancora, in qualche negozio polveroso, avrei potuto vedere il volto in penombra del mago Egg Shen.1

Insomma una Chinatown Town, bellissima e affascinante, moderna e internazionale con ancora un’anima antica, che però è sempre più nascosta nel cemento:  quella dei miti, delle tradizioni e della religione popolare dei cinesi.

Una città che non riposa mai, dove a volte la notte e il giorno vengono confusi perdendo significato e dove, anche nelle ore più buie e nelle vie più isolate e più oscure,  si sente sempre un qualche brusio o s’intravede una luce o un bagliore.

Infatti, nonostante le sue piccole dimensioni, Hong Kong offre una grande varietà di attrazioni e divertimenti e chi si ferma qui per qualche giorno o qualche mese rimane colpito dalla magia di una città con così tante “piccole cose” da scoprire, una città misteriosa.

A lungo andare, però, la sua altissima densità di persone ed edifici, la sua mancanza di spazio e la sua velocità, possono influenzare negativamente l’equilibrio psicofisico di chi ci vive.

Infatti immergersi nel caos e nella vitalità di una città come questa (che offre veramente quasi tutto a chilometro zero), qualche volta è bello ma è anche bello poter scegliere.

Scegliere di entrare e uscire da questo caos, mantenendo una propria dimensione tranquilla dove tornare a casa. 

Tornare in un posto dove non si sia sempre investito dalle persone in una delle strette arterie della città, dove ad ogni attraversamento pedonale non si oda il fastidioso tic-tac dei semafori o il click-clak ad ogni stazione della metro o non si abbia la vista sbarrata da palazzi di quindici trenta o cinquanta piani (in alcune parti anche  settanta) che tagliano il cielo a piccoli spicchi.

Un tornare a casa, non solo con il corpo ma anche con la mente, con il cuore.

Infatti anche noi esseri umani siamo nati per vivere in una dimensione semplice, a contatto con la natura e con i suoi elementi. A contatto con il cielo e con la terra.

Questo è proprio uno dei principi base della filosofia cinese, dove l’armonia è rappresentata proprio da questo trinomio: Cielo, Terra e Uomo.

Il cielo sopra, la terra sotto e l’uomo in mezzo.

Questa sensazione è molto forte quando stiamo in una prateria della Mongolia, in Tibet o in qualsiasi ambiente naturale sconfinato.

Cielo, Terra, Uomo. “Tutto qui?” “Solo questo?” Sì semplicemente solo questo, niente di più semplice e allo stesso tempo niente di più straordinario. Siamo lì tra il cielo e la terra, senza intrattenerci, senza Iphone, Ipad e macchine fotografiche, senza parlare, senza muoverci. In silenzio, senza pensare di voler poi trascrivere questa esperienza in qualche blog o diario. Qualcosa accadrà, la magia di Cielo, Terra, Uomo si manifesterà (non verbalmente) se abbandoneremo ogni aspettativa.

Lasciando scorrere via i pensieri riguardo al passato e non afferrando quelli riguardo al futuro, rimarremo incondizionati da questo fiume e saremo senza passato e senza futuro. Saremo solo un essere umano che respira tra il cielo e la terra.

Questa è la gerarchia naturale che permea tutto il Classico dei Mutamenti (Yi Jing) ed è visibile nei suoi otto trigrammi (Ba Gua).

Gerarchia naturale non è solamente uno dei tanti “bei concetti” da incorniciare al muro o un nuovo libro dell’Astrolabio-Ubaldini da   esibire su una delle librerie delle nostre case-museo, ormai così piene di trofei, souvenir e cianfrusaglie di vario genere da sembrare il rifugio di un antiquario o di un rigattiere. Queste cose infatti al limite potrebbero arricchire qualche venditore ambulante di un mercato delle pulci ma non noi.

La gerarchia naturale è il mondo in cui viviamo e che abbiamo dimenticato, tradito e sepolto sotto il cemento. Il cemento esterno dell’urbanizzazione e il cemento interno dell’intellettualizzazione e del razionalismo.

A questo disordine esterno, infatti, corrisponde un disordine interno di cose accumulate e non interiorizzate che, invece di arricchirci, ci appesantisce sempre di più rendendoci sempre più goffi. La nostra mente infatti è colma di concetti come lo è una stanza disordinata e noi arranchiamo a fatica cercando di trovare un piccolo spazio dove stare tranquilli e a nostro agio.

Per quanto riguarda Hong Kong, se vogliamo allontanarci davvero dal caos e dalla frenesia quotidiana  della città e da quella sensazione (che alla lunga diventa quasi claustrofobica) di essere imprigionati in veri e propri muri di cemento, possiamo andare a vivere a Saikung, in qualche angolo remoto di Lantau o come ho già detto precedentemente attraversare il mare verso isole più piccole.

Se invece sentiamo che questo  non sia sufficiente a farci allontanare dal caos e dalla frenesia della mente potremmo pensare di partecipare ad una giornata o a un ritiro più lungo di meditazione, questo sicuramente ci aiuterà ad osservare il nostro disordine, eliminare la “claustrofobia mentale” e a fare più spazio nella nostra mente.2

1 Tutti personaggi del film di John Carpenter Grosso Guaio a Chinatown (Big trouble in little China).

2 Esistono varie forme di meditazione, varie scuole e vari insegnanti, alcuni buoni e alcuni non buoni, quindi è meglio informarsi adeguatamente prima di fare una scelta. Ho visto che a Hong Kong c’è la tradizione zen vietnamita di Thich Nhat Hanh (che considero un bravissimo maestro) che ha come centro principale il Plum Village sull’isola di Lantau o quella vipassana di tradizione birmana di S.N.Goenka a Hang Tau, Sheung Shui nei New Territories, che propone ritiri di 10 giorni (a cui ho partecipato una volta). Anche questa è molto valida  ma richiede una disciplina più rigida e tante ore al giorno di meditazione e per questo non mi sento di consigliarla a tutti (anche io sinceramente non so se farei un secondo ritiro ma questo non vuol dire). Questa meditazione appartiene alla stessa tradizione di quella praticata da Terzani in Un Indovino Mi Disse e anche il lignaggio di maestri è lo stesso.

Pensieri su alcune isole del Mare Cinese Meridionale

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Dal titolo sembra che voglia parlare delle Spartly Islands ma no, a dire la verità non ci ho  neanche pensato.

Infatti sono tante le isole disseminate nel Mare Meridionale (Nan Hai) e io parlerò di quelle in questo tratto di mare che si estende dalle coste frastagliate di Hong Kong, piene di golfi, insenature, promontori e penisole ai grandi arcipelaghi dell’Austronesia.

Di queste le isole più grandi sono Lantau e Hong Kong, che però hanno già perso quella loro “peculiarità”, essendo state collegate attraverso ponti e tunnel alla terra ferma.

Potremmo dire che l’ingegno dell’uomo abbia cercato così di bypassare il controllo del re drago che dimora in queste acque e che queste isole abbiano perso così la loro caratteristica più importante quella di essere isolate dalla  terra ferma ma rimane comunque il fatto che poterle raggiungere in metro (MTR) in pochi minuti abbia i suoi vantaggi.

Non mi sento ora di fare un’analisi di tutte le epoche storiche della Cina e sinceramente neanche mi interessa, forse in alcuni periodi è stato  diverso ma di certo la cultura cinese moderna, in tutti gli angoli del mondo in cui la si possa osservare, ha sempre dato maggior importanza alla pragmaticità piuttosto che alla bellezza e alla poesia.

Meglio stare seduto a un tavolo all’angolo, schiacciato al muro e circondato da gente rumorosa in un locale affollato con aria condizionata ghiacciata che a un tavolo fuori al “caldo” in tranquillità magari pure tra i fiori e con una bella vista (e non parlo solo durante le ore più calde).

Qui sarebbe divertente fare una digressione su ciò che è bello romantico secondo i cinesi ed è quello che proverò a fare in poche parole.

Bello: tendenza a preferire le cose grandi, vistose, pacchiane. I luccichini e tutto ciò che è dorato sono un cliché.  Meglio se l’oro e i diamanti sono veri. Infatti c’è anche un’attrazione particolare verso tutto ciò che è prezioso e in genere il bello è associato al rispettivo valore in denaro dell’oggetto: più costa e più piace.

Romantico: galanteria esagerata e molto showing off da parte degli uomini che sembrano aver studiato il copione di un film romantico-tragicomico con un retrogusto da film dei supereroi, immagine di purezza e atteggiamento infantile da parte delle donne che amano circondarsi di orsacchiotti e cuoricini di peluche forse per fuggire dalla cruda realtà: No money No party! No Face no Place! 

Infatti dietro ai sorrisi, spesso di facciata, si vive sempre in competizione e se non hai soldi e una buona posizione all’interno della società non sei nessuno.

Ora  non vorrei deviare troppo dall’argomento principale (ma forse l’ho già fatto) e quindi mi fermo qui.

Certo  è  divertente vedere come, accanto alla donna super truccata con vestito, scarpe col tacco e borsetta firmati che si vede spesso in giro, compaia una donna vestita completamente a caso, spesso in tuta e ciabatte di gomma se non direttamente in pigiama (questo soprattutto nel resto della Cina e anche durante il giorno).2

Questa cultura che fa della via di mezzo (zhong yong) un punto cardine della sua filosofia sembra non averla ancora trovata.

Del resto anche Battiato cercava un centro di gravità permanente ma non so se poi sia riuscito a trovarlo. Insomma “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Il mare appunto.

 Ecco, come dicevamo, il mare…, le isole…

Oltre alle due isole più grandi di cui abbiamo parlato sopra, ci sono anche isole isole, cioè isole che non hanno perso la loro “isolatezza”, e che non sono come il caffè decaffeinato e la birra analcolica.

Queste sono: Lamma, Cheung Chau e Ping Chau ma ormai ve ne parlerò un’altra volta.

Infatti, anche oggi, come Alice, sono finito agli antipodi di quello che stavo dicendo.

“Come? Un post sulle isole che non parla di isole?” direte voi.

Ma se ancora non l’avete capito, vi dirò un segreto: a me piace prendere il tè e festeggiare i noncompleanni!

Ho appena finito la mia tazza di tè al limone. Buona giornata!

Questo modello di romanticismo mi sembra un fenomeno relativamente recente ed è molto più diffuso nella Cina Popolare, soprattutto per quanto riguarda il ruolo maschile.

2 Queste sono caratteristiche culturali nonostante siano generali, rimangono abbastanza diffuse. Secondo me, infatti, non sono semplicemente delle generalizzazioni ma delle “tendenze” che ho avuto modo di osservare più o meno in tutte le comunità cinesi dell’Asia dove sono stato, da Pechino a Hong Kong, da Singapore a Kuala Lumpur. Queste “tendenze”, che a seconda del luogo hanno intensità diversa, raggiungono il culmine nella Cina Popolare e sono invece più stemperate nelle comunità cinesi post coloniali  (dove a volte sono “sotterranee”) ma sempre presenti, se non altro in sottofondo, appunto background.

Là dove volano le aquile 

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In mezzo a montagne verdi ricoperte di vegetazione sub tropicale, ammassi di palazzi alti e sottili si stagliano verso l’alto proiettando le loro ombre su vie strette simili a quelle di un labirinto.

Queste sono tagliate di tanto in tanto da passaggi pedonali sopraelevati e da altre strade rialzate che incurvandosi si avvitano verso il basso dove una moltitudine di esseri minuti si sposta a grande velocità tracciando, all’occhio di chi li osserva dall’alto, dei disegni simili a quelli del volo degli storni nei cieli d’autunno.

Un mare sempre mosso di uomini che come tante onde si sfrangono sui blocchi di cemento grigio, sul vetro e sul metallo illuminati dal sole.

Al limitare di questo caos, come uno specchio scintillante, si estende il mare, quello vero, quello  dalle acque calme, increspate dalle onde e dalla spuma.

Quello che per secoli è stato il ponte tra i continenti e le cui conchiglie conservano ancora, nel loro suono, storie di antichi viaggiatori e marinai.

Caos e calma. Solido e fluido. Limite e vastità.

Quelle distese infinite punteggiate da navi e da piccole isole che per estensione sono seconde solo al cielo.

Questa è Hong Kong, il “Porto Profumato”, accanto al delta del Zhu Jiang, (Fiume delle Perle). Una delle “perle del drago” dei mari del sud.1

Una città che non si ferma e non dorme mai che si affaccia sull’infinito. Là dove volano le aquile.

Una città che rischia di morire per via del troppo stress e per i milioni di smartphone zombies che la popolano ma che possiede ancora un’anima viva e pulsante, quella di  dell’Imperatrice del Cielo Tin Hau e dello scuro Imperatore del Nord, Pak Tai.2

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Una città “piccola” ed elettrizzata ma dove esistono ancora oasi di pace e tranquillità.

Per raggiungere questi luoghi, dobbiamo metterci in viaggio come Zhong Li Quan, Lü Dong Bin e gli altri Otto Immortali delle leggende taoiste e “Attraversare il Mare”. Solo così, infatti , lasciando alle spalle ciò che è familiare e partendo verso ciò che è ignoto, potremo incontrare il popolo delle isole.

Il viaggio comincia sui moli di  Hong Kong Island, quando saliamo su uno dei tanti ferry che quotidianamente si allontanano dalla IFC tower e dagli altri grattacieli appuntiti di Central e Admiralty.

Con un po’ di fortuna possiamo salire su un vecchio ferry e goderci l’immensa sensazione di libertà che si ha quando si percorre il vasto, riscoprendo ancora una volta il valore della lentezza. 

Salpiamo. Il tempo rallenta e il mare con la sua compassione lava via le nostre preoccupazioni terrene.

In piedi sul ponte della nave, possiamo ammirare le varie tonalità dell’azzurro e scrutare l’orizzonte come un vecchio marinaio o un pirata dei mari orientali, sentire il vento sul nostro volto e assaporare l’odore della salsedine misto a quello del gasolio.

Questa è una delle ultime poesie di Hong Kong.

C’è una sorta di sollievo nel vuoto del mare. Né passato, né futuro.

Orazio

1 L’altra perla di drago dei mari del sud è Singapore.

2 Due divinità della religione popolare cinese.

 

Dharma in pasticche 

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Vorrei condividere un pensiero sul dharma1 e la ritualità visto che è un tema tocca molti e ha toccato personalmente anche me (facendomi confrontare con tutte le resistenze di una mente occidentale) e parlare di come sono più o meno riuscito ad accettare ed integrare tutto questo nella pratica senza grandi problemi.

Dico più o meno perché infatti vivendo da molti anni in Asia, dove tra la gente comune questa ritualità non è compresa e spesso rimane solo una superstizione, qualche volta ho qualche “ricaduta”.

Come tutte le cose anche la ritualità ha un significato. I rituali infatti sono dei “mezzi abili” (upaya) che aiutano ad estendere la consapevolezza del momento presente o presenza mentale oltre la pratica formale che nella meditazione può essere seduta o camminata.

Questa consapevolezza ovviamente andrebbe estesa a tutte le azioni del quotidiano ma cominciare da un rito formale rende questo spesso più facile perché, mantenendo quel senso di sacralità in ogni gesto, la nostra consapevolezza ne è enormemente rafforzata.

Un’altra funzione dei rituali è quella di “delimitare” lo spazio in cui il dharma è insegnato e praticato. Questi non devono necessariamente essere elaborate cerimonie senza fine, possono essere anche solo il semplice bruciare l’incenso e fare un inchino, suonare un gong o recitare le scritture all’inizio della giornata  e spesso sono costituiti da elementi culturali che, presi da soli, sarebbero di poco valore ma che in rapporto al dharma e alla pratica ne formano il “contenitore”.

Proprio come una bella tazza che può essere più o meno decorata e con forme diverse ma senza la quale il buon te’ del dharma, oltre che a essere più difficile da bere, perderebbe anche la sua bellezza.

Forse non ci accorgiamo che anche la nostra vita nella sua quotidianità è un continuo ripetersi di riti. Il rito della doccia, il rito del caffè o della sigaretta, ecc. ma, quando questi non vengono svolti con consapevolezza o non vengono compresi e apprezzati, purtroppo diventano per noi quella serie di abitudini meccaniche che rendono la vita una noiosa routine senza senso.

Tornando al caffè: per gli italiani il caffè è un rito.

Basterebbe assumere solo quel liquido scuro contenente caffeina per goderne gli effetti e quindi potremmo prenderlo in fialette tipo enterogermina mentre stiamo fermi in macchina al semaforo. Più pratico e immediato no?

Ma non è così, pensare che c’è chi se non non è al vetro il caffè non lo prende nemmeno.

Detto questo possiamo scegliere il “contenitore” con le decorazioni che più ci piacciono, più vicine alla nostra sensibilità o, se abbiamo ancora questo limite rispetto alla ritualità, che ci disturbi meno.

Sì perché, come non dobbiamo attaccarci eccessivamente alla tazza o scambiarla con il suo contenuto (questo sarebbe infatti scambiare il mezzo con il fine), non dobbiamo, una volta compreso il suo valore o funzionalità, nemmeno esserne disturbati perché è un limite anche quello.

Come ha detto anche il famoso maestro di musica classica indiana,  Ravi Shankar:

 Ascolta! Niente al mondo può disturbarti tanto quanto la tua stessa mente. Infatti sembra che sono gli altri a disturbarti ma non sono gli altri, è la tua stessa mente.

Insomma che lo vogliamo o meno i riti sono parte di noi e scandiscono il ritmo della nostra vita come dei colpi di tamburo o il suono del gong all’interno dei templi e delle sale di meditazione e ci invitano ad apprezzare pienamente quello che stiamo facendo.

In quanti compleanni abbiamo seguito il rito della torta e delle candeline, se non per noi quanto meno per rendere felici gli altri?

Apprezzando questi momenti, questi piccoli gesti con gioia, gratitudine e presenza mentale, rendiamo l’ordinario straordinario ed è così che tutto può diventare  sacro.

Ma quando il sacro diventa “religioso” c’è un intervento dell’Ego,  una volontà di voler possedere, congelare questi momenti e istituzionalizarli. La “mela del peccato” è stata già colta!

Quindi la religiosità è in questo senso un “espropriazione” del sacro e ne rappresenta la fine.

Oggi noto inoltre la tendenza a proporre il dharma con caratteristiche asettiche, un dharma “sradicato” completamente da alcuni elementi importanti.

Molti medici consigliano di prendere sostanze nutritive e vitamine varie dal cibo e non dalle pasticche.

Ma si sta tentando di vendere un “nuovo dharma” in pasticche.

Un dharma “rilucidato” considerato a mio avviso erroneamente più veloce ed efficace negli “obbiettivi da raggiungere”.

Questo avviene  quando una mente eccessivamente logica e scientifica come quella occidentale moderna (nel suo aspetto negativo) incontra la sfera spirituale e cerca “chimicamente di estrarne i principi attivi” per creare qualcosa  di “migliore”.

Certo che è importante integrare la tradizione con la modernità contestualizzandone o decontestualizzandone alcuni elementi ma questo è più un processo di lenta osmosi che un estrazione di principi attivi in laboratorio, altrimenti se si usa molto l’intelligenza e poco la saggezza, si finirà come Icaro con le sue ali di cera e si praticherà un dharma col botto, senza però fuochi d’artificio.

1 In questo contesto quando parlo di dharma mi riferisco alla dottrina del Buddha e alla sua pratica, la meditazione. Secondo  me queste riflessioni (soprattutto  il valore del rito come “mezzo abile”)  possono essere estese,  almeno in parte, ad altre tradizioni spirituali o quantomeno possono essere uno spunto per riflettere sul il valore dei rituali e imparare ad apprezzare e a vivere le piccole azioni quotidiane con più consapevolezza.

Nuovi e antichi dei

 

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Quando gli antichi dei sono dimenticati

Nei miei viaggi tra le comunità dei cinesi nel sud est asiatico, a Hong Kong e nella Cina Popolare, ho sempre fatto caso a una differenza fondamentale: nella Cina Popolare il culto delle divinità della terra, dell’acqua e del cielo è praticamente scomparso.

Questi spiriti, che personificano le forze della natura e che dovrebbero essere rispettati per mantenere una società armoniosa, sono invece stati oltraggiati, offesi e, nel migliore dei casi, semplicemente dimenticati.

Ora la Cina sta, come dice, “governando la natura”(zheng fu zirang),  e pensa ingenuamente di riuscirci.

L’antico imperatore faceva i sacrifici al Cielo e alla Terra ma quando ci si aspetta che il Cielo e la Terra facciano i sacrifici ai nuovi imperatori vuol dire che c’è un  problema: l’ordine è capovolto e le sempre più frequenti catastrofi naturali sembrerebbero esserne un segno.

Se vuoi domare un cavallo selvaggio solo con la forza, senza alcun rispetto e gentilezza, questo prima o poi ti butterà giù.

Senza il culto di queste divinità e il culto degli antenati (non parlo degli antenati comunisti con le loro rispettive mummie)  manca qualcosa alla spiritualità cinese, qualcosa di trasparente e incolore come l’aria, che spesso è associato alle varie forme e ai vari  colori con cui entra in contatto (taoismo, confucianesimo e buddhismo).

Queste “divinità” e “spiriti” sono la manifestazione shen (神) delle forze del Cielo e della Terra e interagiscono con il mondo degli uomini a cui sono strettamente legate.

Possiamo trovare molte di queste tradizioni e miti nel “Classico dei Mari e delle Montagne”, lo Shan Hai Jing.

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La Cina Popolare e la Cina Oltre il Mare

Taiwan, Hong Kong, Macau e la Cina d’Oltremare invece, nonostante il dominio coloniale, hanno mantenuto intatte tutte quelle tradizioni e quel folclore che ha sempre caratterizzato il popolo cinese.

I cinesi d’oltremare infatti nelle loro chinatown hanno affondato radici forti che gli hanno permesso di rimanere culturalmente saldi in terra straniera (eccetto rare eccezioni). Non hanno mai avuto dubbi sulla loro identità culturale, non l’hanno mai tradita né  abbandonata e, se in alcuni casi questo è successo, è stato per decisioni o circostanze a loro  esterne.

L’altra Cina, è una “Cina nuova” (Xin Hua) che ha deciso di rinnovarsi e di cambiare  rompendo con la “società feudale” e la tradizione, seguendo quelli che chiamava modelli culturali stranieri ma che sono stati poi un pretesto per fondare un nuovo impero basato su una versione cinese di quei principi. Una Cina che nonostante le ostentazioni di forza e l’orgoglio è ancora insicura, soffre di un complesso d’inferiorità e infondo dubita ancora di se stessa.

Un paese che ha sì tante potenzialità ma anche tante sfide interne da affrontare e tanti problemi da risolvere e forse ha paura che potrebbe non farcela. Una Cina che con il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale è l’unica responsabile dei suoi fallimenti e delle sue distruzioni anche se fa fatica ad ammetterlo e che in un certo senso ha tradito se stessa, volendo sradicare le sue radici che ora cerca goffamente di trapiantare senza sapere bene come.

In questo quadro gli stranieri sono usati dalla propaganda come capro espiatorio per distogliere l’attenzione della popolazione (per la maggior parte ancora tenuta nell’ignoranza) dai veri problemi e dai veri responsabili che sono molto spesso interni.

L’intento è quello di mantenere viva nell’immaginario collettivo la figura di un “cattivo” esterno che vorrebbe distruggerli. Questo, secondo alcuni, potrebbe essere in parte anche vero ma non certo in questi termini così esagerati e teatrali che rasentano quasi il comico.

Questo sentimento è esageratamente rialimentato dai serial che chiamo per divertimento  dei “tre cattivi”: giapponesi, colonialisti/imperialisti occidentali (yang gui) e nazionalisti del Guomindang. Mentre gli ultimi due si cominciano a vedere sempre di meno, quelli sui giapponesi, ora più che mai, vengono trasmessi tutti i giorni a quasi tutte le ore cosa che forse ai responsabili della programmazione sembra patriottica ma che ad un osservatore esterno sembra ridicola. Insomma con la scusa del non dover dimenticare si continua a gettare benzina sul fuoco a tutte le ore.
Certo che se trasmettessero  meno questo tipo di programmi e più film comici o cartoni animati forse il rancore passato e le aspettative future si placherebbero e la gente vivrebbe più in pace nel presente.

Infatti in Kungfu Fu Panda il maestro Wu Gui dice: “Ieri è storia, domani è un mistero ma oggi è un regalo: per questo si chiama presente!” Ma forse questo presente per molti non è proprio così bello e armonioso.

Molte persone però, soprattutto tra i giovani, sembrano già cominciare ad accorgersi di questo sortilegio e qualcuno comincia a svegliarsi.

La nuova spiritualità cinese: forma, regole e materialismo

Nonostante una gran parte dei cinesi della Nuova Cina si siano riavvicinati alla spiritualità in tutte le sue forme, la loro comprensione rimane ancora superficiale  e, nella maggior parte dei casi, i rituali della gente comune (una versione un po’ “personalizzata” di quelli tradizionali) vengono riproposti in una serie di movimenti più simili ad una scena teatrale che altro. Insomma viene data molta attenzione alla forma che, come altre cose in questo paese, è spesso eccessiva e poco alla sostanza. Questo ingrediente aggiunto ad anni di educazione e slogan socialisti, fa sì che tutti i rituali vengano trasformati in una serie di rigide regole meccaniche quasi militarizzate.

Quando qualcuno prega o fa delle offerte accade spesso di sentire una voce “fuori campo” severa che sentenzia: “Non devi pregare così!” “Non ti devi inchinare in questo modo” o che ti “insegna” o “consiglia” sempre qualcosa: “non capisci! Ti insegno io come fare” “Ti sbagli! Ti consiglio di fare così!”

Si è sempre osservati, giudicati e controllati e raramente si è lasciati liberi di fare come ci si sente. I “credenti” per paura di sbagliare sembrano cercare di imitare nervosamente qualcosa, a volte imitano timidamente quelli che stanno intorno a loro ma che a loro volta sono confusi o stanno imitando altri. Si riducono così a scimmiottare dei movimenti e dei rituali del passato che non hanno del tutto compreso e assimilato in un gioco che sembra la versione mimica del telefono senza fili. Insomma c’è poca rilassatezza e, ancora per molti versi, una grande confusione.

C’è molto gan e poco wuwei.  Il fare le cose giuste al momento giusto e nella misura giusta, solamente se necessario, è diventato uno strafare che rovina e distrugge quello che andrebbe seminato e raccolto con pazienza. Se salti in padella a fuoco troppo alto o per troppo tempo bruci  tutto.

Quindi anche se  in Cina ci sono nominalmente milioni di taoisti e buddhisti, anche se alcune statistiche dicono che più del 30% dei cinesi segue la religione popolare, tra la gente comune è ancora tutto molto caotico e incerto. In quasi ogni ristorante è apparsa una divinità della ricchezza (cai shen) ma rimane ancora molta confusione.

Bisogna dire però che in quasi vent’anni sono stati fatti molti progressi e che imitando alla fine si può anche imparare. Come dice il guru dello Yoga della Risata: “fake it until you make it”.

La Cina sta imparando ma non sta ancora disimparando. Molte volte infatti quello che serve non è studiare cose nuove ma eliminare dei concetti, delle idee e dei punti di vista che ci limitano, come un denso strato di nuvole grigie ci preclude la vista del cielo, solo così potremo imparare davvero.

Allo stesso modo in cui si pulisce una tazza prima di versarci un buon tè. Se si versa il tè senza prima pulire la tazza, infatti, per quanto il tè possa essere di prima qualità, il sapore ne risulterà sempre alterato.

Il gioco sacro 

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Esiste un culto antico, un culto che rappresenta il vero substrato della spiritualità dei cinesi, che ha poi in parte accolto ed è stato accolto dal taoismo, dal confucianesimo e dal buddhismo. Senza questo manca qualcosa alla spiritualità cinese, qualcosa di semplice, ordinario ma anche di molto profondo.

Qualcosa che spesso non può essere individuato ma è sempre stato lì dal tempo in cui Pan Gu ha separato il Cielo e la Terra e prima che Nuwa creasse gli uomini.

È trasparente e incolore come l’aria e per questo viene scambiato con le varie forme e i vari colori con cui entra in contatto.

Questo culto, che molte volte è associato al taoismo, è in realtà più antico anche di questo: è la religlione popolare dei cinesi.

È la manifestazione shen (神) delle forze del cielo della terra e dell’uomo. L’anima ling (靈) del mondo. Il respiro primordiale qi (氣) dell’universo, di tutto ciò che esiste e non esiste.

Molte di queste tradizioni e miti sono stati raccolti nel “Classico dei Mari e delle Montagne”, lo Shan Hai Jing, un testo che risale a più di duemila anni fa e che originariamente fu attribuito al primo sovrano leggendario della dinastia Xia, colui che controllò  la grande alluvione: Yu il Grande.

La prima volta che sono entrato in questo mondo era da bambino, nei miei primi viaggi tra le comunità cinesi del sud-est asiatico.

Sono sempre stato affascinato da questa dimensione e da quelle che apparivano come le sue regole ma che in realtà erano solo i ritmi del suo fluire. Ritmi che intuitivamente mi sembrava di conoscere, di aver già conosciuto e che per me erano come un gioco.

Ero così attratto da quei volti austeri, da quelle figure rosse e nere coperte di ornamenti, i loro sguardi, a volte compassionevoli e a volte feroci, mi  guardavano nel silenzio degli spazi sacri, dietro al fumo degli altari.

Mi rassicuravano, sentivo la loro protezione e ho sempre stretto amicizia con loro, quell’amicizia sincera e curiosa che conoscono solo i bambini.

 “Ciao io mi chiamo Andrea, voi come vi chiamate? Chi siete? Che fate qui? Perché siete così? Perché avete quegli oggetti in mano?”

E a quelli dai volti più feroci:”Siete brutti ma buoni?”

Un amicizia che non voleva qualcosa in cambio, in cui c’era sempre un timoroso rispetto come quello che i bambini danno a un adulto o a un anziano.

Erano tanti i giochi a cui giocare: il gioco dell’accendere le candele, del bruciare incensi e la carta colorata, il gioco del pescare le asticelle di bambù con i responsi, il gioco dei talismani protettivi, il gioco delle benedizioni e alla fine il gioco del portarsi il libretto illustrato a casa che per me era come un fumetto, un fumetto di cui non riuscivo a leggere la lingua ma che mi facevo raccontare dai  saggi associando il racconto alle figure.

Ho mantenuto questo approccio alla spiritualità anche negli anni successivi. Infatti l’unico modo che aveva mio nonno di portarmi in chiesa era quello di comprarmi Topolino che io leggevo in silenzio aspettando di cantare l’alleluia, di  fare l’offerta alla vecchietta che passava tra le panche con la scatola e di scambiarmi il segno di pace con gli altri intorno a me. Queste per me erano le parti migliori, quelle che avevano più significato. Avrei volentieri giocato anche alla comunione ma mi dicevano che non potevo.

Il resto, le ripetizioni e le prediche erano di una noia incredibile ma io avevo il testo sacro della Disney a illuminarmi la strada.

Una volta a cinque-sei anni, guardando le statue dei santi nella chiesa di Ponte Milvio, domandai  sempre a mio nonno perché non c’erano quelle di Biancaneve e dei sette nani che andavo a trovare ai giardinetti  accanto alla Chiesa della Madonna dell’Olmo o alla stazione dei treni Gualdo Tadino. Certo che con quella domanda devo averlo proprio messo alla prova.

Insomma nella vita ho sempre giocato, ho imparato giocando e continuo a giocare imparando. Anche i miei primi libri sono stati i librogame.

Alcuni hanno giudicato questo comportamento come superficiale e sono riusciti quasi a farmi credere che fosse vero, che forse avevano ragione loro. In un mondo serio di adulti, esperti e studiosi infatti si deve essere seri, non c’è più spazio per il gioco e sembra essercene sempre meno per la gioia.

Dopotutto quando sono in tanti a pensarla in un modo e tu sei uno, ti vengono dei dubbi: forse la vita è serietà, la vita è sacrificio. Dovrei soffrire di più? Forse avevano ragione a scuola quando dicevano che ridevo troppo? Dovrei ridere meno, essere meno felice, piangere di più?

“Andare più in profondità” nelle cose rinchiudendomi nelle biblioteche, nella cassaforte della filosofia, dell’ideologia e dell’intellettualismo? E poi contrarre i muscoli del volto in espressioni accigliate, schiarendomi la voce prima di parlare in un tono grave e pieno d’orgoglio?

Questo forse piacerebbe di più perché rientrerebbe in quello che la società vede come qualità del buon cittadino, della “persona colta”, una persona prigioniera di modelli comunemente accettati come “giusti”, “dotti” e “saggi”.

(Forse l’avete già scoperto che per me Dotto è solo uno dei sette nani).

No! Finalmente ho capito che non avevano ragione gli altri. La mia non era superficialità ma leggerezza, non era stupidità ma semplicità, gioia, senso dell’umorismo e curiosità verso la vita, qualità che mi hanno fatto sempre innalzare sopra la sofferenza e volare alto sul mondo. Qualità che sono state preziose e indispensabili nella mia vita e che mi hanno sempre fatto rinascere dalle mie ceneri.

Ma dare ragione a me a questo punto potrebbe essere molto più complicato per questi altri, significherebbe rimettere in discussione le loro idee, i loro valori con le lettere maiuscole, la loro visione della vita.

Mi dispiace, continuerò ad andare per la mia strada nonostante tutti i loro “buoni” consigli.

Non ho mai veramente seguito e mai seguirò nessuna -gia, nessuna -fia, nessun -ismo e nessun -esimo. Seguo solo il mio cuore e intuitivamente so di non sbagliare.

A una cosa mi sto avvicinando sempre di più e cioè che se non si è  veramente se stessi, se non ci si libera di tutte le maschere e i falsi ruoli che ci sono stati imposti e se non si sta facendo quello che si desidera veramente nella vita, non si può essere felici.

Queste sono parole che abbiamo sentito tante volte e che spesso abbiamo ripetuto come dei pappagalli a noi stessi e agli altri ma che, nella maggior parte dei casi, non abbiamo compreso profondamente, non abbiamo realizzato.

Qualcuno potrebbe obbiettare che per molte religioni la vita è sofferenza, anche la prima Nobile Verità del Buddha dice così (cioè che tutto alla fine ci porterà a sofferenza e insoddisfazione) e potrebbe usare questo come giustificazione per continuare a vivere nella propria infelicità e a mantenere un atteggiamento triste e rassegnato.

L’infelicità non sempre è manifesta o non sempre ne siamo completamente consapevoli. Spesso è sottile, si nasconde dietro a una falsa euforia, a falsi sorrisi, alla macchina nuova, alla casa nuova, alla cena in un ristorante chic, all’uso compulsivo di internet, di una chat o di un social network.

Una ricerca che ci porta ad una continua corsa al piacere e all’acquisizione ma che però finisce solo per creare nuovi legami e costrizioni, nuove paure e nuove sofferenze.

Ma il Buddha vede che tutto è uno show, un teatrino di marionette e per questo ride. L’insegnamento sta nel ridere come lui ed essere felici anche nelle avversità.

O se preferite Battiato trovare l’alba dentro all’imbrunire o un centro di gravità permanente. 

Un’altra bella immagine di questo è data anche dalla canzone il Cielo è sempre più blu di Rino Gaetano.

Ci sono dei nodi che sembrano indissolubili ma in realtà basta tirare leggermente la corda per scoprire che non erano mai esistiti.

Una cosa è certa: se non si ride più e si è perso il senso dell’umorismo o se si ride poco, vuol dire che qualcosa non va, che i filosofi che abbiamo studiato non ci sono serviti e che siamo molto lontani dalla felicità e dalla saggezza. Perché un saggio che non sa ridere è solo uno stolto.

Questa è la società che vorrebbe che mettessi “la testa a posto” ma per fortuna non l’ho messa altrimenti mi ci avrebbe dato un sacco di mazzate come i carabinieri a Pulcinella.

Impone le sue regole come faceva lo sceriffo di Nottingam ma io sono Robin Hood o, come la Compagnia delle Indie, cerca la mia fedeltà tentando di farmi stipulare un trattato ineguale per impossessarsi del mio regno ma io sono la Tigre di Mompracem.

Vorrebbe quadrarmi ma sono tondo, vorrebbe che fossi un sasso piatto che giace in fondo a un lago ma sono un rolling stone che rotola lungo una vasta pianura. Dopotutto non si può dire che sono uno che quando cammina riga dritto (quelli che mi conoscono lo sanno).

In questo gioco di ombre e di luci, non sono ancora stato preso ma forse riesco a fare tana libera tutti così le regole del prossimo gioco le decideremo noi.

Non sono andato fuori tema, è che partendo da un saggio sulla spiritualità dei cinesi sono nate nuove riflessioni così ho pensato di seguire l’ispirazione e condividerle con gli altri. Se me le fossi tenute per me infatti sarebbero servite a poco e si sarebbero seccate come fiori in inverno.

In fare questo mi sento più umano e spero di essere riuscito a farvi sentire più umani anche a voi o almeno a regalarvi un sorriso ma quando un giorno riusciremo a ridere della vita, di noi stessi e dei nostri problemi, di goderci il nostro teatrino come il Buddha, allora quella sarà la cosa più bella.

Quando questo accadrà tutta la tensione, le paure, e i pensieri si scioglieranno nell’aria in un istante, cadrà una bellissima pioggia, i primi raggi di sole cominceranno a farsi strada tra le nuvole e comparirà l’arcobaleno.

I segreti di Sujaya 

5 Febbraio 2016

Era notte inoltrata, stavo in piedi vicino ad un indian kebab in un’affollata zona di bar e pub quando mi si è avvicinata una piccola signora indiana chiedendomi se poteva parlare con me. Aveva il viso scavato e rugoso ma degli occhi grandi pieni di vitalità come quelli di una bambina. Mi disse di chiamarsi Sujaya (ho pensato fosse stato meglio cambiarne il nome).

Come quasi tutte le persone del subcontinente indiano, Sujaya era molto comunicativa e riusciva facilmente a catturare i suoi interlocutori con note giocose di gioia e solennità. Io ero stanco di stare in piedi, Sujaya nel frattempo si era avvicinata a Sunny, il bengalese che lavorava all’indian kebab, e stava tornando verso di me con una bottiglia di un qualche cocktail alla vodka. Ci spostammo in un piccolo spiazzo all’ombra delle fioche luci elettriche, su una panchina di legno circondata da bottiglie di vetro vuote. Davanti a noi  c’era un ininterrotto viavai di ragazzi in camicia e pantaloni e ragazze in minigonna e scarpe coi tacchi, molti dei quali già barcollavano, si trascinavano o venivano trascinati in avanti per effetto dell’alcol.

Non nascondo di essere venuto anche io lì con il desiderio di conoscere delle ragazze e parlare con quella piccola signora  per la mia “piccola mente” era un allontanarmi da quel “obbiettivo”.

Quasi sempre infatti i desideri che formuliamo nella nostra mente non corrispondono a quello che vogliamo profondamente.

La vita, come un grande specchio, manifesta a noi quello di cui abbiamo veramente bisogno in quel preciso momento.

Insomma i nostri desideri non vengono esauditi come quelli del genio della lampada, almeno non nella maniera e nei tempi in cui le nostre menti limitate si aspettano.

Quella notte, quella piccola signora indiana era la mia manifestazione e sicuramente era lì per insegnarmi qualcosa, qualcosa che spesso è al di là delle parole.

Sujaya cominciò a raccontarmi in modo non lineare storie e aneddoti della sua vita e io cercai di ascoltarla profondamente abbandonando ogni altro pensiero.

Nel corso della narrazione di tanto in tanto faceva delle pause, guardava davanti a sé, sorseggiava il suo cocktail alla vodka ed ecco che improvvisamente la sua voce tuonava e mostrava lo sguardo coraggioso e la dignità di una tigre. Come me, anche a lei piaceva rapportarsi alle persone in modo diretto, parlando del più e del meno. Anche lei, come me, era un’osservatrice, una cantastorie.

Sono sempre stato attratto dalle storie della gente comune, vite di gente piccola e ordinaria, che vive e lascia un contributo per il solo fatto di essere sé stessa e, senza pretese e troppe ambizioni, si muove silenziosamente nei tanti retroscena della vita, invisibile agli occhi di chi cerca il grande. Vite nobili nella loro insignificante unicità, vite minute e graziose, quelle che Acheng chiama vite minime.

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L’Arrivo a Hong Kong e i viaggi in altri paesi dell’Asia 

Sujaya era nata a Lahore, in Pakistan. Suo padre faceva il pilota di aerei così lei era venuta a Hong Kong da ragazza con la famiglia e aveva studiato a Macau. Era cristiana e diceva che Dio era lo stesso per tutti anche se con nomi diversi, per i cristiani, musulmani, buddhisti e indù e non le piacevano le persone prepotenti con menti ristrette.

Era stata in tanti paesi dell’Asia ma per lei Hong Kong era il posto migliore. Infatti diceva che, anche se il costo della vita era alto, se lavoravi molto potevi guadagnare molto, che il sistema legislativo era buono come in Gran Bretagna e che la polizia non era corrotta come in Pakistan e in Malaysia. Nel corso degli anni era tornata più volte in Pakistan a Lahore ma non sarebbe voluta tornare a viverci per via della mancanza di un sistema legislativo valido che tutelasse la popolazione.

Sembrava però capire la corruzione dei poliziotti del suo paese quando diceva che erano troppo poveri e che le loro famiglie erano numerose. Nelle sue parole c’era quasi un tono di complicità.

Quando le chiesi com’era la Malaysia, mi rispose che lì la sicurezza non era buona. Gli dissi di farmi un esempio e lei rispose che una volta era stata scippata per strada.

Diceva che a Singapore, per quanto in certi aspetti simile ad Hong Kong, si guadagnava troppo poco rispetto al costo della vita.

“A Hong Kong  se non ti vai a cercare problemi non hai problemi.” Affermava con tono deciso.

“Hong Kong è il posto migliore!”

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Dio, fantasmi e fatture: il ruggito della tigre.

Come la maggior parte delle indiane a Sujaya piaceva parlare di Dio, dei fantasmi e della magia ma il suo atteggiamento verso queste cose era attivo, aveva come un fuoco che ardeva dentro di lei e bruciava ogni ostacolo.
“Qualcuno ha paura dei fantasmi io no, cosi gli dico: perché  hai paura? Una notte in un bagno pubblico ne ho visto uno. Era una signora di mezza età che mi ha sorriso e poi, quando mi sono girata, non c’era più. Sono uscita ma non c’era nessuno. Un’altra volta ho visto uno scheletro azzurro vestito elegante e gli ho detto: ciao! Dove vai?” Pronunciò queste ultime parole con grande veemenza e poi scoppio a ridere.

“Non ho paura, se hai paura vincono loro!” Diceva con la profonda convinzione di chi ha realizzato quello di cui sta parlando.

“Quando li vedo li colpisco con una ciabattata in testa e loro spariscono.”

Ho pensato che dicesse così forse perché con il caldo a Hong Kong vanno tutti in giro in ciabatte. Comunque io non avrei avuto lo stesso sangue freddo infatti da piccolo, e non solo da piccolo, dormivo sempre con una luce accesa proprio per tenere lontani i mostri o i fantasmi.

Poi Sujaya cominciò a raccontare di come una volta la moglie del suo capo, un’indiana, gelosa delle attenzioni  del marito verso di lei, le avesse fatto una fattura mettendole qualcosa nel cibo e di come lei, dopo aver finito di mangiare il pasticcio incantato, le avesse detto in tono di scherno: “Tu hai tanti dei! (Infatti la donna era musulmana e credeva in un solo dio ma Sujaya intendeva gli dei della magia nera). Non mi potrai fare niente!”

Mi confessò che una volta anche lei aveva usato la magia per conquistare un uomo di cui era innamorata ma che poi aveva lasciato perdere. Incuriosito le chiesi come facesse a durare un qualcosa basato su un trucco magico e lei mi ripose con semplicità, con quel suo inglese dall’accento indiano, che bastava andare ogni sei mesi dal mago e pagarlo per rifare la magia, tutto qui.

“Queste cose come la magia nera  esistono ma chi le usa riceverà  una punizione da Dio in questa stessa vita, non dopo.” Diceva con il suo fervore. Capivo perfettamente quello che voleva dire, per me quel suo Dio era una forma personalizzata della realtà assoluta e del karma.

“Sei sposata?” Chiesi.

“No, non mi sono mai sposata. Una volta mi piaceva un uomo in Pakistan, io vivevo a Londra e gli mandavo i soldi ma poi ho capito che lui era interessato solo a quelli.

“E poi?”

“Poi ho saputo che andava da un mago per far sì che io continuassi a stare con lui così sono andata da un mago anch’io e ho interrotto la relazione.”

I venditori di biscotti

Sujaya inoltre mi confermò che quei poveri indiani, pakistani e bangladeshi che avevo visto per la strada giorni prima e che sembravano vendere i biscotti della nonna erano solo pesci piccoli e che i grandi boss erano locali.

“A Hong Kong ci sono tanti trafficanti di droga e il governo li protegge, altrimenti come farebbero ad esserci così tante persone ricchissime con macchine di lusso.” (Visto che Hong Kong è uno dei più importanti porti del mondo questo potrebbe anche essere vero).

Sujaya forse alludeva alle tante Porsche, Ferrari e Lamborghini che si vedono in città. Sfrecciano rombando nella notte per quelle vie strette ma ahimè! I proprietari possono sfogare quel loro desiderio di libertà solo da un semaforo all’altro, tra un verde e un rosso.

Insomma come accadeva nel passato in Cina, i mercanti sono locali ma i cavalli e le spezie sono stranieri.

Le storie di Sujaya erano divertenti e piene di quella passione e giocosità che non avevo trovato al mio arrivo ad Hong Kong. Ma tra i tanti segreti che Sujaya mi aveva svelato, per uno come me, dal forte spirito bucolico, amico di Orazio e Virgilio, uno è stato quello più prezioso e per questo l’ho lasciato per ultimo.

Raccontai a Sujaya la mia delusione riguardo al fatto che a Hong Kong non si potesse stare seduto a lungo in un ristorante e che non si potesse dormire sulle panchine o nei parchi e lei mi diede la chiave e cioè che bastava prendere il cibo, il tè o il caffè takeaway e sedersi in un parco. “Così te la puoi prendere con calma e stare quanto vuoi.”

“Non c’è problema! Puoi tranquillamente dormire sulle panchine, se qualcuno ti dice qualcosa fregatene. Digli: io non vado via, andate via voi.”

Mi raccontò poi di come, quando lei si metteva a dormire sulle panchine e arrivava la polizia, alzasse la voce e li facesse andar via.

“Non ho paura di niente! Solo di Dio!” Diceva guardandomi con il suo sguardo di tigre e le movenze di un pirata dei sette mari.
“Se hai paura vincono loro!”

Era questo forse l’essenza dell’insegnamento di Sujaya? Non so, forse la prossima volta che mangerò un bel panino con prosciutto cotto e formaggio all’ombra di un albero mi verrà in mente qualcosa. Qui non vendono panini con la mortadella.

Alla fine…fatevi il minestrone!

Ieri pomeriggio sono stato invitato ad una conferenza sulla nutrizione alla in un ufficio che poi scoperto essere la Amway.

Sono arrivato alla metro di Yao Ma Tei verso le sei e ho incontrato la mia amica Josephine con i suoi amici e altri veterani esperti in un ristorante lì vicino. Siamo rimasti lì  a chiacchierare un po’ e io ho ordinato un nasi goreng, il riso saltato in padella indonesiano. La mia compagnia era animata e si parlava di alimentazione equilibrata, del valore del nutrizionismo e dell’importanza della salute del corpo. Forse anche questo era un segno che dovevo ricominciare a prendermi cura del mio di corpo, che come diceva Mao è il “capitale del popolo.” Nel frattempo alla cena si sono aggiunte altre persone.

C’erano due tipi in particolare tirati a lucido di tutto punto, uno anche con i capelli tirati indietro con la spuma tipo America anni ’30. Parlavano un ottimo inglese e anche il cinese mandarino, si muovevano come degli uomini sui trent’anni e sembravano quasi degli attori di Hollywood ma, con grande sorpresa, ho scoperto che ne avevano soltanto  ventuno. Il loro modo di essere mi sembrava innaturale,  un po’ troppo sopra le righe per delle persone della loro età. Si atteggiavano molto e questo era per me comico e un po’assurdo. Uno di loro, quello con il capello leccato, mi avevano detto appunto che era tornato dai suoi studi in America.

All’inizio avevo pensato di parlare con gente adulta d’esperienza e, come al solito in queste situazioni, specialmente a Hong Kong e nelle comunità dei cinesi ricchi della Malesia e di Singapore, mi sentivo un po’ a disagio, una pecora ancora più nera di quella che già sono. In questi posti, infatti la gente già da molto giovane è focalizzata sul business e sul successo e forse anche troppo ma questo del resto è un fenomeno diffuso un po’ in tutta la Cina: o hai successo o non sei nessuno e la quantità di successo è misurata dalla quantità di ricchezza che uno possiede.

Infatti gong xi fa cai (che significa su per giù “congratulazioni! Arriverà la ricchezza/prosperità”) è uno degli auguri più consueti durante il capodanno cinese. Dopo ripensando al fatto che erano solo ragazzi di ventunanni mi sono detto “In soggezione per dei ventunenni? Ma io me li magno a colazione quelli lì” Sarò pure una pecora nera ma me li bruco insieme ai fasci d’erba. A parte gli scherzi, torniamo al centro del racconto che è la conferenza sul nutrizionismo. Dopo aver finito di mangiare ognuno ha pagato quello che aveva preso e siamo saliti all’ufficio della Amway. Qui c’era una grande sala conferenze dalle pareti bianche lucide e molti schermi davanti e tutt’intorno. Sembrava l’interno di un’astronave.

Sedevamo su sedie pieghevoli di ferro e plastica su un pavimento moquettato azzurro, continuava ad arrivare gente e la sala si stava riempendo. Il mio posto era vicino a una delle pareti accanto a Josephine e venivo spesso abbagliato dalla luce del monitor alla mia sinistra. Dopo la breve introduzione di una donna sui quarant’anni è arrivata la star della serata, una donna grassa dal viso tondo e i capelli molto corti ondulati  con la permanente. Era vestita con dei pantaloni e una giacca neri con dei motivi rossi  colorati un po’ in stile cinese e al suo arrivo è partita  una musica spaziale dai suoni taglienti, con qualche suono dei raggi di Goldrake.

Chiu chiu chiu bssh bssh chiu..tr tr tr tr chiu….Sembrava la musica di quando un wrestler entra sul ring. Erano note di sfida e ricordavano anche quelle di un gioco a quiz. La signora  doveva avere, oppure li dimostrava, più di 50 anni, era piena d’energia e parlava con entusiasmo a voce altissima. La lingua era il cantonese e Josephine mi traduceva pazientemente tutto. Si è parlato soprattutto del cibo pericoloso che circola in Cina. Abbiamo visto dei filmati e ci hanno dato delle fotocopie che ogni tanto la signora faceva leggere ad alta voce e tutti in coro producevano una specie di cantilena. La conferenza era molto animata e la signora era molto teatrale. Si muoveva, rideva, urlava, gesticolava facendo espressioni strane catturando l’attenzione dei partecipanti che di tanto in tanto ridevano battendo le mani.

Olio di fossa (Digou You), olio ricavato dagli scarti cibo e liquami ripescati dalle fogne; carne di maiali malati; gamberetti fatti crescere con la pillola contraccettiva; polli morti trattati e riciclati per i ristoranti; carne di topo trattata con urina di cavallo per farla sembrare di pecora; detersivo per rendere i cibi più croccanti, insomma di tutto di più.

Oltre a questo ha detto di non bere Coca Cola, ha dato dei consigli su come premunirsi prima di una giornata alcolica, infatti in Cina quasi sempre si beve pesantemente nelle cene d’affari e di lavoro e sono eventi a cui il più delle volte non ci si può sottrarre. Dopo questi e altri consigli sulla dieta e il comportamento è stata data la panacea, la ricetta per una zuppa disintossicante che ci è poi stata fatta assaggiare in un bicchierino di plastica.

C’erano il sedano e altre verdure bollite ed era esattamente uguale al minestrone. La conferenza, con tutta la sua stranezza, sarà stata anche piena di brava gente e buone intenzioni ma mi è venuto da ridere pensando che, dopo più di due ore di conferenza, con musichette spaziali e scene teatrali la semplice soluzione era: non mangiate troppe schifezze e fatevi il minestrone! Comunque sono dell’idea che si possa imparare qualcosa de tutte le situazioni che ci si presentano e che, a parte il tono ironico di quest’articolo, questi consigli possono essere molto utili. Dopo tutto Non tutto quello che è ovvio per noi è ovvio per tutti.

Il giorno dei buoni auspici

L’altro ieri è stata una giornata piena di buoni auspici. Il pomeriggio siamo andati con Donald al tempio di Wong Tai Sin, una delle divinità più importanti qui a Hong Kong. Al ritorno abbiamo preso la metro e Donald, controllando la sua carta, ha scoperto di avere più soldi di quanti avrebbe dovuto avere. ” La benedizione di Wong Tai Sin! Forse dovrei controllare la carta anch’io” Ho detto.

Avevamo  deciso di andare a Kowloon Tong ma abbiamo preso la metro nella direzione sbagliata scendendo alla stazione di Chai Hung (cin. arcobaleno) dove, per la prima volta in vita mia, ho visto una ragazza cieca che correva veloce. Sorrideva toccando il terreno davanti a lei con il bastone. Ormai vivendo in Asia da tanti anni, ho imparato a interpretare alcuni segni e la mia interpretazione è stata: “cieca che corre sull’arcobaleno” e ho detto a Donald: “segno di buon auspicio! Non dobbiamo sottovalutare la benedizione di Wong Tai Sin!” “Sì dovevamo sbagliare stazione per vedere il segno” diceva Donald.

 Alla fine abbiamo ripreso la direzione giusta e siamo scesi a Kowloon Tong. Eravamo ancora indecisi dove andare, da quale uscita uscire, così ci siamo avvicinati alle indicazioni delle varie uscite. La nostra attenzione è stata catturata dall’uscita F: “To Fuk Road” che in cinese si traduce pressappoco “la strada della molta fortuna/felicità” ma per noi la lettura più immediata e stata quella inglese.

Così contenti dell’ennesimo auspicio di Wong Tai Sin abbiamo cercato in tutti i modi di uscire dall’uscita F, chiedendo informazioni a destra e a sinistra e,  quando ci dicevano di uscire da un’altra uscita, spiegavamo che dovevamo uscire alla F e alla fine ci siamo riusciti. Buon Anno Nuovo!

Spendi e non ti fermare!


1 Febbraio 2016

Stasera  ho attraversato Nathan Road proseguendo lungo Jordan Road fino all’ingresso di Temple Street dove mi sono fermato a mangiare in un negozio una specie di porridge dolce con dei legumi. Temple Street (Miao Jie) è una via famosissima che da Austin Road taglia Jordan Road e arriva a Yao Ma Tei dove c’è il vecchio tempio di Tin Hou, l’Imperatrice del Cielo.

Mentre proseguivo lungo la via, una bella signora ben vestita mi ha rivolto la parola dandomi dei volantini e chiedendomi se sapevo che Gesù Cristo mi amava e voleva per me la salvezza eterna nel Paradiso. Ho capito subito che era una missionaria ma ho voluto ascoltarla dandole il dono dell’ascolto permettendole così di compiere la sua buona azione. Il suo inglese era quasi perfetto sembrava solo avere un lieve accento di Hongkong ma ascoltandola con più attenzione  di tanto in tanto riuscivo a cogliere anche un leggero accento coreano. Alla mia domanda se era coreana ha risposto di sì ma che viveva a Hong Kong da tanti anni dove aveva studiato il Vangelo.

Parlava con il cuore, era una grande oratrice e  l’ascoltavo con piacere, soprattutto qui nel centro di Hong Kong dove il contatto umano tra persone che non si conoscono è pressoché inesistente e, quando c’è, è quasi sempre per qualcosa di funzionale come pagare qualcosa o chiedere un informazione. Gli unici che ti parlano per strada sono gli indiani, pakistani e bangladeshi vicino alla Chungking Mansion, lungo Nathan Road che ti vogliono vendere vari tipi di droghe, sempre con la loro cortesia e gli occhi dolci come se ti stessero vendendo i dolcetti della nonna. “Sir! Where are you going? Do you want something Sir?” Oppure che ti vogliono vendere orologi o portare dal loro tailor ma forse alla fine ti chiedono anche se vuoi quel something.

Altri sono un po’ meno discreti: “Hashish? Opium?”  Alcuni fanno direttamente il gesto della sniffata ma alla fine rimangono sempre tutti d’un pezzo e ti fanno un sorriso come se fosse stato tutto uno scherzo a cui tu avevi creduto. Come gli incantatori di serpenti i loro occhi sono magnetici. Gli altri che cercano il contatto per strada, a quanto pare, sono gli evangelizzatori, mentre il resto della gente di Hong Kong si muove roboticamente sui marciapiedi, sulle strisce pedonali e nelle stazioni della metro (MTR), guardano avanti, per terra o lo schermo del cellulare, comunque cercano di evitare qualsiasi tipo di contatto.

I loro movimenti sono lineari e veloci e sono scanditi da bip e click, insomma tutto è inumanamente efficiente. Si muovono tutti senza fermarsi, sembra che fermarsi sia negativo, quasi proibito. Così quando mi fermo e mi guardo intorno senza guardare uno smartphone,  mi guardano con sospetto forse pensando che sia un tipo losco, ma qui ragionano come nei menù fissi di Mac Donald, se non è il N.1  è il N.2, quindi forse penseranno che sia un indiano o un evangelizzatore.

Ecco forse perché la sera vedi quegli stessi indiani bere birre e altri alcolici ai lati della strada o nei Seven Eleven, con faccie depresse e alienate. Loro, abituati a casa a sorseggiare lentamente il loro chai e a guardare film di Bollywood, dove tutto gira intorno ai sentimenti e alla passione, in un posto dove il contatto umano è visto con sospetto e, a volte, percepito come una minaccia. “Pyar” amore , “musti”, “pagel” pazzo, “diwana” folle, cantano le loro canzoni

Proprio a un gruppo di loro in un Seven Eleven ho cantato alcune di queste canzoni regalandogli più gioia in dieci minuti di quella indotta da i loro svariati alcolici in non so quanto tempo e per questo sono finito anche su Facebook.

A volte quello di cui la gente ha più bisogno è ascolto, uno sguardo o un sorriso sincero che li faccia sentire umani e, se non siamo in grado di darglieli, siamo noi poveri, poveri che corrono dietro al denaro, quindi siamo noi i veri mendicanti.

La stessa cosa del Seven Eleven  è accaduta ieri sera in un pub a Lan Kuai Fang, quando ho cantato le stesse canzoni ai camerieri, un indiana e due nepalesi. Abbiamo cantato insieme ed erano così contenti che ci hanno offerto da bere, dicendo che pagava la casa. A Hong Kong si trova tutto ma la felicità non sembra essere un bene di consumo, altrimenti molti ricchi l’avrebbero già comprata.


4 Febbraio 2016

A Hong Kong le panchine sono pochissime e di quelle poche che ci sono, alcune, come quelle dietro Yao Ma Tei, sono scomode della grandezza di una sedia con vicino scritto ” Area di Riposo Temporaneo” per scoraggiare ogni idea di lunga permanenza, le piazze sono praticamente inesistenti e la maggior parte della vita sociale si svolge in luoghi dove si deve spendere soldi: bar, ristoranti e shopping centres ma, per via dell’afflusso continuo di gente, ci si deve alzare e cedere il posto dopo poco tempo quindi si è costretti a rimettersi in moto o consumare nuovamente.

Gli unici luoghi dove si può stare a lungo sono le catene internazionali come Mac Donald e Starbucks (anche Starbuks però qui non  ha i soliti divanetti e poltroncine, i tavoli sono più piccoli, concede solo 30 minuti di Wi-Fi per ogni consumazione e ha pochissime prese per la corrente).

Dopo il freddo degli ultimi giorni è  uscito il sole e finalmente io e Donald, un mio amico scozzese che ha girato il mondo in bicicletta e che ora insegna inglese a Chengdu, abbiamo trovato rifugio dal caos e dallo stress cittadino in una piccolissima oasi di verde in mezzo a questa giungla di cemento: il Kowloon Park.

Qui siamo rientrati in contatto con quella che dovrebbe essere la vera casa dell’essere umano: la natura. Per la prima volta dopo tanto tempo abbiamo potuto riposare lo sguardo dagli infiniti logo, brand e pubblicità di cui la città è sommersa e che dopo un po’ ti fanno girare la testa (una specie di Sindrome di Stendhal per i Brand), abbiamo passeggiato all’ombra degli alberi, riascoltato il cinguettio degli uccelli,  rivisto la gente camminare piano e non in preda alla frenesia come al solito ma soprattutto, dopo tanto tempo ci siamo potuti sedere e rimanere seduti senza consumare o spendere niente.

Camminando lentamente ci siamo avvicinati ad una piazzetta circolare vicino ad una delle uscite del parco e ci siamo seduti al sole sul basso muretto che circonda l’aiuola al centro della piazza. Donald vi si è sdraiato sopra e io  gli ho detto scherzando che forse stavamo facendo qualcosa di illegale. “È un giorno così bello, che importa!” Mi ha risposto.

Pensando che avesse ragione è che sarebbe stato bello concedersi un riposo in questa città che non dorme e non si ferma mai, mi sono sdraiato anch’io sotto il sole come un rettile e ho chiuso gli occhi rilassandomi finalmente un attimo. Dopo neanche due minuti una donna inserviente del parco si è avvicinata: “Non si può dormire, si può solo sedere!”

“Ma come? In un giorno di sole così bello!” Le ha risposto Donald.

“Questa è la regola” Ha risposto lei ma in fondo sembrava capirci.

Siamo ancora qui e seguiamo la regola, non dormiamo ma il lato positivo è che almeno stiamo seduti senza fare  o comprare niente. Solo semplicemente seduti.

La dimensione in ombra

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Esiste un mondo oscuro, nebbioso dove la malinconia regna sovrana. Questo mondo, che sembra lontano, è in realtà molto vicino a noi e il limite che ci separa da esso è molto sottile, sottile come la crosta di ghiaccio di un lago in inverno.

Avevo sentito parlare più volte di questa dimensione, nei miti e nelle storie e, in un certo senso, posso dire di conoscerla ma non avrei mai potuto immaginare di andarci di persona.

In un lontano maggio di tanti anni fa, perso nelle nebbie della Cina del Sud Ovest, mi ci ritrovai, visitai i suoi meandri e la sua capitale e seppi ritrovare la strada di casa.

In quel periodo studiavo a Chongqing, l’anno scolastico stava volgendo al  termine e Valentina, una mia amica che avevo conosciuto a Beijing, era venuta a trovarmi, così decidemmo di fare un viaggio di un paio di giorni lì vicino.

Ci spingemmo oltre quel limite sottile giungendo in una città a circa 200 km lungo il corso dello Yangtze, Fengdu.

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Una leggera pioggerellina cadeva da un cielo plumbeo, le vie della città erano deserte e la nebbia che veniva dal fiume avvolgeva le colline scure. Tutt’intorno c’erano resti di palazzi e case abbandonati e sul ciglio della strada, a poca distanza dal fiume, giaceva lo scheletro di una vecchia nave.

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Giravamo in mezzo a questa desolazione, tra montagne di detriti ed edifici in rovina. Il cemento bagnato delle strade rifletteva le nostre sagome solitarie. Le finestre senza vetri rivelavano una vita distrutta, morta e gli unici abitanti della città sembravano essere i fantasmi.

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Secondo la tradizione cinese1 Fengdu è la città dei fantasmi, il posto dove le anime dei defunti si ritrovano dopo la morte, l’aldilà (yinjian)2, ed è al centro di molte storie e leggende.

Qui infatti, sul Monte Ming (secondo la legenda uno dei 72 cimiteri del taoismo), da più di 1800 anni sorge un complesso di templi3 costruito sul modello di Youdu4 la “Città Oscura”, la capitale dell’Inferno (Diyu).

Secondo la leggenda Fengdu prese il nome di città dei fantasmi all’epoca degli Han Orientali, quando due funzionari imperiali Yin Chang Sheng e Wang Fang Ping si ritirarono sul Monte Ming per praticare il taoismo realizzando lo stato di immortali.

La combinazione dei loro cognomi era Yin Wang che in cinese era il nome del Re dell’Inferno, Yama e fu da quel momento che in questo posto cominciarono a formarsi le credenze intorno all’aldilà.

In seguito alla costruzione della Diga delle Tre Gole, un’intera collina e gran parte dell’antico complesso è stato sommerso e una parte dei templi è stata spostata più in alto sulla montagna.

Più di un milione di abitanti ha abbandonato le sue dimore ancestrali, la vecchia città è stata abbandonata, e la nuova città in costruzione è visibile poco lontano.

Dalla finestra del nostro piccolo albergo nella città nuova, vedevamo il fiume e una strana sagoma bianca con una grande testa, seduta sul lato della montagna.

Era il Re dell’Inferno che, tra le nebbie eterne di quel luogo, con uno sguardo freddo osservava il traffico di navi e battelli muoversi lentamente su quelle acque dense e opache.5  

(Fengdu Prima Parte)

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L’albergo del Re dell’Inferno sovrasta il fiume, alcuni relitti di navi e i palazzi vuoti della vecchia città abbandonata. (Tutte le foto sono state scattate nel maggio del 2005).

1 Un misto di elementi del Taoismo, Buddhismo e di quel insieme di leggende che costituisce la mitologia e la religione popolare cinese.

2 “dimensione dello Yin”, dove il principio “scuro” Yin è alla sua massima intensità, il mondo dell’ombra.

3 Le prime costruzioni risalgono infatti all’epoca dei Jin Occidentali (265-420 D.C.), poi ricostruite in epoca Ming e Qing (1386-1911D.C.).

4 In cinese il carattere you oltre a “scuro” può voler dire una serie di altri significati: “debole”, “fioco”, “indistinto”, “offuscato”, “tranquillo”, “sereno”, “nascosto”, “remoto”, “appartato”,“segreto”, “imprigionato”. Tutti aggettivi che possono caratterizzare diversi aspetti dell’aldilà.

5 Alcuni locali mi hanno detto che quella bizzarra costruzione era in realtà un hotel di lusso ancora incompleto.

Video

Lungta

In questo video, dedicato ai miei amici e compagni di viaggio, ho messo il cuore e quella che per me è l’essenza dello spirito del Tibet. Possa la gioia e i buoni auspici del Cavallo di Vento (Lungta) crescere sempre di più per tutti noi.

Viaggio In Tibet: la Compagnia

Come viandanti andavamo in cerca di ospitalità in villaggi assolati e lande desolate, tra amici, monaci ed eremiti e abbiamo conosciuto  la magia di antiche tradizioni spirituali.

Dall’alto delle montagne sacre bodhisattva e divinità del luogo hanno vigilato sul nostro cammino e, sotto una miriade di stelle, vicino al calore del fuoco, ci siamo addormentati sopra i guanciali della terra.

Viaggio in Tibet Amdo e Kham con mio cugino, estate 2015.

Nagwa e Golok

Primo viaggio a Jamda e Kalachackra a Tsinang, Ngawa e Golok 2005-2006.

Ngakpa

Momenti di vita tra i ngakpa, Amdo 2005-2006.

 

Welcome to the Jingle

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Oggi dopo un breve riposino ho pensato alle cose pratiche da fare:

1) procurarsi una nuova scheda telefonica; 2) Andare a fare compere allo Wanda Shopping Plaza qui vicino.

The Philosopher’s Phone

Esco, attraverso la strada sulla quarta sezione del primo anello vicino alla pompa di benzina e arrivo al negozio della China Mobile.

Quando entro nel negozio vengo accolto, come accade spesso, da un gruppo di commessi giovani e disorientati che non sembrano capire molto quello che dico e non certo perché mi esprima male o non parli cinese correttamente.

Infatti un associazione mentale abbastanza comune in Cina è:

“lui è straniero, lui non capisce/non parla il cinese” oppure “lui è straniero, io non capisco/non parlo l’inglese” o ancora “lui è straniero, anche se comprende e parla il cinese, non capisce ugualmente perché è straniero.”

Questa associazione è immediata e automatica a prescindere da cosa tu stia dicendo o facendo. Non è sempre facile trovare qualcuno, soprattutto tra commessi, che ascolti la tua domanda fino alla fine senza risponderti in modo automatico e che, qualora la tua richiesta fosse difficile, ti proponga una seconda soluzione a meno che non sia tu a chiederla più di una volta.

“Posso ripristinare il mio vecchio numero?” “Ci vuole la carta d’identità!” “Ho il passaporto.” “No, ci vuole la carta d’identità!”

Dopo vengo a scoprire che dall’aprile di quest’anno gli stranieri a Chengdu, possono comprare una carta telefonica solo in pochissimi punti vendita della China Mobile in tutta la città.

Per proteggerci dalle sempre più numerose frodi telefoniche? Mah, me ne vado via nel dubbio.

Proverò con un altra compagnia, la China Unicom.

Uscendo vedo un chioschetto che vende giornali, riviste e bibite varie e provo a chiedere alla signora che sta guardando uno dei tanti telefilm cinesi su un piccolo schermo portatile.

“Sapete dove posso comprare la carta della China Uni…” Non ho ancora terminato la frase che…

“Non lo so!” Mi risponde in tono seccato, distogliendo a malapena lo sguardo dal televisore1 

1 A ogni “nuova regola” (xin gui ding) c’è un nuovo rimedio, a Tai Sheng Lu, delle persone che sostano sui marciapiedi vendono qualsiasi tipo di carta telefonica registrata con carte d’identità locali, solo per un po’ di soldi in più.

Welcome to the Jingle

Scoraggiato mi sono diretto al centro commerciale dove ho comprato un quaderno, delle penne e delle mutande (che poi ho scoperto avere più del 70% di poliestere) e ho girando un po’ tra i negozi illuminati e i lucidi corridoi scintillanti e vedendo per lo più marche occidentali.

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L’androide di Blade Runner ha visto cose che gli esseri umani non potrebbero nemmeno immaginare: navi da combattimento in fiamme a largo dei bastioni d’Orione e i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser, io mi sono fermato davanti ai surfisti di California Dream, ho visto un negozio di vestiti di uno strano design locale con una testa di cervo imbalsamata appesa al muro e finalmente a North Latitude 30˚, l’ ho incontrato.

Aveva un completo grigio con dei pantaloni notevolmente più lunghi delle sue gambe e portava sopra la giacca un vestito di nylon azzurro senza maniche con il carattere bing (soldato) stampato all’interno di un cerchio bianco. Sembrava un incrocio tra un personaggio di Dragonball e un barbone, era in incognito ma io l’ho riconosciuto! Era lui! Babbo Natale!

Il suo essere lì era completamente senza senso, fuori da un negozio, all’angolo di un corridoio, a uno degli ultimi piani dello Wanda Shopping Plaza, a luglio.

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Poco lontano sono entrato in una sala giochi buia e rumorosa dove, accanto a qualche gioco nuovo, c’erano moltissimi giochi vecchi degli anni ’90, così ho deciso di lasciare un segno giocando qualche partita a King of Fighters ’98 e al nuovo Street Fighter. Molti dei coin-op erano consumati e uno a cui ho giocato era rotto.

Le partite duravano molto e la mia permanenza lì aveva cominciato a stordirmi allora mi sono alzato e ho deciso di usare i gettoni che mi rimanevano per pescare qualche peluche radioattivo.

C’erano i super eroi super deformed, draghetti verdi e orsetti di tutte le forme e colori. Inserisco i gettoni, faccio per dirigere l’arpione verso il peluche dell’uomo ragno e… CLAK!!!

Si spengono tutte le luci e le musichette assordanti. Black out in tutto lo shopping mall.

La gente comincia ad accalcarsi verso l’uscita e alcuni scendono a piedi dalla scala mobile.

Anche io li seguo ridendo. Welcome to the Jingle!

(Chengdu, 29 Luglio 2015)

Gli indovini della città della primavera

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Il 4 settembre alle sei di pomeriggio abbiamo preso un express bus per Kunming che ci avrebbe impiegato diciotto ore.

Siamo partiti a tutta velocità su strade tortuose tra montagne, gole e fitta vegetazione tropicale offuscata qua e là da banchi di nebbia che fluttuavano dilatandosi nell’aria umida, passando attraverso torrenti dalle acque rosso ocra e piccoli villaggi con casette quadrate dai tetti spioventi.

Verso il tramonto siamo rimasti fermi dietro una fila di camion e pulmini che, dietro la curva, si perdeva nel verde. Una parete di roccia era franata sulla strada e abbiamo aspettato circa un’ora prima di ripartire.

La strada era dissestata e in pessime condizioni e la velocità era davvero esagerata, l’autobus saltava lungo il percorso e sembrava di stare sulle montagne russe. Era impossibile dormire bene e mi faceva male lo stomaco.

Durante la notte sono stato svegliato da due guardie dell’APL (Armata Popolare di Liberazione), eravamo al confine della Regione Autonoma dello Xishuangbanna e gli stranieri (io, mia madre, Paula e un cinese birmano) dovevano registrare i loro nomi e mostrare i loro passaporti. Tutto questo nella più completa oscurità, le uniche luci erano i fari del bus e una torcia elettrica.

Siamo arrivati a Kunming la mattina. Un detto cinese dice a proposito di Kunming: “le quattro stagioni sono come la primavera” (si jie ru chun), infatti qui il clima non è molto caldo d’estate e non è molto freddo d’inverno.

La città è piccola, moderna, tranquilla, pulita e molto attiva, insomma forse è una delle città-capoluogo cinesi che mi piacciono di più e anche Marco Polo ne Il Milione scrive di essere stato qui.

Nel pomeriggio, sempre attratto dalla mia ricerca e ispirato da Terzani, ho consultato un indovino.

Era un uomo sulla sessantina con il cappello, vestito in abiti normali, ma che aveva l’aspetto di un vecchio con la barba. Stava seduto su uno sgabello sul marciapiede e davanti a sé, per terra, aveva una carta con i segni del Ba Guagli otto trigrammi dell’Yi JingDopo aver gettato sei volte tre monete forate al centro che teneva infilate in un portachiavi a moschettone appeso al passante dei pantaloni, mi ha dato il responso ma ne riassumerò solo i punti principali da me compresi.

Gli ostacoli alla comprensione sono stati: la mia scarsa conoscenza di molti termini specifici del cinese non usati nella lingua quotidiana (almeno non di frequente); la sua parlata con accento locale a cui non sono ancora completamente abituato e l’arrivo improvviso della polizia in conseguenza del quale, tutti i venditori ambulanti e gli indovini, tra cui il mio, hanno sbaraccato. La nostra conversazione è stata quindi interrotta.

Il vecchio con la barba è tornato poco dopo e ha continuato la sua spiegazione in incognito facendo sembrare il nostro dialogo una conversazione informale, come quella tra due conoscenti.

Ecco i punti più importanti del responso:

1) A ottobre dovrò diffidare di una persona che tenterà d’imbrogliarmi. 2) L’anno prossimo e quello dopo  (il 2001 e il 2002) saranno così così. 3) Il 2004 e il 2005 non saranno buoni per il guadagno ma saranno buoni per la mia cultura personale. Il 2007 sarà buonissimo. 4) Il 2010, il 2011 e il 2012 saranno anni in cui dovrò stare attento a imbrogli e curare particolarmente la mia salute (questi anni coincidono presso a poco con il mio anno critico predetto da Aku Danpa).

Secondo l’anziano i miei anni fortunati e sfortunati si alternano a due a due ma non sarò mai ricco (una delle cose peggiori che si può dire a un cinese).

Ha anche detto che devo stare sempre in viaggio, che non è buono per me tornare nel mio paese e che devo trovare un modo per far girare la mia fortuna in positivo (ma come?).

Insomma l’esperienza è stata bella ma confusa e alla fine gli ho dato la somma stabilita, 10 kuai.

Un ragazzo con una malformazione ad una gamba che si reggeva su due stampelle, vedendo che ero anche  io un invalido, mi ha voluto leggere la mano gratuitamente e ha detto in poche parole:

“Tu hai questo problema fin da piccolo e allora hai rischiato di morire.” (vero).

“Che peccato! Vali molto ma non brillerai” (Me lo diceva sempre anche la maestra!).

“Vivrò a lungo?” “Sì, a giudicare dalle tue orecchie lunghe e sopracciglia folte.” (Bene! Almeno questo).

“Tre cose buone per te”: 1) “non mangiare carne di cane!” (Peccato! Era il mio piatto preferito!); 2) qualcosa che non ho capito; 3) “vai in un tempio a farti recitare le scritture!”

Poi mi ha dato un libricino con la copertina del Ba Gua e dopo aver recitato qualche formula strana mi ha detto di tenerlo tra i due palmi delle mani ed aprirlo ad una pagina a caso. Le pagine avevano pochi ideogrammi neri e rossi scritti in forma arcaica su cui lui basava il responso.

Ho capito solo che il primo responso era negativo e che il secondo era positivo (1-1. Bisogna sapersi accontentare).

Mia madre si era stufata di aspettare e sbraitava alle sue spalle così ho salutato tutti di fretta e sono andato appresso a mamma che intanto era partita in avanti e già non la vedevo più. “Xie xie!” “Zai jian!” (“Grazie!” “Arrivederci!”).

Mi devo ricordare di scrivere della Pagoda Bianca. Ora sono stanco e vado a dormire, domani voliamo per Bangkok.

Prima bevo un’altra tazza di tè al gelsomino.

Prosegue da Tante onde di uno stesso fiume

(Kunming, settembre 2000)

Tante onde di uno stesso fiume

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Oggi mia madre e Paula sono andate a fare una passeggiata e io, come avevo promesso, sono tornato al tempio portando le carte piacentine.

I bambini non erano ancora arrivati, così nell’attesa ho pregato davanti al Grande Saggio1 e ho detto qualche mantra nel porticato mangiando qualche strano frutto datomi da una bambina cicciottella, Hongli, anche lei tai.

Verso il primo pomeriggio sono arrivati gli altri e abbiamo subito cominciato a giocare a Uomo Nero.

Ero sicuro che questo gioco sarebbe piaciuto tantissimo, hanno partecipato anche due monaci che si sono divertiti come dei pazzi.

Le nostre risate riecheggiavano da sotto al porticato del tempio ogni volta che qualcuno riusciva a mollare l’asso di bastoni ad un avversario.

Mi sono esibito anche in un gioco di prestigio, che però non è piaciuto moltissimo (era meglio Uomo Nero).

Verso le quattro ho salutato tutti e mi sono avviato verso il bus per Jinghong.

Piccoli villaggi, donne tai in vestiti colorati con i capelli oliati raccolti sopra la testa attendevano il bus sotto la pioggia ai lati della strada fangosa.

Sulla via del ritorno, tutto questo mi passava davanti agli occhi mentre ero assorto a guardare fuori dal finestrino.

Il finestrino non si chiudeva bene e una goccia mi bagnava la coscia ad un ritmo più o meno costante.

Ancora bufali d’acqua, mercati colorati di frutta, etnie diverse e, infine, Jinghong.

Tornato in città sono andato al fiume a mangiare e ho rincontrato Zhang Ge, un uomo sulla trentina di corporatura tozza e di bassa statura, sempre vestito in pantaloncini e maglietta con braccia e gambe corte.

Zhang viene da Xian nello Shaanxi  e lavora in uno dei tanti ristorantini lungo il Mekong, sembra un brav’uomo ma, parlando, mi ha confessato di non essere stato un brav’uomo in passato.

Anni prima infatti, in una rissa da ubriaco, aveva reso un’uomo invalido privandolo dell’uso del braccio e per questo aveva dovuto scontare sei anni di galera.

Adesso Zhang è qui, a migliaia di chilometri da casa, cercando di rifarsi una nuova vita.

Questi anni lo hanno cambiato. Ora è molto sensibile nei confronti degli invalidi e io certamente l’ho colpito.

Sapendo che sarei partito mi ha regalato una giada che portava al collo come portafortuna per augurarmi buon viaggio.

Non so se lo rivedrò. Spero di sì.

La sua confessione sincera, il suo pentimento, la sua umanità mi hanno profondamente commosso e gli auguro di essere felice con tutto il cuore.

Miduo, la ragazza akha mi ha fatto l’ultimo massaggio, dicendomi di cercarla quando tornerò così potremo passare più tempo insieme, anche io lo voglio ma tornerò veramente?

I suoi occhi e il suo sorriso mi hanno conquistato, mi piace e credo di piacerle.

Le sue amiche ridevano: “Lui sceglie sempre te”. Anche Zhang Ge scherzava: “strano! Tra tutte le ragazze che ci sono chiami sempre lei, forse ti piace?”

Siamo arrivati al momento dei saluti e, come sempre,  provo una certa malinconia.

Salutato Zhang Ge e il suo amico Wang Ben, un ragazzo grassoccio con gli occhiali e i capelli di media lunghezza, saluto il Grande Fiume.

Ho promesso a me e a Zhang che sarei ritornato a Jinghong, forse per insegnare inglese nel monastero tai di Mantinglu come mi aveva proposto il monaco e forse sarei tornato proprio attraverso quel fiume, il Lancang….il Mekong.2

Prosegue da Pagoda nera pagoda bianca

(Jinghong, 3 Settembre 2000)

1Mahāmuni, il “Grande Saggio”, il Buddha.

2 In lingua thai o lao “fiume” mae nam, significa “madre delle acque”. Mekong sarebbe la forma abbreviata di Mae Nam Khong, il “Fiume Khong”. In cinese questo fiume è chiamato Lancang.

Pagoda nera, pagoda bianca

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Questa mattina, dopo una colazione non cinese da Mei Mei’s Cafe, abbiamo preso un bus in direzione sud per Damenglong (o Menglong).

Lungo la strada si vedevano piccoli villaggi tai, risaie, foreste, stagni, alberi della gomma e bufali d’acqua. Due monaci in tunica arancione sono passati sfrecciando su una moto e il pilota aveva degli occhiali da sole specchiati.

Arrivati alla stazione del bus, in un ristorantino gestito da una signora tai ho preso degli spiedini di doufu, uno xifan dolciastro e dei liangfen in brodo col pomodoro e verdure.

Damenglong è una cittadina tra montagne ricoperte da una fitta vegetazione tropicale a pochi chilometri dal confine con la Birmania e non molto lontano dal Laos.

Le strade sono alquanto deserte e sembra essere un posto abbastanza sperduto. Non si vedono turisti in giro. Al centro di un incrocio c’era una strana scultura e dei maialini neri camminavano per strada.

Siamo vicino al Triangolo d’Oro, allo stato Shan, ex-regno di uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo: Khun Sa, il Re dell’Oppio.

Qui l’unico posto dove possono stare gli stranieri è una guesthouse (zhaodaisuo) dentro il recinto del governo locale: pavimento di cemento, soliti letti pulciosi con lenzuola rosa e trapunta, soffitto con ragnatele e macchie di muffa. Il bagno è fuori a due minuti a piedi e di notte ci si arriva con una torcia.

L’edificio è in mezzo alla natura e dal ballatoio si gode una vista bellissima: montagne ricoperte di verde, tetti di case tradizionali lungo una strada sterrata. Su una delle montagnesi vede uno stūpa bianco.

Sono circa le undici di sera. Ho scritto per più di un’ora a lume di candela. Spengo la candela e mi sdraio.

(Damenglong, 1 settembre 2000)

E’ mattina, piove ininterrottamente da stanotte e tutto è fangoso e umido.

Sono uscito per andare al bagno, una latrina situata dietro il padiglione della guesthouse sulla riva di uno stagno artificiale. Intorno alla guesthouse era pieno di polli e galline starnazzanti e vicino al bagno mi sono imbattuto in un maiale nero e un gallo che mangiavano lungo il sentiero.

Mi sono lavato la faccia ai rubinetti nel cortile, e ora mi farò una tazza di tè sul ballatoio godendomi la vista nebbiosa delle montagne e ascoltando il rumore della pioggia.

Più tardi siamo andati in un tempio non lontano dove dei signori tai anziani ci hanno invitato a sedere accanto a loro e uno di loro, in un cinese con un forte accento tai, ha cominciato a farmi domande su di noi e sul nostro paese.

“Voi avete le statue di Buddha?” “Avete le banane?” “Avete l’ananas?” “Avete….?” Ecc.,ecc.

Questo vecchietto era nonno di tre bambine e una di queste parlava bene cinese così abbiamo cominciato a chiacchierare.

Sono accorsi altri bambini che giocavano a carte nel cortile del tempio, hanno cominciato con le loro domande e ci hanno chiesto di cantare, ho cantato qualche canzone italiana e cinese, poi loro hanno voluto che anche mia madre cantasse e si sono avvicinati a lei per ascoltarla con molto interesse.

Tutto questo avveniva dentro il tempio dove un monaco recitava le scritture. Forse abbiamo esagerato? Comunque i bambini sono bambini.

Una cosa che mi ha colpito è l’aria di tolleranza che regna nei templi buddhisti tai.

I bambini ridono, schiamazzano e giocano, gli uomini e le donne, di solito seduti su lati differenti della sala, chiacchierano fra loro sorseggiando tè o acqua calda e mangiano della frutta (piccole banane, pere e mele). Gli uomini fumano sigarette.

Tutto avviene su stuoie o materassini disposti lungo le pareti della sala dove la gente può anche dormire.

Al centro della sala, sotto un altissimo tetto di legno si stagliano le statue di uno o più Buddha Śākyamuni, verniciati d’oro .

I monaci siedono su un piano rialzato che corre lungo la parete, si solito dietro o al lato dei buddha.  Posseggono sono una tunica arancione e una ciotola per la questua del cibo, ora anche in ferro.

Questo almeno in teoria, il monaco con cui ho parlato a Jinghong aveva un cellulare ma d’altronde nel duemila certe cose sono utili.

Spesso gli occidentali proiettano i loro sogni in posti lontani, dove vorrebbero che la gente rimanesse cristallizzata a qualche secolo indietro per ammirarla da dietro un vetro immaginario scattando fotografie da fare vedere agli amici al loro ritorno.

Un posto e la sua gente non dovrebbero essere visti da fuori ma da dentro e per fare questo la migliore macchina fotografica  è il cuore.

Quanto siamo disposti noi a rinunciare alle nostre comodità?

Un inglese in un posto così bello si lamentava perché non riusciva a trovare la ricarica del suo telefonino.

Dopo un po’ i bambini ci hanno accompagnato lungo la strada che portava alla Pagoda Nera (Heita) e che dal tempio s’inerpicava sulla cima della montagna.

La strada era cementata e liscia e saliva in mezzo alla vegetazione. Mia madre e  Paula erano avanti, io invece ero dietro con i bambini chiacchierando e mangiando delle aspre foglie e frutti che dicevano di essere ottime per combattere la stanchezza.

I lati della stradina ne erano pieni. Il frutto era di colore verde e sembrava quasi un sottile e lungo chili appuntito e dal suo interno usciva un lattice bianco che inizialmente mi avevano indicato di sputare. Era asprissimo con un retrogusto limonoso, le foglie, invece, avevano un sapore un po’ meno aspro ma abbastanza simile.

Lo stūpa era costituito da un grande pinnacolo centrale attorniato da altri pinnacoli più piccoli. Tutti erano a sezione circolare e avevano la forma di una guglia.

Sulla loro cima tintinnavano tante campanelle argentate intorno a dei piccoli parasoli, anche  essi d’argento.

Draghi (nāga) bianchi dalle creste verdi serpeggiavano tutto intorno stringendo lo stūpa nelle loro spire e, in alcuni punti, si fronteggiavano.

I nāga e i pinnacoli poggiavano su una bassa piattaforma piastrellata e a gradini che la gente circoambula in senso orario.

Quello che chiamano Stūpa Nero in realtà è bianco leggermente tendente al giallo. Intorno allo spiazzo dove è situato, sotto una tettoia, c’è un buddha bianco sdraiato chiuso dietro un cancelletto con a fianco un altro buddha e altre raffigurazioni pittoriche.

Mi sono seduto a guardare il panorama e  a mangiare qualche altro frutto duro e aspro colto dai bambini che me ne hanno fatto una larga offerta.

Tutto questo dopo aver reso omaggio ai vari buddha.

Dietro lo stūpa dopo aver sceso alcuni gradini c’era una bassa costruzione di pietra di piccole dimensioni, mi sono affacciato all’interno e ho visto che c’era un grande fiore di loto piatto anch’esso di pietra. Ho pensato che fosse una casetta per la meditazione, il fiore infatti sembrava fatto a posta per sedervisi sopra. I bambini dopo mi hanno detto che c’era una sorgente ma non ho capito bene.

Siamo riscesi e loro hanno continuato la raccolta di quelle foglie e di quei frutti aspri.

Tornati al tempio ci siamo seduti fuori e c’era della gente che preparava da mangiare, non c’era del cibo per tutti e così i bambini mi hanno offerto dei biscotti che ricordavano un po’ il gusto di quelli Montebovi.

Una di loro si e messa a pestare le foglie aspre in una ciotola di porcellana, io e un’altra bambina l’aiutavamo a staccare le foglie e gliele porgevamo. Alla fine la bambina mi ha dato da mangiare l’impasto misto a un po’ di peperoncino, aveva un sapore agro-piccante, era buono.

Ho salutato i bambini e gli ho promesso di tornare il giorno dopo con le carte piacentine per insegnargli a giocare a Scopa ma sto pensando che forse è meglio Uomo Nero.

Dopo pranzo abbiamo preso un moto rickshaw, tipo un mini apetto, e ci siamo diretti alla Pagoda Bianca (Bai Ta).

Mi è venuto da pensare: “se la Pagoda Nera era bianca, come sarà la Pagoda Bianca?”

Prosegue da Manting Lu e il Mekong

(Damenglong, 2 settembre 2000)