Abbiamo lasciato Lijiang e siamo volati a Jinghong, città principale dello Xishuangbanna.
Lo Xishuangbanna1 è una regione autonoma dai che si trova nella parte meridionale dello Yunnan al confine con la Birmania e il Laos. Qui oltre ai tai2, che sono l’etnia prevalente, ci sono più di dieci etnie diverse tra cui hani (o akha), gli yi i lahu, i blang, i jino, gli yao, i miao, i va, i bai, i zhuang, ecc.
Come la molte etnie del sud-est asiatico questi popoli sono stati spinti qui da altre zone dell’Asia meridionale molto tempo fa.
La zona è molto fertile, l’atmosfera è quella del tropico, accanto alle risaie ci sono banani, ananas, canne da zucchero, alberi della gomma e in questa stagione piove spesso.
Accanto alle scritte in ideogrammi cinesi compaiono le scritte in tai.
Jinghong è una cittadina carina dall’aspetto moderno, casette piastrellate con i tetti in stile dai, banani ai cigli della strada e gente dalla pelle abbronzata che gira a torso nudo. Tutti hanno un aria rilassata. Vedo delle persone che giocano a biliardo fuori, lungo Manting Lu, la via principale.
Nella città, qua e là compaiono le case dai tetti spioventi in legno dei vecchi villaggi tai.
Con il mio amico Giulio spesso scherzavamo su l’atmosfera losca e promiscua che regna in Cina e in certe parti dell’Asia, soprattutto dove ci sono delle comunità cinesi, e parlavamo dei bordellanti, bordelli-ristoranti. Ebbene l’altra sera a Mangting Lu abbiamo cenato in un bordellante.
Erano circa le otto di sera, un’ora normale per la cena in Italia, ma non in Cina dove si cena verso le sei e dopo le otto è difficilissimo trovare un ristorante aperto. Avevamo fame e stavamo camminando in cerca di un posto dove mangiare e riposarci in attimo, quando ecco che la mia attenzione viene attirata da un ristorante. Ma niente è come sembra.
Ho chiesto da mangiare e ho notato nel mio interlocutore un espressione sorpresa, seccata e preoccupata. Ho intuitivamente capito che qualcosa non andava e ho ordinato un riso fritto all’uovo pensando che non ci sarebbero state molte altre scelte.
Sedevamo sui tavoli fuori e dentro, illuminate da una fievole luce rosata si intravedevano facce loschissime. “Bordello o ristorante?” Penso e mi viene la risposta: “bordellante”. “Padroni del ristorante o magnaccia?” “padronaccia”.
E’ questo vedere le cose nel loro continuo divenire al di là del dualismo del pensiero orientale? E’ la via di mezzo? Mah.
Dietro il nostro tavolo aloneggiava la scritta cinese “centro dell’amore”, “taglio di capelli, lavaggio testa e massaggi.” La cameriera era troppo carina e dalla finestra della cucina era affacciata una ragazza dai bellissima con una borsetta e un vestito da sera bianchi. Forse una prosticuoca? Vedo che comincio a imparare la filosofia locale.
Manting Lu al calar del sole non solo è piena di prostitute ma anche di indiani birmani musulmani con i loro longhi che…gestiscono gioiellerie? Non so comunque sono quasi più loschi dei padroni dei bordellanti o barber shops (cin. lifadian).
Di giorno Mangting Lu ha tutto un altro aspetto: monaci buddhisti, in tuniche arancioni, bambini che escono da scuola e “parrucchiere” annoiate che leggono il giornale o guardano la televisione sedute su divanetti di finta pelle o su panchetti lungo la strada e il centro dell’amore era un normalissimo ristorante ma manteneva sempre l’insegna equivoca.
Più avanti c’è anche un piccolo tempio buddhista dove mi sono fermato a pregare e fatto la divinazione con i bastoncini e dove il giorno dopo abbiamo assistito ad una cerimonia.
Sul pavimento di legno erano sedute molte donne e uomini dai di una certa età che ascoltavano un monaco che recitava le scritture in pali.
Ci siamo seduti in mezzo a loro e gente sorridente ci ha offerto della frutta tagliata.
Hanno acceso tante candele sottili e la loro luce si rifrangeva su sculture di carta dorata a forma d’albero, creando un incantesimo. Il profumo di olio di cocco mi ha riportato alla mente piacevoli ricordi, ho chiuso gli occhi lasciandomi cullare un po’.
Mamma e Paula sono andate via e io sono rimasto a guardare ed ascoltare.
Sono uscito salutando le signore tai mi sono seduto fuori a parlare con un monaco che mi ha chiesto d’insegnare l’inglese nel monastero.
Mi sono dimenticato di dire che Jinghong è lambita dalle acque rosse del Mekong.
Lungo il corso di questo grande fiume (cin. Lancang Jiang) c’è una lunga via piastrellata, deserta di giorno e animatissima di notte.
Dalle sette di sera alle quattro del mattino ci sono ristorantini con tavoli fuori, spiedini e cibarie di ogni genere, balere, piste di pattinaggio, videogiochi, giostre, biliardi, tutto a cielo aperto o coperto da tendoni e ombrelloni nelle giornate di pioggia.
Un’atmosfera di fumi speziati, echeggi di canzoni e un lontano bip bip di giochi elettronici.
La vita della città la notte è più animata, di giorno infatti fa troppo caldo.
Tra i tavoli girano belle ragazze che promuovono la loro birra in costumi tradizionali e ragazze akha, per lo più adolescenti, che offrono dei massaggi alla schiena alla gente seduta all’aperto per 10 yuan, mi sono fatto fare un massaggio anche io.
Una di loro con dei lunghissimi capelli raccolti, Miduo, mi ha raccontato che le donne akha imparano a fare i massaggi dalle loro madri all’età di due anni e che le ragazze che lavorano qui vengono da un villaggio vicino e lavorano per un lao ban alquanto sfruttatore che trattiene il 70% dei loro guadagni dandogli almeno il vitto e l’alloggio.
Queste ragazze solitamente vestono “costumi han” , vale a dire vestiti normali.
1 Traslitterazione cinese del nome sipsongpanna che lingua dai vuol dire “12.000 campi di riso.”
2 I popoli tai sono una famiglia di etnie che vivono nel sud-est asiatico, nella Cina meridionale e nell’India nord-orientale. Parlano lingue appartenenti alla famiglia tai kadai e sono quasi tutte di religione buddhista theravada.
Siamo partiti da Dali in una mattina grigia e piovosa e siamo arrivati a Lijiang, una città ai piedi delle Montagne del Drago di Giada.
Nella parte vecchia le case sono di legno dai tetti spioventi e le vie sono lastricate di pietre irregolari che con la pioggia diventano molto scivolose. I colori variano dalle tonalità di grigio delle strade al rosso bordeaux del legno dipinto e al verde delle piante. Anche se Lijiang sembra completamente antico, molti edifici sono stati ricostruiti perché un forte terremoto nel 1996 ha distrutto circa un terzo della città.
Sembra una versione cinese di un borgo medioevale italiano e il primo che mi è venuto in mente, non chiedetemi il perché, è quello di Spello.
Qui abitano i Naxi, gente pacifica, sorridente e gentile, i cui tratti somatici assomigliano a quelli di alcuni tibetani.
Si dice che anticamente i Naxi avessero una società di tipo matriarcale o matrilineare e questi elementi traspaiono ancora da alcuni dei loro miti più antichi. Le loro tradizioni spirituali sono la religione Dongpa, una forma di sciamanesimo profondamente influenzato dal Bön antico, e il buddhismo tibetano.
Ai margini delle strade, lungo piccoli canali, scorre gorgogliando acqua limpidissima che di tanto in tanto passa sotto dei ponticelli arcuati dove si specchiano salici piangenti.
I turisti sono sempre tanti, soprattutto cinesi, del resto questo posto è davvero bellissimo.
Ci sono tante caffetterie, bar e ristoranti, che mettono i tavolini fuori lungo i canali, dove si possono trovare cibi che in Cina sono più esotici come il formaggio fritto locale, caffè dello Yunnan, pizza, ecc., che per me che mangio sempre cose cinesi sono un desiderio particolare.
Siamo stati qui qualche giorno anche l’anno scorso. Era finalmente piacevole farsi un caffè a colazione con qualcosa di dolce seduti ai tavolini lungo i canali. Abbiamo insegnato a fare una pizza in stile italiano alla manager di Mama Fu, un ristorante che sfoggiava orgogliosamente la scritta The Best Pizza in Lijiang, ma che faceva una strana pizza alta e piena di carne.
A Baisha, abbiamo visto gli antichi affreschi naxi e ci siamo fatti visitare dal Dottor Hu, il medico erborista da cui era andato anche Bruce Chatwin e qui siamo stati ripresi dalla tv di stato, la CCTV. Al Tempio del Picco di Giada (Yufeng Si), dove era custodito un albero secolare, abbiamo incontrato l’anziano lama Nyingmapa che lo aveva protetto durante la Rivoluzione Culturale.
Infine abbiamo rincontrato il gruppo di freaks giapponesi che avevamo conosciuto a Dali e con uno di loro Eguchi, un giapponese di trent’anni con la barba e dei dread locks che gli arrivavano quasi alle ginocchia, che girava sempre con il fon in valigia e che avevamo soprannominato Bong Baba, ci siamo avventurati fino a Zhongdian, avamposto sud-est dell’altopiano tibetano, poco distante da qui. Ma questa è un’altra storia.
26 Agosto
Stamattina abbiamo preso il l’autobus nº 7 da Piazza Mao Zedong e siamo partiti per le Montagne del Drago di Giada.
Il tempo era strano: pioveva, rispuntava il sole e poi pioveva ancora, e siccome non era un tempo da maglietta a maniche corte e non avevo portato il maglione, avevo freddo.
Lungo il tragitto, l’autobus è passato su una strada asfaltata in mezzo a una vasta pianura cosparsa di fiori gialli dove in lontananza le scaglie del Drago di Giada erano avvolte dalla nebbia.1
Arrivati a destinazione, abbiamo preso una seggiovia salendo fino a una foresta ricoperta da un tappeto di muschio soffice di un colore verde brillante. Lì abbiamo cominciato la nostra passeggiata e dopo un po’ che camminavamo all’ombra degli alberi, improvvisamente davanti a noi si è aperta una grandissima radura circolare in mezzo alle cime appuntite delle conifere.
Ai margini di questa radura, in prossimità della foresta, pascolavano buoi e dzo. L’eco dei loro muggiti risuonava nell’aria umida.
Spesso nell’aria rarefatta, davanti alla vastità di alcuni paesaggi montani, ti si apre il cuore, così anch’io ho gridato, ho gridato dal profondo, come insegnava Don Juan, e ho ascoltato l’eco della mia voce perdersi nel vuoto.
Questa è la terra degli Yi, abitanti delle montagne, delle alture e delle lande ad alta quota.
Indossano dei ponchos variopinti dove i colori prevalenti sono il nero, il rosso e l’arancione e dei cappelli di pelliccia, tipo quelli di David Crockett, guarniti da una lunga piuma d’uccello colorata, forse di fagiano o di qualche uccello rapace.
Abili cavalieri di queste lande e distese fiorite, come i Naxi, anche i loro visi hanno tratti vagamente simili a quelli dei tibetani e la loro lingua appartiene al ceppo tibeto-birmano.
Nel bus di ritorno vicino a me sedeva una donna Yi con un vestito tradizionale nero e verde e un grande cappello teso a foggia quadrata che le copriva anche la nuca. Con lei c’erano anche il figlio di tredici anni e il marito.
Abbiamo scambiato qualche parola ma è stato difficile comunicare, perché parlava un cinese che non riuscivo a capire bene.
La sera in piazza a Lijiang, Naxi, Bai, tibetani e Yi hanno ballato in cerchio intorno a un grande fuoco delle danze tradizionali e al centro c’era un uomo che suonava un piffero.
La piazza era piena di gente e alla danza si sono unite anche le vecchiette delle bancarelle, dei cinesi e un paio di turisti americani che cercavano di imitare al meglio i movimenti del gruppo.
A fine serata, il fuoco andava spegnendosi, il suono del piffero era più lieve e qualche giovane del posto ballava e rideva contento.
1Secondo una leggenda naxi queste montagne sono i resti di una grande nāgiṇī sconfitta in combattimento dall’uccello divino dalle ali dorate, il garuḍa (cin.Da Peng Jin Chi Niao). Una delle divinità principali del Bön antico è il khyung, uccello mitico che rappresenta l’elemento fuoco, e che viene associato al garuḍa della tradizione indiana. Anche nella religione Dongba questa è una delle divinità più importanti e compare spesso al centro di molte raffigurazioni iconografiche di questa tradizione.
Sono arrivato a Kunming, dove al Camelia hotel (il Chahua Bingguan) mia madre e una sua amica inglese mi aspettavano molto preoccupate perché, non immaginando che il treno dal Gansu al Sichuan sarebbe passato per lo Shanxi, ero arrivato con più di un giorno di ritardo. Paula, così si chiama l’amica di mia madre aveva letto su una guida della Lonely Planet che c’erano stati casi di turisti occidentali rapinati sui treni con dei coltelli e aveva condiviso la sua lettura con mia madre che, non vedendomi arrivare e non avendo avuto mie notizie, se prima era preoccupata, dopo essere venuta a conoscenza di questo, si era allarmata ancora di più.
Alla fine sono arrivato e insomma tutto bene quello che finisce bene, ora siamo a Kunming e ci godiamo un po’ la vita di questa piacevole città e tra poco partiremo per Dali. […]
Qualche giorno fa abbiamo preso un sudicio autobus con le cuccette e siamo arrivati qui a Dali l’altro ieri sera.
Dali è una cittadina con casette chiare dai tetti spioventi di tegole grigie, cinta da mura merlate su cui troneggiano due grandi porte in stile orientale. Da un lato ci sono le montagne e dall’altro il lago Erhai, un lago enorme punteggiato qua e là da tanti piccoli villaggi. A guardarlo sembra un deposito infinito di ricchezze, il tesoro di un drago nel suo palazzo, di un prospero re dei nāga con le sue preziose gemme.
Tra le tante gemme una particolare è certamente quella del villaggio di Xi Zhou a poca distanza da Dali. Immerso nel verde smeraldo dei campi, questo villaggio silenzioso dalle case bianche e grigie, rende un’idea dell’atmosfera che probabilmente regnava in questi luoghi una decina di anni fa.
Questa è la terra dei Bai.
Li incontri per le vie della città. Le donne con fazzoletti in testa, turbanti azzurri o neri, vestiti scuri ricamati con motivi di vari colori, anelli e bracciali d’argento. Gli uomini con il renmin mao, il cappello del popolo, in vestiti comuni o la giacca zhongshan, quella che indossava sempre Mao, in tinte blu o grigie. A volte si vedono donne Bai con i copricapi ornati da tanti colori e i vestiti chiari: bianco e rosa, celeste e blu, bianco e celeste. Mi sembra che vestano così soprattutto nelle zone più turistiche.
Sono di piccola statura e hanno dei volti simili a quelli delle popolazioni delle colline in alcune zone del sud est asiatico.
Il lago e la città erano il centro dell’antico Regno di Nan Zhao e del Regno di Dali1, regno che fu conquistato definitivamente per mano dei guerrieri più formidabili e temerari: i mongoli.
Sullo sfondo delle montagne, tre pagode bianche si stagliano verso le nuvole come tre Pilastri del Cielo.
1Il Regno di Nanzhao (VIII-IX sec.) e il Regno di Dali (937-1253), che ne fu la continuazione, erano regni la cui estensione corrispondeva pressappoco all’attuale Yunnan.
Se a Chengdu vi capiterà di andare nel quartiere di Wuhou, di fronte al grande santuario di Zhu Ge Liang, dall’altra parte della strada, passando tra la Banca delle Costruzioni e la Banca Commerciale, vi troverete a camminare su Wuhouci Hengjie, apparentemente una strada come tante altre ma vi potreste sentire completamente persi in un’altra dimensione, un piccolo mondo tibetano nella grigia monotonia che ormai caratterizza sempre di più questa città.
Monaci e lama dalle vesti rosso scuro e giallo zafferano, donne tibetane con lucide acconciature e preziosi gioielli, nomadi coriacei dalle terre del Nord-Est con scarponi da montagna, khampa con l’aria fiera di antichi guerrieri, vi guarderanno con curiosità, sospetto, entusiasmo.
Qualcuno interromperà il suo sussurrare di mantra con un saluto gentile, una manifestazione di rispetto, un sorriso dai denti d’oro, qualcuno invece vi seguirà con uno sguardo austero sparire all’interno di una porta, salire su una scala o girare dietro un angolo.
Ristoranti tibetani, hotel e bettole cinesi si affacciano qua e là tra negozi di statue buddhiste, thangka e altri oggetti rituali oltre a un’infinità di monili, pietre, portafortuna e souvenir di vario genere.
Ma quello che appare al comune viandante è solo la piccola parte di un labirinto su più livelli, esistono infatti degli spazi che l’occhio non vede, sale da tè e locali nascosti le cui finestre sono, spesso, celate dal fogliame di un albero o da una lunga balconata sopra a un generatore della corrente e a un groviglio di cavi dell’alta tensione.
Ci sono tanti posti segreti, cortili interni silenziosi, vicoli polverosi dove anziani cinesi sorseggiano tè su basse sedie di bambù giocando a majiang.1
Lungo la strada e nelle zone vicine, interi appartamenti vengono presi in affitto da tibetani e vengono trasformati in piccole pensioni che possono arrivare a ospitare fino a venti o più posti letto al costo di circa 20 o 25 yuan ciascuno.
Gli odori che si sentono sono quelli che ormai caratterizzano Chengdu: o di gas di scappamento, solventi, polveri di costruzioni e di pneumatici, o di hot pot, peperoncino, olio e fritto dei ristoranti e dei baracchini per strada, o di fogna. Quando raramente si sente un profumo, questo si mischia a tutti o almeno ad alcuni di questi odori.
L’unico odore che manca e quello dell’aria.
Tutto questo sembra un paradosso visto che negli antichi testi tibetani Chengdu era chiamata la “Città degli Dei” o la “Città Profumata” e i tibetani la consideravano un luogo sacro.
Lasciandosi il santuario di Zhu Ge Liang alle spalle, e camminando su Wuhouci Hengjie per poco più di 200 metri si arriva al Grande Incrocio, il “cuore” della sinmo inchiodata sul suolo di Chengdu, il punto d’incontro più importante del quartiere tibetano insieme al Kangding Hotel, dove la via incrocia una strada perpendicolare che a sinistra diventa Ximianqiao Hengjie e a destra Wuhouci Dongjie.
Queste due strade, che essenzialmente sono un’unica strada con due nomi, costituiscono le braccia della demonessa e avvolgono tutto il resto del quartiere nelle sue zone di “luce” e di “ombra”.
Avvicinandosi al Grande Incrocio, le note delle canzoni dell’altopiano diventano sempre più forti e si possono vedere gruppetti di uomini e di donne a quasi tutte le ore del giorno e della notte.
Al Grande Incrocio sostano sempre una o più camionette e mezzi della polizia ma sono degli elementi talmente comuni da queste parti che la gente non sembra badarci molto e continua il proprio via vai con indifferenza. I poliziotti che spesso sostano in piedi o che pattugliano la strada ricevono meno considerazione dei manichini esposti nelle vetrine. Questi almeno catturano l’attenzione di chi è in cerca di vestiti da comprare.
Non c’è tibetano che sia venuto a Chengdu che non sia passato per Il Grande Incrocio, dall’ U Tsang, dal Kham, dall’Amdo, dalla remota terra occidentale di Ngari, migliaia di chilometri per arrivare qui.
Sono ormai più di dieci anni che mi aggiro in questa zona, i miei passi l’hanno percorsa in lungo e in largo, entrando in ogni negozio, hotel, locale e ristorante, incrociando il cammino di grandi lama, mahasiddha , tertön e bodhisattva ma anche quello di falsi maestri, ladri, briganti, prostitute, imbroglioni, assassini e poliziotti in borghese.
Anche io, come loro, ho attraversato più volte questo crocevia, un posto piccolo ma con troppe storie, personaggi e situazioni per essere descritte in così poche righe. Storie di mercanti e artisti, di mendicanti, di pazzi, di gente mutilata e sfigurata, storie allegre e tristi, piccoli fili nell’infinita trama dell’umanità.
Tra queste, quella più bella è quella di un’anziana regina dei mendicanti. Un giorno ve la racconterò.
1Un gioco che ha molti elementi in comune con la nostra scala quaranta ma dove al posto delle carte vengono usati dei piccoli mattoncini colorati.
E’ una splendida giornata, stamattina presto il sole illuminava la mia stanza di una luce calda e chiara, sono stato svegliato alle otto meno un quarto da due mie alunne Sönam Yanggye e Sönam Dengye e un’altra di cui non ricordo il nome. Le due Sönam sono bambine di dieci anni e sono quelle a cui sono più affezionato insieme a Ma Jun, un bambino di poche parole ma dai grandi sorrisi e occhi vispi.
Sönam Yanggye e Sönam Dengye ieri hanno insistito per vedere la mia stanza e si sono messe a spazzare e a riordinarla alla perfezione nonostante avessi detto loro di lasciar stare.
Domani parto per Kunming nella provincia cinese dello Yunnan a una trentina di ore di treno da Lanzhou. Dovrei fare un pezzo di strada con il piccolo lama Benpa e il suo seguito che sono diretti alla montagna sacra Wutai.
Oggi è il giorno dei saluti, ma è solo un arrivederci a presto. Ho lasciato delle mie cose a Dorjetso.
(Labrang, 15 Agosto 2000)
Il 16 sono partito per Lanzhou e il 17 mattina ho preso il treno per Chengdu nella provincia del Sichuan.
Il Sichuan e il Gansu (dove si trova Labrang) sono due province confinanti e, basandomi su quanto mi aveva detto la gente, pensavo che ci sarebbero volute circa 15-16 ore. Ero salito nello scompartimento dei “sedili duri” (ying zuo) senza biglietto e non avevo un posto.
Dopo parecchie ore di treno scoprii che eravamo diretti verso Xian e che, per arrivare a Chengdu, avremmo impiegato 27 ore. Per via delle impervie catene montuose che attraversano il cammino, infatti, il treno deve tornare indietro verso est fino alla città di Xian nello Shanxi e da lì scendere verso Chengdu.
Sono rimasto seduto fino alle sei del mattino per terra sul mio zaino tra un vagone e l’altro, avevo fatto lo sbaglio di aver messo i soldi nello zaino e quindi avevo paura di lasciarlo incustodito, soprattutto non potevo andare in bagno.
Ero in compagnia di un’allegra brigata del Sichuan di ritorno da Lhasa. Un magro ragazzo liceale contadino, e un uomo barbuto muscoloso con un folto pizzetto nero che scherzava sempre, sembrava quasi un pazzo ma era divertente. Insieme a loro c’erano due ragazzi che sorridevano sempre e una ragazza magrissima piena di tagli e segni di bruciature su gambe e braccia che sembravano fatte con dei mozziconi di sigarette o qualcosa di rovente. La ragazza aveva un sorriso e degli occhi bellissimi.
Ad un certo punto in mezzo a noi buttati per terra, si è seduto un giovane basso e tarchiato con i capelli un po’ lunghi e dei tatuaggi che sembrava essersi fatto da solo, non parlava quasi mai, aveva un aria seria e dura e per questo è stato chiamato da me “il taciturno”. Nel Sichuan sono molti quelli che si tatuano ideogrammi soprattutto sulle braccia, anche il barbuto ne aveva alcuni e, oltre a lui, altri vicino a noi.
Ero immerso nella melodia scherzosa e piacevole del dialetto del Sichuan e mentre sedevamo per terra e parlavamo cominciavano a girare cosce e ali di pollo e poi focacce, frutta, semi di girasole, un pane dolciastro tipo quello delle merendine confezionate e sprite.
Le ultime sei ore di viaggio ho trovato un posto a sedere. Arrivato a Chengdu mi sono fermato in un ristorantino di noodles vicino alla stazione e, dopo un’oretta e mezzo d’attesa alla stazione, sono salito subito sul treno per Kunming anche qui senza comprare il biglietto alla stazione e facendolo direttamente sul treno. Questo sistema che si chiama bu piao infatti permette di evitare le lunghissime file per comprare il biglietto (che cominciano a tre giorni dalla data di partenza) e di prendere il treno all’ultimo momento, ma non permette di prenotare il posto, quindi si rimane quasi sempre in piedi nello scompartimento dei “sedili duri” o comunque seduto non su sedili.
Rispetto ad altri treni che ho preso prima questo treno non è male, è ordinato e pulito, cosa non usuale nei treni cinesi, soprattutto nello scompartimento dei “sedili duri”.
Fuori dal finestrino scorre un paesaggio del Sichuan assolato.
(Chengdu, 18 Agosto 2000)
Ho passato la notte annodato sul sedile con lo zaino come cuscino e mi sento un po’ incriccato, anche se molto meglio di come mi sentivo sul treno per Chengdu. La musica di sottofondo è una canzone disco-melodica, successo di questi anni, Butterfly, dove una vocina canta accompagnata da potenti bassi e altri effetti musicali. Fuori dal finestrino scorrono i campi, le casette dai muri di terra o mattoni e i tetti di tegole scure.
Minuscole figurine di contadini dai vestiti colorati si intravedono qua e là nei campi, come un immenso presepio vivente.
Parallele alla ferrovia, sullo sfondo, scorrono delle montagne ondulate. Tutto è molto verde.
Come tutti gli esseri viventi, anche noi umani desideriamo la felicità e non la sofferenza, nonostante questo nella vita incontriamo spesso periodi difficili e ostacoli.
Secondo l’insegnamento del Buddha, gli ostacoli e la sofferenza che sperimentiamo sono il frutto di azioni passate compiute o in questa vita o in una vita precedente.
A volte possiamo anche incontrare degli ostacoli che la tradizione tibetana chiama demoni o spiriti maligni, questi possono essere di vario genere e sono suddivisi in varie categorie o “classi”.
Il demone principale è quello dell’Io, che sorge dall’ignoranza di base della nostra vera condizione e che ci tiene prigionieri nel circolo delle nostre tendenze abituali, stati mentali negativi (kleśa). Questi stati mentali determinano il nostro modo di agire o di pensare e non fanno altro che alimentare sempre più la nostra sofferenza. Un po’ come una persona che ha sete e per farsela passare continua a bere dell’acqua salata.
Come possiamo porre fine a questo circolo? Sicuramente il modo migliore è seguire un sentiero che ci porti a una maggiore consapevolezza di noi stessi e infine a riscoprire la nostra saggezza innata che come una luce in una stanza buia, fa sparire in un attimo tutta l’oscurità, realizzando così la nostra bontà fondamentale o natura di buddha.
Il Buddha ha insegnato che il modo per realizzare questo stato è la meditazione unita a una certa attenzione al nostro modo di vivere e comportarci attraverso i nostri pensieri, parole e azioni.
Questa saggezza non si limita solamente a letture teoriche e dissertazioni filosofiche ma è basata sull’esperienza che viene dalla pratica.
Un proverbio cinese dice “leggere diecimila libri non è come viaggiare per diecimila li.”
Imparare da soli leggendo un libro o da internet in questo caso non funziona.
Da piccolo avevo letto tutto il Manuale delle Giovani Marmotte e in teoria sapevo come fare una tenda con i rami degli alberi ma non ho mai imparato a farla.
In questo processo infatti è importante la trasmissione degli insegnamenti da parte di un maestro che abbia fatto questo percorso e che abbia ottenuto le relative esprienze e realizzazioni.
Detto quali sono le principali cause della sofferenza e cosa sono i demoni nel senso più profondo, esiste però anche un altro livello di comprensione, su un piano relativo infatti questi ostacoli o demoni possono assumere un aspetto più materiale.
Per questo la tradizione buddhista tibetana, ricca di “mezzi abili” (upāya) offre anche altri metodi per eliminare gli ostacoli, diminuire la sofferenza, aumentare la lunga vita e la prosperità, ecc. Sempre nei limiti del proprio karma, infatti se non si riconoscono i pensieri e i comportamenti negativi passati cambiando il proprio modo di agire e di pensare, sarà difficile avere degli effetti positivi.
Tra questi ci sono le “ruote di protezione” shungkhor, disegni che spesso hanno l’aspetto di piccoli mandala all’interno dei quali sono scritti dei mantra, sillabe seme(bīja) e varie raffigurazioni solitamente su carta.
Oltre agli shungkhor ci sono anche i takdröl (liberazione attraverso il contatto) e i tongdröl (liberazione attraverso la vista).
Questi mezzi, che molti occidentali vedono come delle superstizioni che non hanno nessun fondamento logico o scientifico, sono stati scoperti da grandi tertön (maestri scopritori di terma) del passato e sono frutto della saggezza millenaria del Tibet e dell’India.
La loro efficacia, come in tutte le cose, si basa sul concetto di interdipendenza (tendrel) dei fenomeni, su un insieme di fattori.
Per fare un esempio molto semplice:
1) il primo fattore è una persona che vuole la protezione.
2) il secondo è che questa sia stata fatta da un maestro che abbia raggiunto elevate realizzazioni spirituali, o comunque da un lama qualificato appartenente a un lignaggio autentico, solo e unicamente allo scopo di beneficiare gli altri.
6) il sesto, non solidificare troppo quello che pensiamo e sperimentiamo e tutti i fenomeni in cui crediamo.
Se tutti questi fattori sono presenti, allora molto probabilmente tutto funzionerà per il meglio.
Questa è una spiegazione molto semplice che mi è venuta in mente ed è una mia interpretazione e probabilmente ci sarebbero ancora molti altri fattori da considerare.
E’ sicuramente molto importante avere una mente rilassata con poche preoccupazioni, dare la giusta importanza alle cose senza esagerare.
Un proverbio tibetano dice così: “chi ha pensieri, intorno ha nove spiriti maligni.” Insomma se pensiamo troppo, i problemi, gli spiriti maligni e gli ostacoli ce li procuriamo da soli.
Anche se la miglior protezione sono la presenza mentale e la pratica spirituale stessa, non sempre abbiamo questa attitudine, quindi queste cose ci possono essere d’aiuto.
Gli Shungkhor
Gli shungkhor sono delle protezioni, di solito vengono messe in piccoli contenitori ga’u e portate intorno al collo ma anche nella tasca di una camicia o di una giacca (sempre in posizioni alte, dalla vita in su, meglio all’altezza del cuore)
Shungkhor della Dea dal Parasole Bianco
Shungkor della Dea dal Parasole Bianco, contro ostacoli, negatività, malattie, calamità, danni di spiriti e per richiamare la fortuna.
Shungkhor di Guru Dragpo di Tsasum Lingpa
Shungkhor di Guru Dragpo contro le malattie contagiose.
Shungkor di Tara Sosor Drangma, contro le negatività, gli ostacoli e la sfortuna, di gran beneficio specialmente per i bambini.
Donyod Khorlo
Il Donyod Korloè uno shungkhor particolare scoperto da Guru Chöwang nel 13 sec. Oltre a essere tenuto addosso può anche essere messo nel pilastro della vita di una casa (pilastro principale), in casa o sopra la porta d’ingresso. Ecco cosa ci dice il maestro Dilgo Khyentse Rinpoche:
Questo khorlo messo in un tempio o in uno stūpa, dentro il tamburo di un tempio, un gong o uno stendardo di vittoria, statua o su una bandiera di preghiera, dentro il pilastro della vita, nella propria casa o sopra la porta o portato addosso o così via, pacifica completamente le oscurazioni e le azioni negative di molte vite. Rende stabile tutta la terra (luogo) nella virtù e nella buona fortuna, aumenta la longevità, i meriti, la prosperità la fama e la gloria vincendo su dèi, spiriti e uomini; protegge dai danni delle otto classi di spiriti, delle divinità della terra,nāga e nyan; distrugge il male degli spiriti malvagi jungpo e shidre; allontana tutti gli ostacoli, nemici, guerre, carestie e malattie contagiose. Uno otterrà la suprema e insuperabile illuminazione.
Protezione di Thangthong Gyalpo
Shungkhor di Thangthong Gyalpo contro i terremoti e le calamità naturali da tenere in casa.
Shungkhor contro i gyalpo
Nella tradizione tibetana i gyalpo sono degli spiriti maligni la cui influenza negativa può portare a eccessivo nervosismo, malattie mentali e anche alla pazzia e per questo molto pericolosi. Sono causa di settarismi e di conflitti all’interno delle comunità e ne minano costantemente l’armonia fino a dividerle anche con effetti violenti mettendo gli uni contro gli altri.
Secondo alcuni tibetani la violenza, la distruzione, i conflitti tra familiari e lo scontro tra fazioni rivali avvenuta durante la Rivoluzione Culturale in Cina e in Tibet sono stati opera dei gyalpo.
La protezione contro questa classe di spiriti è ritenuta molto importante.
Questo shungkor può essere indossato o tenuto in casa.
I Tongdröl
I tongdrol “liberazione attraverso la vista” hanno la qualità di lasciare un impronta karmica positiva a chi lo guarda, assicurando una connessione con il dharma e la relativa liberazione nelle vite future. Non tenuto addosso ma può essere tenuto in casa in una cornice.
I takdröl “liberazione attraverso il contatto” indossati a diretto contatto con il corpo delle persone (all’altezza del cuore, il verso giusto e quello delle immagini qui sotto) se questi sono praticanti ne aumentano la chiarezza della mente.
Se messi e tenuti a contatto con il corpo di una persona defunta la aiutano nel periodo tra la morte e la rinascita (bardo).
Takdröl di Karma Lingpa del ciclo dello ZhitroTakdröl terma di Jamyang Khyentse WangpoTakdröl di Jigme Lingpa, Longchen NyingthigTakdröl di Tsasum Lingpa
Il takdröl di Tsasum Lingpa è descritto da Padmasambhava in questo modo:
Fortunati coloro che indossano questo chakra, Saranno liberati dalla sofferenza dei sei regni. Loro bloccheranno la porta dei quattro tipi di nascita E subito attraverseranno i dieci bhūmi e i cinque sentieri. In questa vita, prosperità e bodhicitta aumenteranno. Al momento in cui i loro corpi scompariranno Appariranno arcobaleni e piogge di fiori. Daka e ḍākinī del Monte Potala andranno loro incontro con offerte e musica di cimbali. Si verificheranno diversi segni meravigliosi. Rinasceranno in un Reame del Sambhogakāya, manifestando supreme, meravigliose emanazioni, Bodhisattva che realizzano il beneficio degli esseri.
Una mattina Gönpa, un mio amico di Dzoge che vive a Labrang, mi ha detto che stava andando da Alak Chomge, il lama anziano dove ero andato con Danpa qualche giorno prima.
Voleva chiedergli di scacciare uno spirito maligno che causava problemi e litigi fra lui e la moglie. Abbiamo preso un sanlunche1, siamo partiti per la strada principale e poi abbiamo continuato salendo per le vie laterali passando tra le case dei monaci fino alla residenza del lama.
Entrati nella sua stanza, Gönpa si è inginocchiato davanti a lui tre volte, gli ha offerto un katak e ha cominciato a parlare con lui in tibetano. Dopo averlo ascoltato in silenzio, Alak si è messo a ridere e ha continuato a guardarlo con quel suo sguardo vitreo e misterioso lasciando Gönpa senza parole, con un’espressione imbarazzata.
Io non capivo niente di quello che dicevano e uscendo ho chiesto al mio amico cosa avesse detto il lama.
“Ha letto la mia mente” mi ha risposto lui intimorito.
“Perché? Cosa è successo?”
“Alak ha detto: come posso aiutarti se non hai fiducia in me? Questa mattina volevi andare da un altro lama.”
“Ed è vero, questa mattina ero indeciso se andare da lui o da un altro lama importante del monastero e lui lo ha visto. Altrimenti come poteva saperlo?
“Incredibile! Ha letto la mia mente.” continuava a dire in inglese mentre ci allontanavamo.
Protezione contro le influenze negative degli spiriti gyalpo.
10 agosto
Questa mattina c’era il sole, poi dopo pranzo si è messo a piovere e adesso, le 4 del pomeriggio, è rispuntato il sole.
Anche ieri mentre pioveva da una parte della città, dall’altra c’era il sole. Un versante della montagna era ombroso, mentre l’altro era soleggiato. Qui il tempo è strano.
Ieri con Danpa e Gönpa siamo tornati da Alak Chomge per chiedergli la trasmissione (lung) di alcuni mantra
Alak è un lama che vede chiaramente nel cuore delle persone, sembra vedere il passato e un probabile futuro e temevo che vedesse anche le mie paure, le mie contraddizioni interne, la mia inquietudine.
Il nervosismo e l’esitazione nel varcare la porta si sono dissolti in un istante quando ho udito la sua risata dolce e confortante. “Se riesce a vedere la mia mente allora è inutile essere nervoso.” “Sono come sono.”
“Chö demo”2 ho detto e Alak, con la stessa voce di un nonno che si rivolge a un nipote, ha risposto lentamente: “ya ya demo”.
Stava seduto sempre nella parte rialzata della stanza, mi sono inginocchiato davanti a lui per tre volte e gli ho porto un katak bianco con un’offerta in denaro. Sono rimasto in ginocchio davanti a lui a testa bassa e occhi chiusi mentre Alak pronunciava dei mantra e alcuni versi per me incomprensibili. Questo era un lung.
Alla fine della trasmissione mi ha detto che se avessi recitato questi mantra ogni giorno, avrei facilmente superato il problema in cui mi sarei imbattuto a 36 anni.
Alak mi ha dato anche un cordino rosso da mettere al collo e una sua foto sulla quale aveva sparso dei semi d’orzo sussurrando delle preghiere.
Avevo detto che il tempo oggi era strano? Si è rimesso a piovere.
Il sole stava per tramontare quando siamo andati alla casa del lama di Danpa, Alak Chomge.1
La sua casa era in alto in direzione della montagna, vicino alla khora. La strada sterrata saliva fino ad uno spiazzo su cui si affacciava una porta. Siamo entrati nella grande porta di legno a due ante e attraversato un ampio cortile salendo delle scalette di pietra.
In una stanza di legno ad un angolo del cortile sedeva il lama con altri due monaci. Mi dissero che aveva 84 anni ed era uno dei lama più anziani del monastero. Mi hanno colpito i suoi occhi, chiari per la vecchiaia, sembrava che vedessero oltre l’apparenza delle cose. Quando sono entrato la prima cosa che ho fatto è stata inginocchiarmi davanti a lui porgendogli una sciarpa rituale bianca (katak) tenuta con entrambe le mani e lui, dopo averla presa, me l’ha appoggiata sulle spalle e toccandomi dolcemente le guance con entrambe le mani come si fa con i bambini ha detto: “o ya!”
Sedeva in un angolo della stanza, questa era tutta rivestita di legno rossastro con katak bianchi, gialli e azzurri appesi alle pareti.
I monaci che stavano nella stanza ci hanno offerto una ciotola di yogurt. Abbiamo parlato un po’ con Alak Chomge, Danpa traduceva e di tanto in tanto l’anziano rideva calorosamente.
Danpa gli stava spiegando che avevo studiato e lavorato per un po’ a Pechino e che ero poi venuto a Labrang l’estate e il lama disse che vedeva tutte le cose che avevo fatto in precedenza. Ero molto emozionato, non ho mai creduto a queste cose ma mentre il lama parlava e mi guardava non avevo alcun dubbio che quello che diceva fosse vero.
Quando Danpa gli ha raccontato la mia paura riguardo a quello che mi sarebbe successo a 36 anni, lui si è messo a ridere, dicendo che se avessi recitato dei mantra la mia vita non avrebbe avuto problemi. Prima di andare via mi ha fatto mettere di nuovo in ginocchio davanti al piano rialzato dove sedeva e, prendendo un testo buddhista avvolto in una tela gialla, lo ha appoggiato sulla mia testa, poi sulla spalla destra, poi su quella sinistra, poi ancora sulla testa e così via, recitando dei versi in sanscrito a voce bassa che non capivo.
Alla fine ha appoggiato di nuovo il tomo sulla mia testa e ha concluso la recitazione con la parola samaya detta a voce un po’ più alta. In quel momento ho sentito un’energia penetrare nella sommità della testa e propagarsi verso il basso come un brivido.
Abbiamo salutato Alak Chomge e gli altri monaci e siamo andati via.
Stavamo andando a casa di Danpa e scendevamo giù per le vie del monastero. Era buio.
Quando siamo arrivati, il fratello di Danpa, Lobsang e il piccolo monaco allievo di Danpa, stavano preparando da mangiare. La stanza di legno era riscaldata dal calore della stufa. Dopo mangiato ho studiato un po’ di tibetano con Danpa e gli ho insegnato un po’ d’inglese. S’erano fatte le dieci, era tardi e l’indomani dovevo insegnare inglese ai bambini con il mio amico Gönpa, dovevo andare.
Danpa mi ha accompagnato con una piccola torcia lungo le strade di terra che serpeggiano irregolari tra le case dei monaci dai muri d’argilla. Tutto intorno era buio, solo la luce di stelle mai viste prima. La via lattea era chiara e distinta, sopra di noi brillava la costellazione dello scorpione con la sua stella rossa: Antares.
1 Alak Chomge è il settimo in ordine d’importanza a Labrang Thashikyil (su 65 lama). Alak è un termine molto usato in queste zone dell’Amdo davanti ai nomi dei lama per indicare la reincarnazione di un maestro (in altre zone è più usato il termine tulku o rinpoche).
Le cose che ci circondano, gli eventi che ci accadono, i nostri progetti, comprese le relazioni che abbiamo con gli altri, sono tutte interdipendenti (in tibetano tendrel). C’è una parola tibetana che indica una circostanza fortunata: thashi tendrel. Alcune persone pensano che thashi tendrel sia una cosa che possiamo creare, determinare ma essa si manifesta spontaneamente: in un giorno importante alziamo lo sguardo e vediamo un arcobaleno.
Se pensiamo di poterla creare la nostra mente comincia a ragionare calcolando e molto probabilmente non si manifesterà.
Voglio raccontare una storia che comincia da una di queste circostanze fortunate e prosegue attraverso le tante situazioni interdipendenti che da essa si sono dispiegate.
Un pomeriggio ero a Roma a Prati con mio nonno, in una delle varie “spedizioni” pratiche o burocratiche, stavamo camminando sul marciapiede e improvvisamente il mio sguardo venne catturato dalla copertina di un libro in una vetrina di una libreria. Sulla copertina c’era l’immagine di un buddha: era il libro di Terzani “Un indovino mi disse” e mio nonno me lo regalò.
La storia di Terzani e dei suoi incontri con vari indovini e astrologi mi piacque molto, l’idea di conoscere il mio futuro mi incuriosiva e allo stesso tempo mi spaventava. Per tutto quell’anno ne fui fortemente influenzato e nei miei viaggi in Asia, quando sentivo di un indovino o di un astrologo, lo volevo incontrare per farmi predire il futuro.
A Labrang quell’estate ho conosciuto un monaco che veniva da Trika (cin. Guide, nella provincia del Qinghai), si chiamava Aku Danpa e viveva nel monastero di Thashikyil insieme a suo fratello Lobsang. Entrambi avevano un viso che sembrava quello delle antiche statue di legno dorate dei lama e dei buddha che si trovano ancora in alcuni vecchi monasteri.
Aku Danpa aveva studiato medicina tibetana e astrologia e subito pensai di farmi leggere il futuro. Era il primo dei miei indovini.
Gli dissi la mia data e ora di nascita e dopo qualche giorno Aku Danpa mi diede la risposta che aveva scritto su un foglio di carta.
“La tua vita andrà sempre meglio ma a 36 anni (35 in occidente)1 avrai un problema abbastanza grande che poi supererai”.
Sì, è vero l’avrei superato ma le parole “problema abbastanza grande” avevano fatto sorgere in me una certa agitazione.
Quando gli chiesi più spiegazioni, lui rispose che per dirmi con più precisione cosa sarebbe successo a 36 anni avrebbe dovuto fare un altro calcolo astrologico più specifico di quella fase della mia vita e che ora non aveva tempo ma se volevo mi avrebbe portato dal suo maestro, un lama molto anziano, e avrei potuto chiedere a lui.
1 Quando Aku Dampa mi lesse la risposta disse 36, ma molti tibetani a cui raccontai in seguito questa storia mi dissero che era 37 (In occidente 36 anni. Nell’astrologia tibetana e in quella cinese infatti si conta anche il periodo passato nel grembo materno e si aggiunge un anno). Nel 37° anno, infatti, si conclude il 3° ciclo dei 12 animali e l’elemento dell’anno è in contrasto con l’elemento del proprio segno e in genere si presentano negatività e ostacoli. Per il serpente di fuoco (1977) il 37° anno è stato il serpente d’acqua (2013).
“Sindhura, la valle di Chakrasaṃvara (Tib. Demchok) che si trova tra le due correnti”, così i tibetani chiamano questa valle che si trova all’interno di un ansa particolare del Fiume Giallo (tib. Machu), un luogo sacro, un nekhang, un posto unico con un feng shui perfetto e un energia particolare. Nominata in antichi testi indiani e meta di eremiti questa valle ha l’aspetto di un canyon di terra rossa (Scr. sindhura), le rocce sono friabili con alcune zone più aride dove non cresce niente ed alcune in basso più fertili, coperte di vegetazione e di alberi di hua jiao mano mano che ci si avvicina al fiume. Questo luogo è uno dei luoghi sacri di Demchok e ha una storia bellissima e misteriosa….
Uno yogi venuto dall’India si ferma in una grotta di questa valle a meditare. Una giovane ragazza del villaggio vicino lo vede e ogni giorno gli porta da mangiare. I due si innamorano provocando il dissenso della gente del posto. Un giorno una barca con a bordo la ragazza affonda, tutti si salvano ma la ragazza sparisce. Passa del tempo…. Un giorno una bambina del posto ode una voce: “aprite la porta! Aprite la porta!”, ma nella valle non c’era alcuna porta e la voce proveniva dalla parete rocciosa che sovrasta la valle, dal profondo della roccia. Dopo qualche giorno la bambina torna con la gente del posto, all’improvviso un pezzo di roccia salta via da solo e lo spettacolo che si para davanti ai loro occhi li impressiona fortemente: lo yogi e la ragazza (che avevano già raggiunto la realizzazione suprema di Chakrasaṃvara) sono uniti nella karmamudrā. Cercano di separarli, di dividerli ma i loro corpi rimangono legati indissolubilmente l’uno all’altra, dopo innumerevoli tentativi alla fine vi riescono ma i due giovani muoiono.
A ridosso della parete rocciosa dove si era aperta la grotta, ad una discreta altezza dal livello del suolo è stato poi costruito un piccolo lhakang, un santuario che conserva la statua dello yogi e dalla sua consorte in quella grotta.2 La ‘porta’ della caverna, la roccia saltata fuori della parete giace ancora a terra nella valle ad alcuni metri di distanza e i tibetani ci girano intorno nella circoambulazione rituale o khora.
Un vecchio monaco ha vissuto qui, prendendosi cura del santuario per anni, dopo la sua morte un lama anziano di Labrang e venuto qui a recitare le scritture e a fare offerte alla divinità e agli spiriti del luogo. E’ questo lama che io e Sebastiano siamo venuti a trovare. Il lama, Aku, e’ un uomo non tanto alto, di corporatura grossa, i suoi abiti da monaco sono vecchi e strappati, la sua voce e la sua risata rauche e un grande senso dell’umorismo. Aku ci raccontava che a molti nel monastero di Labrang non piacciono i monaci poveri e stracciati come lui e a lui non piacevano quelli che sono monaci solo esteriormente e non nel cuore. I giorni nella valle con lui sono stati giorni bellissimi, indimenticabili: dormivamo all’aperto sotto i piccoli alberi ai piedi della parete di roccia, proprio sotto il santuario; cucinavamo con pochissimo, (tsangpa, melanzane e cavoli e noodles che Sebastiano aveva comprato lungo la strada) con legna e fuoco.
Aku aveva arrangiato sotto l’ombra degli alberi un tappeto, una stuoia e dei lembi di stoffa che cingevano il tutto e dentro aveva riposto degli oggetti rituali, bandiere di preghiera, un piccolo focolare su delle pietre, una teiera d’alluminio annerita per il tè e una pentola. Durante il giorno il sole era forte e faceva molto caldo, la sera era fresco e bisognava coprirsi. Nella valle non c’era la luce e la notte sedevamo accanto al fuoco e dormivamo tutti e tre lì sulla stuoia e sul tappeto, sotto i piccoli alberi….sotto le stelle….e ci addormentavamo al sibilare del vento….non avevamo coperte e venivamo mangiati dalle zanzare.
Aku spesso dormiva in una piccola casa bassa dai muri d’argilla poco più in là, a parte noi tre in questa valle le uniche persone erano gli abitanti di un villaggio più lontano e raramente qualcuno veniva nella nostra direzione. La mattina Aku ci dava qualche breve insegnamento che non riuscivo a capire benissimo e il pomeriggio passavamo difronte ad uno dei massicci rocciosi che formavano questa sorta di canyon e andavamo a fare il bagno nel Fiume Giallo. Un giorno abbiamo provato un “avventura” come diceva Sebastiano e ci siamo e ci siamo inerpicati su una di queste grandi rocce, una salita abbastanza pericolosa, degna di lui e mentre salivamo e scendevamo sui sentieri scoscesi intonavamo allegramente la musichetta di Indiana Jones per caricarci e mantenere vivo l’entusiasmo e la determinazione a proseguire e non tirarsi indietro davanti agli ostacoli. In questa gola il paesaggio era magnifico: le grandi rocce rosse, il fiume, gli alberi profumati di huajiao, il Fiume Giallo e le sue rive erano pieni d’argilla ma l’acqua era pulita. Tra un tuffo è l’altro ci ricoprivamo tutto il corpo con il fango caldo e facevamo a gara con i bambini di un villaggio poco lontano a slittare sulla riva fangosa a pancia in giù e Sebastiano faceva i salti mortali. Nel fiume lavavamo gli unici vestiti che avevamo mettendoli ad asciugare al sole e il tempo era così caldo che si asciugavano subito.
Aku mi ha insegnato molte cose, ma soprattutto a vivere la libertà e la spontaneità del Dharma….la libertà e la spontaneità della vita.
L’ultimo giorno, quando stavamo andando via per tornare verso Labrang, Sebastiano mi ha detto che la magia di questo posto sarebbe finita presto.
“Perché?” Chiesi io.
“Hai visto la strada? Prima non c’era.”
“Ma chi potrebbe essere interessato ad un posto come questo?”
“I cinesi fanno di tutto per i soldi.” Rispose lui.
Sulla via del ritorno pensavo ai giorni passati a Luojiadong. Ero emozionato e felice ma queste emozioni erano velate da una leggera malinconia.
Questa mattina ci siamo alzati prestissimo e, dopo una colazione a base di tsangpa, pane, uova sode e te con latte ci siamo avviati all’autobus per Linxia accompagnati da Dorjetso. Linxia si trova nella valle del fiume Daxia, un affluente del Fiume Giallo, per secoli ha costituito un centro religioso, culturale e commerciale importante della comunità islamica in Cina, qui infatti la maggioranza della popolazione è musulmana1 e con le sue innumerevoli moschee è chiamata dalla gente del posto la “piccola Mecca della Cina”.2
Ho portato con me solo l’essenziale: 2 quaderni, 1 libro, foglie di tè verde, mala, maglione di lana, carta igienica, un pezzo di pane e un uovo sodo avanzati dalla colazione, occhiali da sole di pietra per camuffamenti, mettendo tutto in una borsa di tela da monaco.
Gli unici vestiti sono quelli che ho addosso, pantaloni viola e maglietta arancione. Nell’autobus abbiamo incontrato un gruppo di ragazzi cinesi musicisti di Lanzhou che studiavano il buddhismo. Durante il viaggio abbiamo parlato un po’ e arrivati a Linxia ci hanno offerto il pranzo: shou zhua yang rou, grossi pezzi di carne di pecora da prendere con le mani, (la carne di pecora di questi luoghi è macellata alla maniera musulmana ed è famosa in tutta la Cina), chao mian pian, una specie di orecchiette in brodo, il tè ba bao, molto bevuto tra gli hui e gli altri musulmani della zona, e huang jiu, un vino con le bacche gou ji che va bevuto molto caldo.
Durante il pranzo abbiamo parlato di cultura e usanze cinesi e di cultura e usanze italiane e straniere, un ragazzo magro con il viso scavato e gli occhiali era esperto in buddhismo chan ed era interessato al buddhismo tibetano.
Dopo mangiato abbiamo cominciato a cantare e suonare la chitarra dentro il ristorante: loro hanno cantato una canzone del nord-ovest tutti insieme, l’esperto di chan alla chitarra accompagnato da un ragazzo con i capelli lunghi e l’orecchino un po’ stile Hei Bao o Tang Chao (dei famosi gruppi hard rock cinesi) che io, preso dall’ebbrezza dello huang jiu, avevo soprannominato “Er Giaguaro”.
Con la sua poderosa chitarra il Giaguaro si è esibito in una serie di pezzi rock in perfetto inglese come “What’s Up” dei 4 Non Blond e “Holiday” degli Scorpions e, su mia richiesta, hanno cantato “Yi Wu Suo You” e altre canzoni di Cui Jian, il padre del rock cinese. Io ho cantato e “The House of the Rising Sun”, “La Canzone del Sole”, “Knockin’ on Heaven’s Door” versione Guns ‘n’ Roses , “I Remember You” degli Skid Row….insomma il mio solito repertorio con strimpelli da menestrello. Poi un accenno di “Grazie Roma”; “Acqua Azzurra” e “O Sole Mio”, in duetto con Sebastiano e come gran finale abbiamo cantato tutti insieme due canzoni dei Tang Chao, l’ultima: “Tai Yang” (sole). Che cinesi strani e interessanti.
Dopo esserci salutati e scambiati gli indirizzi siamo andati alla stazione ovest per prendere l’autobus per Liu Jia Xia.
“No parte domani alle 6:30.” Ci dice un ragazzo hui (una delle minoranze musulmane della Cina).
E quindi eccoci qua, in una pensione-baracca difronte la stazione, è una pensione per cinesi, noi siamo illegali qui, a 6 kuai a notte (1200 lire), non ho mai trovato niente di meno costoso in quasi due anni di Cina a parte i prati e il pavimento del salotto di Lei Jian a Pechino.3
Pensione? Le pareti sono di compensato con buchi che permettono di vedere le stanze adiacenti, la “porta” è un pannello di plexiglass scorrevole stile “giapponese”, le pareti di compensato e la porta potrebbero essere buttate giù in un attimo e per di più il pannello scorrevole è aperto in alto. Le stanze sono 2 metri per 2 o forse poco più; 2 letti con lenzuola a fiori non lavate, materassi sottilissimi e sporchi poggiati su assi di legno, il pavimento è di cemento e la mobilia è tutta appiccicata: 2 letti e 1 comodino.
Non mancano i classici accessori del confort cinese: televisore Bei Jin, un thermos per l’acqua calda e due tazze sporche. Un cartello sul muro lercio dice qualcosa sull’igiene con la figura di un poliziotto che fa il saluto militare. L’acqua è quella del thermos e ci si lava nella bacinella e il bagno è quello della stazione degli autobus.
Vicino a noi c’erano dei grossi tibetani con dei grandi coltelli alla cintola e visto che le pareti di compensato e la porta di plexiglass non mi davano una sensazione di grande sicurezza e in più noi eravamo stranieri, all’inizio non ero molto tranquillo.
Stasera abbiamo mangiato degli spiedini ad un banchetto per strada, bevuto del tè dolce e fatto due chiacchiere con la signora della pensione.
Domani mattina partiamo alle 6:30.
Nella stanza Sebastiano mi ha spiegato per la prima volta degli esercizi di meditazione e abbiamo meditato un po’ insieme, anche se non sono riuscito a concentrarmi un granché.
2 Rimane ancora oggi il centro principale degli ordini Sufi Qadiriyyah e Khufiyya in Cina e terra natale di Ma Mingxin (1719–1781), fondatore dell’ordine Sufi Jahriyya.
3 Non potevo immaginare che nel capodanno dello stesso anno, a Labrang, ne avrei trovata una a cinque kuai a notte e che avrei poi raggiunto il record stando qualche giorno in una di tre.
Finalmente mi sono elevato dagli abissi di Lanzhou, una delle città più inquinate del mondo, alle montagne del Amdo, la Lamaseria di Labrang dove ho rincontrato i miei amici Gönpo e Sebastiano.
Erano due anni che non vedevo Sebastiano e sono stato contentissimo di parlare ancora con lui. Parlavamo sempre di tante cose: la visione della vita, il significato e il valore dei rituali e della spiritualità in genere e lui aveva sempre un grande senso dell’umorismo e di tanto in tanto faceva battute per sdrammatizzare il tutto.
Nel tardo pomeriggio siamo andati insieme ad un bambino olandese e ai suoi genitori a trovare un giovane tulku nella sua residenza poco lontano dalla Guesthouse del monastero.
Il tulku ha undici anni ed è la reincarnazione di un lama che nella vita precedente aveva raggiunto un alto livello di realizzazione.
Sono rimasto stupito dal suo inglese, decisamente inusuale per un bambino della sua età. Monaci, tutori, suo padre e sua madre gli stavano sempre vicino.
Tra loro c’era anche un ragazzo di Pechino, un tipo molto magro con un po’ di barba e baffi.
Era buddhista, aveva incontrato il piccolo lama alla montagna sacra Wutai in Cina ed era tornato qui con lui per insegnargli il cinese ed approfondire il suo studio e la sua pratica.
Questo fatto è decisamente inusuale infatti in Cina, a parte i monaci, qualche anziano e qualche curioso, finora non ho incontrato molti cinesi buddhisti e quelli che seguono il buddhismo tibetano sembrano essere ancora meno.
Sul piazzale del monastero vedo spesso pullman di turisti cinesi ma nessuno che preghi o che abbia una mālā in mano o al collo, si limitano a girare per i vari padiglioni seguendo goffamente una guida e a fare foto invadenti lungo la khora ai pellegrini suscitando reazioni di sdegno. I tibetani infatti non amano essere fotografati da loro o comunque non sembrano dargli il benvenuto.
Bempa, così si chiama il piccolo lama, ha un’energia e una voglia di giocare uguali a quelle di tutti i bambini. Abbiamo fatto qualche passaggio a pallone con lui fuori nel cortile ed era molto contento. Dopo un po’ siamo andati via.
La sera nella cameretta di Sebastiano, dietro al ristorante, abbiamo mangiato ancora tofu in salsa piccante, patatine fritte e dei funghi tibetani infarinati con l’orzo dal gusto burroso. Dopo una lunga chiacchierata sono andato a dormire, ero esausto.
Le stelle si stagliavano nitide e luminose su cielo nero….le stelle di sempre.
21 Luglio
Oggi dopo tanto tempo ho seguito la khora intorno a Labrang Thashikyil. Qui il sole è molto forte e le ore migliori per circoambulare il monastero sono quelle del primo mattino o del pomeriggio dopo le cinque, così io e Sebastiano ci siamo incamminati nel tardo pomeriggio, dopo aver comprato del pane, e preso del ketchup e della marmellata. E venuto anche con noi Asang un bambino tibetano molto vivace e ci seguiva con in mano un sacchetto d’uva fragola che gli aveva dato sua madre. Camminavo come tutti gli altri facendo girare le grandi ruote di preghiera (mani khorlo) colorate con una mano e tenevo la mālā (una sorta di rosario) nell’altra.
Alla fine di una fila di ruote e all’inizio di un’altra spesso c’erano delle piccole stanze scure, le pareti ricoperte di dipinti raffiguranti i buddha e i bodhisattva erano illuminate solo dalla luce fioca di lumini ad olio e al centro c’erano delle ruote dalle dimensioni enormi. Ruota dopo ruota, le lettere dorate dei mantra che giravano scintillando alla luce del sole mi facevano quasi perdere l’equilibrio.
Il nostro cammino era accompagnato da file di vecchiette rugose e sdentate, pastori sporchi dalle facce bruciate dal sole e sorrisi dorati, ragazze sorridenti e curiose e monaci dal passo spedito. Il bisbigliare di mantra ondeggiava nell’aria, come i cerchi provocati da un sasso in uno stagno.
Arrivati al Gungthang Chörten ho incontrato Kagya, il monaco custode che avevo conosciuto l’anno scorso e con cui mi fermavo spesso a parlare quando arrivavo in quel punto.
Le montagne ondulate, i falchi, il fiume, il ponte di legno con le bandierine di preghiera.
Passato un secondo e più piccolo chörten bianco in muratura siamo saliti lungo il sentiero che sovrasta gli ampi piazzali e i tetti d’oro del monastero e che costeggia la montagna, ci siamo fermati su dei gradini e alla rosea luce del tramonto abbiamo pasteggiato a base di pane, ketchup, marmellata e uva.
“Demo” dicevano i monaci che passavano lungo la via. Eravamo rimasti lì seduti da un po’ a parlare e a goderci il panorama e quell’atmosfera di pace, quando è arrivato un uomo sporco e stracciato e rivolgendosi a noi, ha detto qualcosa per me incomprensibile. Sebastiano mi ha detto che l’uomo ci aveva invitato ad avviarci verso casa e che lui ascoltava sempre i consigli di uomini così.
“Hanno un sesto senso è meglio ascoltarlo.”
Così ci siamo incamminati, il sole era quasi tramontato del tutto. Le casette di meditazione sul fianco della montagna….due padiglioni con ruote enormi e lumini ad olio….un giro intorno ad un altro chörten….un ultima lunga fila di ruote ed eravamo al ristorante di Dorje.
Il giro era finito ed eravamo molto stanchi: due momo di yak fritti e a letto.
28 luglio
Questa mattina come al solito ho fatto colazione al ristorante della famiglia di Dorje: il Labrang Monastery Restaurant con tsangpa e tè con latte. Finalmente, dopo tanti tentativi, l’impasto dello tsangpa mi riesce bene e non faccio più il solito pasticcio che fa ridere tanto i tibetani.
Dopo colazione sono andato a fare la khora, il tempo era brutto e lo è stato fino a sera, ha piovuto e tirava un vento freddo. A cena ho mangiato dei mian e sono tornato alla guesthouse del monastero.
Questa guesthouse si trova in una piccola traversa della via principale più sù poco lontano dal ristorante ed è una delle più economiche (un posto letto costa 5 kuai). Attraversando un cancello di ferro, si entra in un cortile di terra battuta intorno a cui si aprono delle porte di legno arancioni ognuna con accanto una finestra. Dalle porte arancioni si accede direttamente nelle stanze che si trovano tutte al piano terra.
La mia stanza ha due letti, una stufa (di solito alimentata con sterco di yak essiccato) e un bollitore d’alluminio per l’acqua calda, la porta si chiude puntellando un asse di legno alla stufa. Come la maggior parte delle abitazioni in Tibet e non c’è l’acqua corrente l’acqua si prende da un pozzo o dal bidone nella stanza di Kalsang, il gestore della guesthouse, e ci si lava in una bacinella nella stanza e il bagno è una latrina comune fuori.
Gli altri ospiti della guesthouse sono principalmente pellegrini tibetani o mongoli, che vengono a visitare il monastero e a fare la khora.
Di tanto in tanto per il cortile passeggia qualche vecchietta rugosa e sdentata.
Una vecchietta con i vestiti colorati e i capelli legati in piccolissime treccine divise in tre fasce, che arrivano quasi a terra, sorride ogni mattina.
Accanto al cancello c’è la stanza di Kalsang, un amico di Lama.
Kalsang è un uomo di bell’aspetto, magro con i capelli corti, ha vissuto in India per molti anni e parla bene inglese. La sera ho parlato con lui, è un tipo strano, di poche parole, un po’ enigmatico.
A Labrang girano tante storie su di lui e su alcuni dei suoi amici. Ogni tanto lo incontri sulla strada o lo vedi uscire da dietro un angolo. Con quel suo sguardo furbo e furtivo sembra sempre essere in cerca di qualcosa o di qualcuno. Sembra saperne una più del Diavolo.
29 luglio
Oggi io e Dom, un ragazzo belga che avevo conosciuto la sera prima, ci siamo incamminati verso una delle montagne di fronte al Gungthang Chörten, abbiamo passato il ponte di legno ricoperto di bandierine di preghiera, siamo arrivati dall’altra parte del fiume, siamo saliti sulla montagna e ci siamo seduti sull’erba al sole ammirando il panorama: i tetti dorati del monastero e del chörten e le basse case d’argilla dei monaci. Vicino a noi c’erano un uomo e una donna che sedevano in silenzio con i rosari in mano e abbiamo parlato un po’.
Dopo un po’ è arrivato un ragazzo e insieme a lui siamo saliti più in alto fino ad un boschetto di pini alti e sottili che s’innalzavano sopra un soffice tappeto di muschio. Siamo rimasti lì per un po’ in silenzio ad ascoltare il suono del vento, un sibilo dolce che faceva muovere le cime degli alberi.
“Prima qui non c’erano alberi.” Ha detto il ragazzo.
“Qui un giorno il lama di Labrang si e rasato e ha sparso i suoi capelli che sono diventati alberi di pino.”
“Quest’anno se ne è andato, quindi ci sono meno fiori.”
“Perché non ci sono i falchi?” Ho chiesto.
“Perché ieri è morto uno del paese e i falchi stanno dall’altra parte della montagna, dove hanno portato il corpo.”
Molte persone mi chiedono come sono finito in Tibet e le ragioni del mio interesse per questa terra e per le sue tradizioni. Noi occidentali amiamo chiederci infiniti perché e pretendiamo sempre di avere una risposta precisa per ogni domanda. Una volta mi trovavo a casa di Sangye Öser, un lama anziano di tradizione Jonangpa. Avevamo appena finito di mangiare e come al solito sedevo vicino a lui a parlare bevendo il tè. “Rinpoche, se io oggi sono qui a parlare con te cosa vuol dire? Chi ero nella mia vita precedente?” gli chiesi preso da quella curiosità e voglia di fare domande che gli occidentali e i cinesi spesso hanno quando non riescono a rilassarsi nella situazione così com’è. Lui mi rispose con la sua voce affettuosa e gentile: “Eri uno che seguiva l’insegnamento del Buddha” e poi disse: “Noi staremo insieme tutta la vita”.
Nel ’97 studiavo alla facoltà di Lingue Orientali, quello era il mio primo anno e al corso di lingua cinese non avevo ottenuto grandi risultati, ero sul punto di mollare quando decisi di partire per la Cina. Ero da solo e andavo a trovare degli amici che avevano appena terminato il corso estivo di cinese per poi viaggiare insieme. Questo paese mi piacque moltissimo e pochi mesi dopo ci tornai per studiare la lingua all’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Alla fine del corso, nel mese di luglio, i miei amici avevano progettato di fare un viaggio nello Xinjiang, e in Tibet, la terra dalle montagne più alte del mondo ma non ero tanto attratto, non mi piaceva viaggiare con tante persone e quei luoghi erano in quel momento lontani dalla mia idea di Cina, un paese che per me era ancora tutto da scoprire, preferivo viaggiare da solo e vedere altri posti. Avevo con me una guida della Cina che mi aveva regalato mia madre, la sfogliavo ripetutamente in cerca di mete da raggiungere, quando la mia attenzione fu catturata da poche righe stampate:
Da Lanzhou prendete un autobus di primo mattino e preparatevi a uno scomodo viaggio di 10 ore (260 km di strade di montagna). Xiahe si trova a un’altitudine di circa 3000 metri. Ma vale la pena di affrontare qualche fatica perché è un posto davvero stupendo! Vi sembrerà di essere in Tibet o, meglio ancora, nel paradiso della Cina!
La città di Lanzhou era il capoluogo del Gansu e a quell’epoca per arrivarci ci volevano circa 30 ore di treno da Pechino. Partii con un piccolo zaino sulle spalle, nel cuore provavo un sentimento di eccitazione e allo stesso tempo un senso di timore, timore per ciò che non conoscevo, a cui non ero preparato.
Partii non sapendo che Xiahe, quel “piccolo paradiso” che per me si trovava nel bel mezzo della Cina, era la città di Labrang. Labrang si trova nell’area dei pascoli intorno all’alto corso del fiume Sangchu nel Tibet nord-orientale, l’Amdo ed è qui che sorge il più grande monastero di quelle terre, Labrang Tashikyil. Quel viaggio avrebbe segnato per me un cambiamento profondo.
Attraversai una zona piuttosto arida: pianure punteggiate da filari di pioppi, montagne color ocra, dove crescevano solo pochi ciuffi d’erba. Quello che mi colpì di più fu la scarsa vegetazione e la mancanza d’acqua che caratterizzava quelle zone, dove l’agricoltura sembrava essere davvero difficile. Di tanto in tanto il treno si fermava in un villaggio dalle casette di mattoni, oppure in una città dai palazzi di cemento dove una o più ciminiere sputavano fumo nero. Fuori dal grigiore delle città, tutte dall’aspetto trasandato e squallido, i colori prevalenti erano l’azzurro del cielo e il giallo ocra della terra.
Arrivai a Lanzhou e poi a Xining e mi ritrovai immerso in quel mare di etnie che caratterizza l’attuale Cina dell’ovest: cinesi (han), dungani (hui), tibetani, salar, dongxiang, uighur, ecc. Lì, dopo gli han, la popolazione è costituita soprattutto dagli hui (in quegli anni i tibetani erano ancora pochi) e tra gli edifici religiosi prevalgono le moschee.
A Xining andai a visitare il monastero di Kumbum che sorge in una valle vicino alla città e dove nacque Lama Tsonkhapa, il grande maestro che fondò la scuola dei Gelugpa, “i virtuosi”. Quello fu il mio primo contatto con un monastero tibetano in Tibet. Per Pechino quello era il “far west”, quello che oggi sta tentando di sviluppare con slogan che echeggiano da tutti i media nazionali.
Tornato a Lanzhou presi un autobus per Labrang. All’epoca le strade erano molto più dissestate e il viaggio durava circa dieci ore (oggi con la nuova strada si impiegano tre ore e mezzo). Ad ogni centro abitato o villaggio continuavano a salire persone con grossi sacchi sporchi e pecore e molta gente sedeva su sgabellini di plastica bassissimi in mezzo al corridoio. C’erano parecchi hui con i loro copricapi bianchi. Passata Linxia, oltre il Chörten Karpo1 di Tumen Guan cominciarono a vedersi tibetani con il loro lunghi vestiti tradizionali.
Gli uomini portavano grandi cappelli a falda larga e le donne i capelli lunghi pettinati in una o due trecce. Man mano che si saliva lungo i tornanti delle montagne queste diventavano più verdi, il caldo afoso diventava fresca aria di montagna e il cielo grigio pieno di foschia di Lanzhou diventava un limpido cielo azzurro. Avevo l’impressione di salire verso il paradiso.
Labrang era diversa dalla Cina che avevo visto fino a quel momento: in effetti di cinese sembrava avere solo gli ideogrammi sui cartelli e la burocrazia. Alloggiavo nella parte alta della città alla Tara Guesthouse, di fronte alla khora2 del monastero e qui vedevo quasi esclusivamente tibetani. L’atmosfera era leggera, tutt’intorno si vedevano i profili ondulati delle montagne, nell’aria si sentiva il profumo del sang3 e si udiva un tintinnio di campanelli. Il sole brillava sui vestiti rossi dei monaci e su quelli variopinti dei pellegrini, dando anima a quei colori come per incanto.
Al ristorante del monastero incontrai Sebastiano, un ragazzo italiano che aveva passato lì molto tempo. Sebastiano era fidanzato con una ragazza del posto e parlava il cinese e il dialetto tibetano dell’Amdo. Inoltre aveva cominciato a studiare il Buddhismo e, per me, sapeva già molte cose. I racconti di Sebastiano, il fascino di quel luogo e della sua gente fecero nascere in me il desiderio di conoscere quella cultura, di comunicare con quelle persone usando la loro lingua. Il primo giorno avevo già imparato a salutare: “demo” e a ringraziare: “shata”.
Nei giorni successivi cominciai a studiare quella lingua con Lama4, un tibetano amico di Seba che parlava un po’ d’inglese. Mi annotavo le frasi su un block notes usando una traslitterazione fonetica improvvisata. Lama mi fece comprare un libro di lingua tibetana per bambini continuò a insegnarmi: mi assegnava dei compiti che controllava il giorno dopo e facevamo un po’ di conversazione.
Ogni giorno, facevo colazione al ristorante del monastero e studiavo. Dopo lo studio seguivo i pellegrini lungo la khora, la via che gira intorno al monastero. La khora di Labrang è di circa tre chilometri e perciò lungo la strada molti pellegrini mi facevano cenno di fermarsi a riposare. Ci sedevamo sulle pietre a ridosso della strada o, passato il vecchio ponte di legno sul Sangchu, salivamo sulla collina davanti al Gungthang Chörten e sedevamo sull’erba. Mi offrivano pane e frutta facendo dei grandi sorrisi. La nostra comunicazione avveniva a gesti, sguardi e sorrisi e ogni tanto qualche parola: “nyima tsage” (Il sole scotta) o “chö shage” (Sei bravo). Quando indicavano la mālā che avevo in mano, io recitavo prontamente: “Om Mani Padme Hum” e loro mi sorridevano e i loro occhi brillavano.
Volevo comunicare con quella gente cercando di avere un rapporto diverso da quello che ha di solito un turista. Molti di loro erano nomadi e pastori, le nostre vite erano così diverse e l’unica cosa che avevamo in comune era il percorrere quella via, la khora, che per me fu il primo giro della Ruota del Dharma.
Così mi avvicinai al Buddhismo ingenuamente, come per gioco, non conoscevo l’insegnamento e passavo molto tempo a circo-ambulare il monastero con i monaci e i pellegrini. Spesso venivo invitato dai monaci a prendere il tè e facevo delle piacevoli deviazioni lungo il percorso. La khora era un luogo di incontri e aveva un valore sociale oltre che religioso: qui si incontrava tutto il paese e si incontravano i pastori nomadi dei pascoli vicini e di quelli lontani.
Sono stati proprio quei pastori ad aprirmi il cuore…. a loro andrà sempre la mia riconoscenza.
Negli anni successivi sono tornato nuovamente a Pechino per perfezionare lo studio del cinese e ho compiuto molte altre escursioni in Tibet: nel Kham (Gyeltang e Dartsedo*) e soprattutto nell’Amdo (Mewa; Ngawa; Golok; Machu; Labrang e la zona del Sangchu; Rebkong*). Nell’inverno del 2000-2001 festeggiai a Labrang il primo capodanno, il più freddo che abbia mai trascorso. Quell’anno, l’anno del Serpente di Metallo, il losar cadde il 24 Gennaio e il primo giorno dell’anno fece una gran nevicata.
* A parte Labrang, gli altri sono nomi di aree più vaste e non di singoli centri abitati.
1Un chörten, “supporto per le offerte”, è un monumento che al suo interno conserva delle reliquie di esseri realizzati o/e testi buddhisti. Il suo nome sanscrito è stūpa. Il Chörten Karpo (lett. chorten bianco) si trova sulla strada che da Linxia porta a Labrang. Si pensa che questo fosse l’antico confine tra Cina e Tibet. Un anziano di Labrang mi ha riferito che qui i tibetani, tra tutte le altre merci, scambiavano i loro cavalli con il tè proveniente dalla Cina. I cinesi chiamano questo luogo Tu Men Guan, poco lontano dal chörten infatti si trova una porta con questo nome di recente costruzione (Labrang, 2005).
2 La khora è la strada percorsa dalla gente durante la circoambulazione rituale di un monastero, santuario o luogo sacro.
3 Il sang, offerta di fumo profumato effettuata bruciando ramoscelli di ginepro e altre sostanze. Cfr. Stein R. A. La Civiltà Tibetana , Torino: Einaudi 1986, p.178. Per una descrizione più dettagliata del culto del sang vedi Namkhai Norbu, Drung, Deu e Bön, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 1996, pp 193-197.
Gli studenti cinesi scelgono spesso dei nomi stranieri molto strani. Una volta ho parlato con uno che si chiamava “Prophet” che mi aveva raccontato aveva scelto questo nome per avere più sicurezza in se stesso e che si esercitava ballare la break-dance; una ragazza dello Xinjiang all’Università di Chongqing si chiamava “Cactus”, una mia studentessa “Cupido”, un altro studente “Tristano” e tra gli studenti degli amici miei ci sono stati anche “Foglia”, “Stagno” e “George Washington” (solo di nome).1 In questo corso una studentessa ha voluto chiamarsi “Squalo” nonostante io le avessi consigliato che era meglio sceglierne un altro.2 Qualche giorno fa ho conosciuto uno studente d’inglese di meno di vent’anni, carino e gentile con il viso rotondo e gli occhiali. Mi aveva parlato della sua passione per i militari e gli eserciti in generale e aveva lo zaino mimetico e il cappelletto dell’esercito americano. Ieri mi ha offerto un caffè e siamo tornati a scuola. Poco dopo mi è arrivato un sms: ” Hey this is Rambo. Nice to meet you!”
1 Un americano che ha insegnato a Pechino mi ha detto che, nella sua classe, c’era uno studente che si chiamava “Mike Tyson”.
2 Ho scoperto successivamente che Squalo, dopo essere andata in Italia, si è voluta chiamare Sabato.
Oggi verso l’ora di pranzo andavo a prendere un cappuccino è stavo facendo a piedi quel piccolo tratto di strada da casa mia a Starbucks. Era una piacevole “giornata di sole” e sul Primo Anello passavano poche macchine. Mentre mi avvicinavo al centro commerciale ho notato due animali che da lontano mi sembravano due piccoli cammelli. Erano dentro un recinto sul marciapiede, proprio davanti alla porta del centro commerciale. Come accade spesso in Cina, intorno al recinto si era radunata una folla di curiosi che guardava gli animali e quasi tutti avevano i telefonini in mano, facevano foto o tentavano di filmarli. Arrivato al recinto mi sono accorto che i due animali erano dei lama: uno era marrone e l’altro bianco. Mangiavano del fieno in una scatola in un angolo del recinto e guardavano la folla con i loro occhi grandi e un espressione calma. Guardandoli ho pensato come gli animali erbivori che ruminano riescano a rimanere così calmi e placidi anche in mezzo alla confusione. In Tibet osservo molto gli Yak e ho notato che, a volte mentre pascolano sugli scoscesi pendii delle montagne smettono di mangiare l’erba e alzano la testa rimanendo immobili per molti secondi con lo sguardo fisso, guardano in lontananza.
Sono andato a prendere il cappuccino è quando sono ripassato davanti al centro commerciale erano ancora lì. In Cina spesso succedono delle cose strane, inaspettate, un amico mio americano che ho conosciuto a Chongqing li chiamava China moments, qualcosa per noi completamente al di fuori dell’ordinario, che però sono delle cose che tirano sù la giornata, che hanno la forza di svegliarti, come l’uccellino di legno dell’orologio a cucù. Da quella conversazione che ho avuto a Chongqing con quel mio amico americano, sono diventato un osservatore di questi momenti. Non si può infatti essere un cacciatore di China moments, perché non puoi sforzarti di cercarli, non esiste alcun piano alcuna teoria, alcuna griglia logica o struttura grammaticale con cui catturarli, semplicemente accadono quando meno te lo aspetti. Cucù! China Moment! Come un bambino che ti spruzza all’improvviso con la pistola o, a volte, come una secchiata d’acqua. Cammini sul marciapiede di sera e….Cucu! Barboncino con pelo multicolore, giubbottino e museruola gialla a forma di becco di papera!
Mentre ripassavo davanti ai lama la mia logica ha cercato di catturare l’evento con le spiegazioni e le teorie, facendolo rientrare nella casella giusta, scegliendogli una giusta cornice: “quest’anno sarà l’anno della pecora ecco il perché…ho capito…ma i lama non sono proprio pecore, vengono dal Sud America…” Ma questo rovina il China Moment, così lo perdi.
Ho abbandonato il ragionamento…e ecco il China moment di oggi: stavo andando a prendere il cappuccino e….CUCU’! Lama davanti al centro commerciale!
A Jangkya ero ospite a casa di Pema Tsering, un giovane ngakpa del villaggio. Io, Pema e i suoi famigliari stavamo tutti in cucina e guardavamo un documentario sugli oracoli di Nechung e Palden Lhamo, persone in cui discendevano queste divinità (tib.lhaba).
“Ce l’abbiamo anche qui.” Mi dissero.
“Tra qualche giorno la divinità della nostra montagna, Amnye Mokri discenderà tra la gente del villaggio.”
“Dove?”
“Nel santuario, lì si radunerà la gente del villaggio a rendergli omaggio e lui farà delle divinazioni”. Disse lo zio di Pema.
“A tutti?”
“No, solo a chi vuole. La gente che chiede la divinazione si farà farsi dei tagli sul viso con un coltello e ripagando l’oracolo con il proprio sangue.”
Lo zio di Pema, un uomo di grossa corporatura e dal viso largo, aveva un moderno taglio di capelli che teneva pettinati all’indietro e dei grandi occhiali quadrati. Trascorse qualche giorno, era pomeriggio e stavo seduto nella cucina della casa. Avevo passato ore seduto accanto alla stufa mangiando pane e sorseggiando tè con il latte come fa la gran parte degli uomini qui. Qualcuno, non ricordo chi, entrò e disse: “arriva!” La divinità, discesa nel corpo del lhaba, stava facendo il giro del villaggio.
Uscimmo tutti nel cortile della casa e ci fermammo ad aspettare….in lontananza si sentiva un suono di tamburi.
Le persone stavano in piedi con dei katak1 fra le mani ai lati del cortile. Io ero molto teso, sapevo che Amnye Mokri era una divinità mondana e ne avevo un po’ paura. La musica si fece a poco a poco più forte e improvvisamente entrò un gruppo di uomini. In mezzo a loro c’era il lhaba.
Era un uomo dalla testa rasata che danzava volteggiando al ritmo lento dei tamburi, aveva il volto contratto in una smorfia, gli occhi spiritati e uno strano ghigno: la sua era un’espressione di felicità mista ad ira. La gente gli offriva dei katak e le sue spalle ne erano già ricoperte. Dietro la sua schiena, legato ad un katak, era stretto un quadretto che raffigurava la divinità Amnye Mokri, quello che riuscii a scorgere fu l’immagine di un guerriero dal volto rosso. Gli uomini che lo accompagnavano si erano schierati tutt’intorno, suonavano e lanciavano grida di gioia, qualcuno di loro aveva in mano una bottiglia di bai jiu (grappa cinese) e ne versava un po’ in una tazza che veniva offerta ad Amnye Mokri e questo, mentre continuava la sua danza, ne beveva alcune sorsate. La cosa andò avanti per alcuni minuti, dopo di che il gruppo uscì per proseguire il suo giro intorno al paese entrando in ogni cortile.
“Ogni anno c’è un lhaba diverso o e sempre lo stesso?” Chiesi.
“Sempre lo stesso.”
“E’ un monaco?”
“No.”
Apprendo che il medium è un semplice abitante del villaggio come la gente che lo segue.
Un pomeriggio Pokhwa Gyap (un ngakpadel villaggio) mi invita da lui, sediamo nel cortile di casa al sole su degli sgabellini di legno e beviamo tè e sidro alla frutta. Mi offre un grosso pezzo di carne bollita, da tagliare col coltello e delle pere maturate al sole.
“Mangia sono buone, sono una specialità del posto.”
Ne addento una con un po’ di esitazione perché è maturata a tal punto da diventare scura e grinzosa…..è freddissima ma dolce e succosa.
In Tibet il freddo invernale viene mitigato durante il giorno dalla forte luce del sole e, imbacuccato come ero, avrei potuto star seduto lì delle ore. Mi avevano detto che a Rebkong era apparso Padmasambhava e uno di quei luoghi era proprio vicino a Jangkya.
Pokkhwa Gyap si offre di portarmici, rimango ancora un po’ seduto a parlare con lui, la moglie e le bambine: la più grande conosce qualche parola d’inglese ma è molto timida e parla poco. Dopo un po’ usciamo e ci incamminiamo per una ripida stradina che si inoltra tra le case e scende alla sponda del Guchu, poco lontano. Il fiume è in gran parte ghiacciato e lo passiamo facilmente, Pokhwa Gyap è molto premuroso e mi sostiene durante tutto il percorso, poggia sempre per primo i piedi sul ghiaccio per assicurarsi che non ceda e poi mi invita a camminare seguendo le sue “orme sicure”. Oltre il fiume attraversiamo dei campi brulli e polverosi che di lì a poco sarebbero stati coltivati e arriviamo a una strada cosparsa di sassi che sale verso nord.
“E’ là”.
Di fronte a noi, sul ciglio della strada, Pokkhwa Gyap mi indica una grande masso con una forma strana. Avvicinatosi di più alla pietra si inginocchia tre volte toccando con la fronte il terreno e io mi inginocchio dopo di lui.
L’impronta del corpo del demone è impressa nella roccia.
“Questa è la testa……” dice cercando di farmi capire e poi simula la posizione mettendosi sdraiato su un fianco.
Qui infatti Guru Padmasambhava uccise una feroce sinmo che vagava in questa parte della valle. Rimaniamo un po’ di tempo seduti vicino alla pietra a parlare. Gli chiedo se ha terminato il ngöndro, le pratiche preliminari del Vajrayana, e lui mi dice che le ha completate due volte. Gli domando quale lignaggio Nyingmapa segua e lui risponde che ha ricevuto le trasmissioni sia del lignaggio di Mindröling che di quello del Longchen Nyingthig.
Restiamo per un po’ fermi in silenzio a osservare il panorama e ad ascoltare il sibilo del vento….poi ritorniamo sui nostri passi in direzione di Jangkya.
Stiamo percorrendo una strada nuova, come mi è già capitato di vedere in Tibet, lungo le strade che salgono all’interno di strette gole, ampie zone della valle sono state sommerse e sono state costruite dighe per la produzione di energia elettrica. In questa zona il Fiume Giallo è diventato lago che si estende tra le montagne, limpido, calmo e profondo.
“Pensi che questo cambiamento abbia portato dei miglioramenti o dei peggioramenti?” chiedo a Xiao Ma, l’autista hui che mi sta portando a Rebkong.
“Dei miglioramenti. La gente del posto dispone di più energia elettrica a un costo più basso.”
“Tutta quest’acqua non influenzerà negativamente l’agricoltura e l’ambiente?”
“No, con più acqua la zona è diventata più umida e questo compensa la siccità favorendo le coltivazioni.”
Forse è vero che ci sono stati dei miglioramenti ma le frane, le sempre più frequenti inondazioni nella Cina continentale, le precipitazioni anomale, i tifoni e altre calamità mi fanno pensare che la visione di Ma, come quella della maggior parte delle persone, sia solo a breve termine e che non tenga conto della stretta relazione di interdipendenza che lega i vari fattori ambientali.
Al contrario i Tibetani hanno sempre dato molta importanza al rispetto della natura, il cui equilibrio non doveva mai essere alterato, in essa infatti dimorano delle entità invisibili, dei genii loci, la maggior parte dei quali non sempre amichevole. Essi infatti sono spesso infastiditi dall’atteggiamento prepotente e indiscriminato dell’uomo nei confronti della natura, che costituisce la loro ‘casa’, e possono reagire causando malattie e calamità naturali di vario genere. In questo contesto l’uomo non è padrone ma ‘ospite’ e come tale deve comportarsi secondo delle norme ben precise di ‘convivenza pacifica’.
Queste entità possono essere suddivise (secondo una classificazione più semplice) in lha, nyan e lu. Secondo Trungpa Rinpoche i lha dimorano sulle vette delle montagne innevate, nel punto dove la terra è più vicina al cielo e dove per prima batte la luce del sole quando sorge.
Gli nyan abitano invece lo spazio intermedio: i versanti delle montagne con le loro rocce e le loro foreste e la superficie della terra con le sue pianure e distese erbose.
I lu hanno come casa gli oceani, i fiumi, i grandi laghi: tutto il regno dell’acqua e del sottosuolo. Tagliare alberi, rimuovere pietre sacre e scavare i fianchi delle montagne o il suolo, inquinare le risorse idriche, deviare il corso dei fiumi con degli argini o drenare l’acqua per mezzo di canali, compiere lavori in muratura o costruire edifici in genere, ecc. causano la vendetta di questi e di molti altri esseri non umani. Oggi in Tibet come nel resto della Cina stanno avvenendo molti lavori di modernizzazione che, in un’ottica a breve termine, sicuramente, in una certa misura, porteranno alcuni benefici ma, in questa selvaggia corsa allo sviluppo, si sta tenendo poco conto dell’impatto che tutto questo sta avendo sull’ambiente e delle relative conseguenze. Oggi la maggior parte delle persone non crede all’esistenza di queste entità e pensa che siano solo frutto della fantasia dei tibetani ma che queste ci credano o no, si troveranno poi a subirne le conseguenze.
Nel regno domato dall’ineguagliabile Buddha Shakyamuni, a nord del Trono Adamantino dell’ India, al centro del continente meridionale di Jambudvipa, si trova la Valle d’Oro di Rebkong dove Jetsun Kalden Gyamtso, “Fortunato Oceano”, un’emanazione del sublime Avalokiteshvara, ha beneficiato innumerevoli esseri. A ovest si trovano le Terre Pure di U e Tsang dove il Buddha Amitabha e Padmapani si sono emanati come i Vittoriosi dalle vesti color zafferano Padre e Figlio.
A nord, in Dome, si trova la montagna Tsongkha Kyeri, il luogo di nascita del Secondo Buddha, il grande Tsongkhapa, che regna supremo sui tre mondi. Ci sono molti villaggi della Valle d’Oro di Rebkong, e gli abitanti sono intelligenti, coraggiosi e abili nelle scienze dell’arte religiosa, la medicina, e l’astrologia. Tutti provano gioia nel praticare il Dharma.1
Shabkar Tsokdruk Rangdröl
Rebkong (cin. Tongren) si trova nella provincia del Qinghai, in quella zona che di solito i tibetani chiamano Tshongön2 e i mongoli Kökönor. Tutti questi termini vogliono dire “lago azzurro”, infatti in questa zona si trova il lago d’acqua salata più grande della Cina.
Nella letteratura tibetana Rebkong è chiamata la “Valle Dorata” per via delle Montagne Dorate e della Pietra Dorata presenti nella sua topografia.
E’ situata appena a sud del Fiume Giallo (tib. Machu),3 nella parte centrale dell’Amdo (Tibet nord-orientale), a sud di Tsongkha e per questo può essere definita “il cuore dell’Amdo”.
Anche se originariamente comprendeva un’area molto più estesa di quella attuale, oggi si trova a circa 185 km a sud di Xining ed è il capoluogo della Prefettura Tibetana Autonoma di Malho (cin. Huangnan).4
Nelle sue pianure e valli, vive gran parte della popolazione di questa regione. E’ abitata per lo più da agricoltori ma ci sono anche alcune comunità di nomadi sugli alti pascoli ai margini delle valli.
Anche qui, come in molte altre parti del Tibet, è presente la duplice economia agricoltura-allevamento ma la prima è senza dubbio quella prevalente.
I suoi villaggi e monasteri punteggiano la fertile e sinuosa valle del Guchu, ricca di campi coltivati e sottili alberi da frutta, che si estende per alcuni chilometri collegandosi a valli più piccole.
Il fiume Guchu l’attraversa da sud a nord passando per Dzongmar, Dardzang, Jangkya, Rongwo, Nyenthok, Gomar, Tokya5 e sfocia poi nel Fiume Giallo a ovest di Jentsa. “Guchu”6 in tibetano significa “nove fiumi” perché le sue acque sono formate dai nove torrenti che affluiscono da nove valli adiacenti. Sulle montagne intorno e nelle valli che si diramano tutto intorno si trovano molti altri villaggi tra cui quelli di Shohong, Gyalwo Gang, Chuja, Changlung, Kude,7 ecc.
A Rebkong sono state costruite anche alcune fabbriche: una di queste è la grande fonderia di alluminio di Tokya che inquina pesantemente questa parte della valle.
La via più veloce per raggiungere Rebkong è quella che da Xining percorre un tratto dell’autostrada Lanzhou-Xining per poi dirigersi verso sud su una strada che, a ridosso di ripide montagne rosse e ocra sfumate di grigio, costeggia in alcuni tratti il Fiume Giallo. Qui le acque del fiume sono limpide e cristalline e non hanno ancora assunto quel colore ‘giallo’ che di solito le caratterizza. D’estate le montagne sono ricoperte da un sottile strato d’erba verde chiaro che d’inverno si secca dando alla zona un aspetto abbastanza arido e brullo.
Quella che si percorre oggi è la strada nuova, finita di costruire solo poco tempo fa.
La vecchia strada si trova ancora qualche decina di metri più in basso e sta per essere allagata.
Già sono state allagate vaste aree delle valli sottostanti e sono state create dighe allo scopo di produrre energia idro-elettrica come in molti altri posti del Tibet (Vedi I Lha, gli Nyen e i Lu).
In questa zona il Fiume Giallo ha l’aspetto di un placido lago verde-azzurro che si estende tra le montagne. Pochi chilometri a ovest di Jentsa lo si attraversa e si imbocca la strada che porta fino a Rongwo risalendo il corso del Guchu e dopo alcuni chilometri si entra nella bassa valle del Guchu all’altezza di Tokya dove in lontananza, a ridosso delle montagne, si scorge la città di Rongwo.
Un’altra via per raggiungere Rebkong è da Labrang cittadina nei pressi dell’alto corso del fiume Sangchu a circa un centinaio di km a sud-est di Rebkong. La contea di Labrang (cin. Xiahe) si trova nella Prefettura Autonoma Tibetana di Gannan, nella provincia del Gansu, ed è il nodo dove convergono tutte le strade provenienti dall’Amdo sud-orientale: da Jigdril,8 nel Golok meridionale, da Ngawa, Dzoge, Machu e Luchu,9 prima di arrivare a Lanzhou o Xining. Dopo essere passata per le praterie di Gangya, nell’ultimo tratto questa strada attraversa l’area di Shohong e passa per una gola chiusa tra montagne rosse dalle pareti scoscese che a causa dell’erosione hanno assunto strane forme levigate, simili a quelle di un canyon.
La città di Rongwo
Rongwo si trova al centro della valle ed è il centro abitato più grande nonché sede centrale dell’amministrazione di Rebkong e di tutta la Prefettura di Huangnan. E’ una moderna e tranquilla cittadina di provincia in stile cinese, con i soliti edifici a più piani di mattoni rivestiti di piastrelline bianche o di intonaco cementizio grigio che le conferiscono un aspetto trasandato e fatiscente. Grandi ideogrammi cinesi spiccano a colori vivaci sulle finestre dai vetri sottili e sulle insegne dei negozi, a volte accanto a scritte in tibetano.
Durante le festività più importanti, soprattutto nel periodo del capodanno, lungo le vie principali c’è sempre una frenetica attività commerciale perché i contadini dei villaggi circostanti e i nomadi dei pascoli più remoti si riversano in città per assistere alle celebrazioni e per comprare o scambiare gli alimenti e le merci di cui hanno bisogno.
Come in tutta questa zona, a Rongwo convivono molte etnie differenti, i cui rapporti, almeno in passato, non sono sempre stati armoniosi: i cinesi han, i tibetani e i musulmani hui e salar.10
Anche se per le strade sembrano esserci quasi esclusivamente tibetani e alcuni musulmani, in realtà i cinesi costituiscono la maggioranza e occupano quasi tutti i posti di rilievo negli uffici e nell’amministrazione. Questo perché molti tibetani abitano nei villaggi vicini e vengono in città solo per lavorare, divertirsi o fare compere, per poi tornare a casa la sera.
I musulmani hanno in mano buona parte delle attività economiche: si occupano soprattutto della macellazione degli animali e della vendita della carne, gestiscono piccoli ristoranti e zahuodian, negozi in cui si trova praticamente di tutto, dagli alimenti agli articoli di ferramenta e di merceria.
L’attività dei tibetani consiste invece per lo più nella vendita di monili e gioielli, pietre ornamentali anche preziose come i coralli, artigianato a carattere religioso (statue, thangkha,11 ecc.) e inoltre nella vendita di stoffe, feltri, cappelli, tappeti e chuba, i vestiti tradizionali con le maniche molto lunghe di feltro o pelle, a volte imbottiti di pelo.
Spesso sono occupati anche nella gestione di ristorantini, che sono dei veri e propri punti di aggregazione. Qui infatti i visitatori occasionali trascorrono molto tempo guardando i video dei cantanti locali e sorseggiando tazze di tè fumanti.
Per via della modernizzazione apportata dai cinesi, oggi Rongwo è una moderna cittadina di provincia con strade rettilinee che si intersecano ad angolo retto, a differenza della maggior parte dei nuovi insediamenti, caratterizzati da una impostazione lineare (abitazioni costruite lungo un’unica strada principale). Le vecchie case di argilla e paglia che costituivano l’antico villaggio sono ancora visibili nei pressi del monastero Rongwo Gönchen.
Rongwo Gönchen oggi è situato nella parte sud, sul lato destro della strada che attraversa la città e prosegue in direzione di Tsekok. Originariamente era un monastero Sakyapa.
Il primo complesso degli edifici fu costruito nel 1301 dal maestro Sakyapa Samten Rinchen, nipote di un emissario di Drögon Chögyal Phakpa.12 Verrà ricostruito pochi secoli dopo da Shar Kalden Gyatso13che lo farà diventare un monastero Gelugpa.
Rongwo Gönchen è il più importante monastero di Rebkong14 e può essere considerato il terzo monastero Gelugpa più importante dell’Amdo. E’ composto di nove padiglioni e attualmente conta circa quattrocento monaci. Durante la rivoluzione culturale gran parte del monastero fu distrutta e oggi molti padiglioni sono stati ricostruiti usando materiali nuovi. Solo i vecchi edifici conservano lo stile tradizionale in muratura. Alcuni lavori di ristrutturazione sono ancora in corso, come ad esempio quelli lungo certi tratti della khora, la strada che gira intorno al perimetro del monastero percorsa dai fedeli durante la circoambulazione rituale.15
Mentre le ristrutturazioni esterne sono state fatte in modo abbastanza grossolano, all’interno i padiglioni sono stati ristrutturati magnificamente: le sale sono state adornate con statue e pitture murali di nuova fattura ma dal grande valore artistico. Rebkong è infatti conosciuta per i suoi artisti, in particolare per la straordinaria bravura dei suoi pittori, famosi in tutto il Tibet, al punto che a molti di questi vengono commissionati lavori anche nei monasteri di altre zone e rimane ancora oggi un importante centro di formazione artistica.
L’ottava manifestazione del Rongwo Kyabgön Shartsang, il lama principale, ha oggi poco più di vent’anni, conosce perfettamente sia il tibetano che il cinese e ha fama di avere grande compassione e saggezza.
La sua immagine compare un po’ dappertutto a Rebkong, nei negozi, nelle case private della gente, nei monasteri Gelugpa e nei santuari dei ngakpa (ngakkhang) disseminati nella valle e in cima alle montagne.
Tutti a Rebkong riconoscono la sua autorità, indipendentemente dalla tradizione religiosa a cui appartengono.
Agli inizi del XVIII venne fondato Labrang Tashikyil16 nell’alta valle del Sangchu, tra le praterie di Sangke e Gangya. Il nuovo monastero diventò presto il centro di formazione di geshe mongoli e buriati. La sua fama crebbe enormemente e con essa, la sua sfera di influenza che si estese sempre di più.
Probabilmente fu allora che Rongwo Gönchen e Labrang Tashikyil entrarono in competizione per il controllo delle aree circostanti, dando inizio a quella rivalità che ho percepito, ancora oggi, nella mentalità della gente e che è all’origine di molte storie strane che mi hanno raccontato sia a Labrang e sia a Rebkong.17
Casa di un villaggio lungo la strada di Gyawo Chuja (foto di Andrea Casetti).
I villaggi
I villaggi di Rebkong si trovano sia a valle che sui pendii e le cime delle alture che circondano Rongwo e sono costituiti da poche decine di case raggruppate e collegate fra loro da viottoli sterrati.
Quasi ogni villaggio ha un santuario (tib. lhakhang) dove, in alcuni giorni del calendario tibetano, i ngakpa svolgono cerimonie e partecipano alle pratiche collettive a cui sono presenti praticamente tutti gli abitanti. Questo è il centro della vita sociale e religiosa: la gente, infatti, non solo si raduna qui per le cerimonie o per fare le circoambulazioni ma si incontra anche all’interno del cortile o fuori dall’ingresso per conversare amichevolmente. A fare questo sono soprattutto gli anziani che di tanto in tanto interrompono il loro bisbigliare mantra per scambiarsi qualche parola, continuando però a strofinare la mala tra pollice e indice.
Il santuario ha generalmente l’ingresso che si affaccia in un piccolo cortile da dove si accede alla sala vera e propria. Il tetto è a volte leggermente spiovente e rivestito di tegole secondo lo stile architettonico tradizionale dell’Amdo che, soprattutto negli edifici religiosi, risente molto spesso degli influssi di quello tradizionale cinese.
In un villaggio di ngakpa il santuario è chiamato ngakkhang che letteralmente si traduce come “stanza o casa dei ngakpa” ma che definisce il padiglione delle pratiche tantriche.
Ci sono poi anche i manikhang, edifici che solitamente contengono una o più grandi ruote di preghiera le cui dimensioni possono variare da quelle di una piccola cella a quelle di un comune santuario.18Le abitazioni tradizionali sono fatte di un impasto essiccato di argilla mista a paglia che le rende resistenti al freddo e alle intemperie e sono sorrette all’interno da pilastri e travi di legno.19All’interno le pareti e il pavimento di alcuni dei locali, tra cui la cucina, sono interamente rivestiti di legno, altri semplicemente di intonaco, piastrelle o cemento crudo. La porta d’ingresso dà in un cortile intorno a cui sono disposte a ferro di cavallo le varie stanze. Ad alcune di queste si accede dall’interno, mentre ad altre direttamente dal cortile.20
Nelle case non c’è acqua corrente e a valle, nei villaggi più bassi, questa viene raccolta da pozzi o pompata in superficie per mezzo di impianti idrici rudimentali. Quando un villaggio si trova in alto o in montagna l’acqua viene raccolta direttamente dalla sorgente con grandi taniche di plastica. Questo lavoro spetta quasi esclusivamente alle donne che spesso percorrono lunghi e faticosi tragitti portando pesanti carichi sulla schiena. L’acqua viene poi portata dal pozzo o dalla sorgente all’interno delle case dove viene conservata in grandi contenitori di terracotta o di altri materiali. E’ considerata preziosa e se ne fa quindi un uso molto parsimonioso.
Le strade e i sentieri che portano ai villaggi più alti sono sterrati e difficilmente percorribili, attraversano piccoli torrenti e salgono curvandosi lungo i pendii, verso le cime dei monti. La gente di solito le percorre con le moto che sono diventate ormai i nuovi cavalli del Tibet, o con dei piccoli trattori ma c’è ancora chi le percorre a piedi o a dorso di mulo.La scuola di un villaggio nei pressi di Gönlaka è l’unica nella zona e i bambini ci arrivano a piedi dai villaggi circostanti e poiché alcuni di loro devono camminare per ore, le lezioni cominciano nel primo pomeriggio.
A Rebkong l’economia è prettamente agricola e i prodotti più coltivati sono l’orzo, il grano, la senape e le patate, mentre dagli alberi vengono raccolte anche delle pere e delle piccole mele. Durante l’inverno, le pere vengono consumate dopo essere state per lungo tempo esposte al sole. La buccia e la polpa di questi frutti viene fatta maturare a tal punto da assumere un colore marrone scuro ma il clima freddo fa sì che il frutto si conservi senza andare a male.
Anche qui la maggiore fonte di guadagno è costituita dalla vendita del Cordiceps sinensis.
Ecco grosso modo come si articola la vita di un contadino della zona nell’arco di un anno stando a quanto mi è stato riferito dal ngakpa Shawo Tsering di Gyawo Chuja e da alcuni abitanti del villaggio di Jangkya:
1) Verso la metà del secondo mese del calendario tibetano avviene la semina.
2) Nel periodo che va dalla metà del terzo alla metà del quarto mese molti si spostano verso sud piantando le tende sui pascoli dei nomadi di Tsekok e Sokwo per la raccolta dello Cordiceps sinensis.
3) L’ottavo mese vengono raccolti i prodotti della terra.21
Jangkya
Dalla città la strada sale verso sud, si lascia alle spalle il grande monastero e la scuola superiore Minshi22 e dopo alcuni chilometri si insinua tra le montagne più vicine.
Per un po’ disegna una fila di curve poi torna di nuovo rettilinea e continua per altri chilometri risalendo il corso del Guchu che ora scorre a sinistra, poco più in là.
Rongwo è ormai scomparsa dietro le montagne e l’impressione è quella di trovarsi in un altra valle più piccola, stretta e lunga. Infatti la particolare disposizione delle montagne crea un’illusione ottica per cui la stessa valle, a seconda delle diverse prospettive, sembra frantumarsi in tante altre piccole valli. A destra appare un chörten bianco e la strada passa sotto un arco improvvisato su cui sventolano bandiere del lungta23 dai cinque colori: siamo prossimi al villaggio di Jangkya. Spesso in Tibet, lungo le vie che conducono ai villaggi, vengono costruiti chörten e issate le bandiere con il lungta o con altre preghiere, mantra e invocazioni e la loro funzione è quella di proteggere e garantire la prosperità del luogo.
In Tibet ogni zona, ogni piccolo paese ha un “signore del luogo”, uno spirito che solitamente è una divinità guerriera associata ad una particolare montagna.24
Jangkya è il primo villaggio che si incontra lungo la strada. Le sue poche abitazioni d’argilla scendono dolcemente verso il Guchu dai piedi del monte Amnye Mokri. Amnye Mokri è il signore del luogo, la divinità tutelare di Jangkya, un cavaliere dal volto rosso con l’elmo e le armi dei guerrieri. Il suo “supporto”, o labtse,25 si trova sulla cima della montagna che sovrasta il villaggio. Qui ogni anno, nei primi giorni del primo mese del calendario tibetano, Amnye Mokri discende nel corpo del lhaba,26 una sorta di medium popolare, un uomo del villaggio adatto a ospitare la divinità, che parla tramite lui.27 In quei giorni la gente del villaggio si riunisce nel ngakkang dove il lhaba dà responsi e previsioni sul futuro (Vedi Incontro con Amnye Mokri)28
Il ngakkhang di Jangkya si trova su un lato dell’unica strada asfaltata, vicino alla scuola ed è un basso padiglione a cui si accede salendo pochi gradini, circondato da alcune ruote di preghiera. All’interno del santuario il pavimento è fatto di assi di legno e sulle pareti sono affisse pitture e thangkha, la maggior parte delle quali è recente. Ne rimangono solo alcune antiche, sfuggite ai saccheggi e alle distruzioni degli anni Sessanta perché nascoste sul monte Amnye Mokri.29
La tradizione vuole che, nei pressi di questo villaggio, Guru Padmasambhava uccise una sinmo,30 uno dei tanti demoni ed entità malefiche che dimoravano in queste terre.31 Un masso sull’altra riva del Guchu dalla strana forma concava, testimonia questo scontro. Qui, infatti, è ancora impressa l’impronta del corpo del demone.32
A Jangkya dovrebbero esserci alcune decine di ngakpa ma io ne ho visti poco meno di dieci, di cui tre anziani.
Una delle famiglie più prestigiose del villaggio è quella di Tapagya. Come suo padre, Tapagya è un ngakpa.33La sua è una famiglia di ngakpa da almeno sette generazioni e per questo è una delle più prestigiose del villaggio.
Villaggio di Chanlung, Rebkong
Changlung
Da Jangkya si attraversa il fiume e si continua a salire verso est, lungo una stradina che si inerpica sull’altro lato della valle. A un certo punto si incontrano alcune case su un pendio terrazzato: il villaggio di Changlung (nel dialetto locale Shyanglung). Sul monte che lo sovrasta si trova l’eremitaggio dove Palchen Namkha Jigme trascorse lunghi periodi in ritiro, dedicandosi alla pratica del thögal34 ed ebbe molte visioni di divinità e di esseri realizzati tra cui e lo stesso Guru Padmasambhava e il dharmapāla Rāhula.35
Gyawo Chuja
E’ nascosto dalla cima di Gyawo Gang sul lato est della valle del Guchu e la sua sagoma si scorge appena dal Rongwo Gönchen. La strada che vi giunge penetra in una stretta gola dove scorre un piccolo torrente, sulla parete di roccia a sinistra e su alcuni massi caduti sono visibili delle macchie color ruggine. Secondo la tradizione popolare, Guru Padmasambhava uccise qui un’altra sinmo scagliandole contro il suo dorje. Il sangue della demonessa si riversò un po’ ovunque sulle pietre e il suo corpo prese fuoco. Rimangono ancora alcuni frammenti scuri incastonati nella roccia che si dice siano i resti carbonizzati della sinmo.36
La strada riprende a salire per i tornanti della montagna e dopo un po’ di tempo, davanti agli occhi comincia a comparire Gyawo Chuja.
Villaggio di Chuja, Rebkong
Le case del villaggio sono aggrappate al pendio o sparpagliate tutto intorno circondate dai campi a terrazza. Qui, nonostante l’altitudine sia maggiore rispetto a Rongwo, le montagne sembrano delle piccole colline dai contorni lievi.
In questa zona ci sono sette villaggi di ngakpa e tutti sono preceduti dalla parola Gyawo (Gyawo Chuja, Gyawo Gang, ecc.), Gyawo Chuja è tra questi quello più importante. “Gyawo”37 in tibetano vuol dire re e infatti una leggenda narra che in questa zona visse l’antico re dell’Amdo.
La gente del luogo tramanda diverse storie di personaggi dai poteri straordinari. Qui vissero famosi mahāsiddha come Drubchen Nyimai Khorlo, Kawa Metok Charbep, Achag Yama Mebud. Si dice che un giorno i tre si incontrarono e pensarono si preparare il tè ma non avevano il fuoco. Subito Achag Yama Mebud fece scaturire magicamente il fuoco da alcune pietre. A quel punto un altro disse che avevano il fuoco ma non avevano l’acqua. Kawa Metok Charbep fece cadere la pioggia ma il sole stava tramontando e i tre yogi avrebbero dovuto continuare a bere il tè nell’oscurità, così Drubchen Nyimai Khorlo fermò il sole, inchiodandolo con il suo phurba sul terreno.38
Gyawo Chuja è il villaggio dove nacque lo yogi Rigdzin Palden Tashi, considerato dai suoi discepoli il re della tradizione dei ngakpa Nyingmapa: “Alak Gyawo”.
Gli spiriti della montagna del luogi sono Taklung Lhagöd Thuchen e Jomo Menmo, sua consorte.
Un giorno un antenato di Rigdzin Palden Tashi conosciuto con il nome di Namkha Gyaltsen, andato a raccogliere delle erbe medicinali sulla montagna, provocò queste entità che reagirono scagliandogli contro dei fulmini. Namkha Gyaltsen li raccolse prontamente con il lembo del vestito dopodiché fece scivolare i frammenti di ferro incandescenti che erano rimasti su una pietra che stava lì accanto e questa si dissolse. Vicino al villaggio, a Khandro Drora, il posto delle dākinī danzanti, si trova la caverna di Taklung Shelgi Riwo dove si dice che un famoso yogi abbia raggiunto il corpo di arcobaleno.39
Attualmente Gyawo Chuja conta circa una cinquantina di ngakpa, il più anziano dei quali ha passato i novant’anni. Nella parte alta del villaggio vicino alla casa del ngakpa più anziano si trova un ngakkhang e un manikhang. Il ngakkhang, Rigdzin Ramphel Ling, è una piccola costruzione quadrata di argilla essiccata e legno, dai muri tinti di bianco e il tetto ricoperto di tegole grigie che, in pessime condizioni fino a poco tempo fa, è stato di recente restaurato. Ai tempi di Rigdzin Palden Thashi esisteva già un ngakkhang più piccolo che lui ha poi ampliato e rinnovato.40
Cortile interno del Rigdzin Rangphel Ling, ngakkhang di Chuja
Da Rongwo si segue il corso del Guchu verso nord e giunti all’altezza di Tokya si prosegue per Labrang. Dopo alcuni chilometri si entra in una gola. Tutto intorno le montagne dai contorni ondulati, che facevano da scenario al fiume Guchu, diventano alti picchi levigati. Gli agenti atmosferici sembrano aver modellato la roccia dando a queste cime dalle varie tonalità di rosso, delle forme bizzarre. Questa è la terra di Shohong famosa per i suoi “ngakpa dal puro samaya e dall’irremovibile fede nel Mantra Segreto della Tradizione Antica”,42 terra che ha dato i natali a grandi personaggi il cui ricordo rimane nel cuore di tutti i suoi abitanti: lo yogi Shabkar Tsokdruk Rangdröl (1781-1851) da molti considerato una manifestazione di Jetsun Milarepa e Gendun Chöpel (1903-1951), uno dei più grandi scrittori tibetani del secolo scorso, figlio di Ngakchang Dorje Namgyal (1888-1908), la quarta manifestazione di Alak Gyawo.
Qui a valle dove scorre un piccolo torrente e sui versanti dove si ode il sibilio del vento sono dislocati otto villaggi43 e si erge Yama Tashikyil, dove meditarono Shar Kalden Gyatso, Shabkar Tsokdruk Rangdröl, Pema Rangdröl e molti altri maestri.
La montagna Amnye JadrönShohong Nyengya, Rebkong
Ai piedi della montagna sacra Amnye Jadrön c’è Nyangya:44 il villaggio di Shabkar che nella sua autobiografia lo descrive così:
Nelle vicinanze si trovano gli Otto Luoghi dei Realizzati di Rebkong e molti luoghi sacri dove una volta aveva praticato Lord Kalden Gyatso. Il più eminente di questi luoghi sacri è Shohong Lakha , il palazzo reale di Chakrasamvara, situato nei pressi del tempio di Chuchik Shel.
Entrambi contadini e nomadi vivono in questa terra di rupi, foreste e prati fioriti. Qui, seguendo la pratica di Chakrasamvara e Vajrayogini, il grande praticante tantrico conosciuto come Kawa Dorje Chang Wang, che era venuto dall’Orientale Kathok, ha raggiunto il corpo vajra di arcobaleno in una singola vita.
In questa regione, dieci villaggi di varie dimensioni sono sparsi in tutte le direzioni. Tra questi c’è Nyengya, un villaggio ai piedi della dimora montana della divinità locale Jadrön. Questa è la mia terra.45
Le abitazioni di Nyangya sono costruite su un dolce pendio terrazzato che sovrasta un’ampia vallata. La massiccia cima piatta di Amnye Jadrön si eleva in questo paesaggio colorato e la sua vista mi richiama alla mente antichi potenti re.
Sulla parete perpendicolare di questa montagna c’è una grotta dove Shabkar si ritirò in meditazione e dove altri hanno meditato dopo di lui. Sotto la stata c’è un altra cella dove oggi, di tanto in tanto, monaci e ngakpa vengono a meditare.
Vicino il muro di cinta di una delle case al limitare del villaggio, sorge uno stūpa ricoperto di piastrelle bianche che conserva la statua di uno yogi in una nicchia della parte superiore. Questo era il luogo dove prima si trovava la casa della famiglia di Shabkar e dove lui nacque.
Ngakkhang dove studiò il giovane ShabkarNgakkhang dove studiò il giovane Shabkar
Poco lontano da Nyangya la strada scende percorrendo una stretta gola punteggiata qua e là da alberi dal fusto sottile dove si ode il gorgoglio di un piccolo torrente. Si cammina per un po’ lungo il corso dell’acqua e poi si sale verso una piccola altura dove si vede una costruzione di modeste dimensioni situata in una posizione isolata. Questo è il ngakkhang dove Shabkar cominciò a studiare il Dharma.
L’edificio è stato ristrutturato da poco usando materiali nuovi più resistenti: i muri di argilla e paglia sono stati rimpiazzati da muri di mattoni e in alcuni punti della struttura è stato impiegato anche del cemento. All’interno le travi e le colonne portanti sono state rinnovate di recente ma molte devono ancora essere ridipinte. Al secondo piano dell’edificio, lungo uno stretto e scricchiolante ballatoio, c’è una statua di Shabkar e due piccoli stūpa di metallo disposti ai due angoli. Quello di destra dovrebbe contenere alcuni resti del grande yogi di Nyengya.46 Da circa un anno un giovane ngakpa è in ritiro in questo ngakkhang.
Statua di Shabkar Tsokdruk Rangdröl all’interno del ngakkhang
1 Within the realm tamed by the peerless Buddha Shakyamuni, north of the Diamond Throne of India, the center of the southern continent of Jambudvipa, lies the Golden Valley of Rekong where Jetsun Kalden Gyatso, “Fortunate Ocean”, an emanation of the sublime Avalokiteshvara, benefited countless beings. To the west lie the Pure Realms of U and Tsang where the Buddhas Amitabha and Padmapani emanated as the saffron-clad Victorious Ones-Father and Son.
To the north, in Domey, stands the mountain Tsongkha Kyeri, the birthplace of the Second Buddha, the great Tsongkhapa, who reigns supreme over the three worlds. There are many villages of the Golden Valley of Rekong, and the inhabitants are intelligent, courageous, and skilled in the sciences of religious art, medicine, and astrology. All take delight in practicing the Dharma.
Cfr. Shabkar Tsokdruk Rangdröl. Ricard 1994, op. cit., p. 15. Traduzione dall’inglese di Andrea Casetti.
4 La Prefettura di Huangnan è costituita da quattro distretti (cin. xian): Jentsa (cin. Jianzha), Rebkong (cin. Tongren) , Tsekok (cin. Zeku) e Sokwo (cin. Henan). Jentsa ha una popolazione di 49158 abitanti in un area di 1601 kmq; Rebkong ha una popolazione di 75038 abitanti in un area di 3353 kmq; Tsekok ha una popolazione di 53249 abitanti in un area di 6858 kmq. La Contea Autonoma dei Mongoli di Sokwo (Henan Menggu Zizhi Xian) si trova poche decine di chilometri a sud-est di Tsekok e conta 30134 abitanti. Come a Tsekok, anche qui gli abitanti sono nomadi. La maggior parte della popolazione è di etnia mongola ma ormai quasi del tutto assimilata ai tibetani dell’Amdo.
Hanno però conservato alcuni caratteristiche peculiari dei mongoli: la tenda circolare ger e vestiti e gioielli, leggermente diversi. Quasi tutti parlano tibetano e pochi hanno preservato il mongolo. Comunicazione orale Nyida Chenagtsang (Roma, 2005). Cfr. Gyurme Dorje, Tibet , Footprint (terza edizione), pp. 599, 604, 610, 613.
Secondo alcuni tibetani, anticamente il nome Rebkong si riferiva a tutta quella che è oggi la prefettura di Huangnan, comprendendo quindi anche Jentsa (gCan tsha) e Tsekok (rTse khog) e Sokwo (Sog bo) e includendo anche l’area di Trika. Così mi è stato riferito da Hungchen Cenagtsang e da più di una persona del posto (Xining, Rebkong, 2006).Il distretto di Rebkong oggi è diviso in undici contrade (xiang). Tre di queste sono abitate da nomadi mentre la altre otto da agricoltori. Comunicazione di un insegnante di Jangkya confermatami poi da altri locali.
5sCang skya; Rong bo; Nyan thog; sGo dmar; Tho rgya.
9mZod dge; kLu chu. Ad eccezione di Ngawa sono tutte zone di nomadi.
10 Cfr. Berzin A. “Historical Sketch of the Muslim in China”, 4 – 1995. www.berzinarchives.com .
11 Pitture su tela raffiguranti divinità, mandala, grandi maestri, ecc. Possono essere anche composte con vari pezzi di seta colorata. Le tangkha di Rebkong sono molto famose in Tibet.
12Drogön Chögyal Phakpa (1235-1280) era il precettore imperiale di Qubilai Qan e con il suo appoggio dominò su vaste aree del Tibet. Il suo potere giunse fino nel Kham e nell’Amdo sfidando le confederazioni tribali e i regni orientali che godevano di una certa indipendenza. In Tibet sotto il protettorato mongolo, nonostante il potere nominale fosse nelle mani dei qan, quello effettivo era nelle mani dei Sakyapa. Cfr Cornu P. 2003, op. cit.; Davenport J. T., Ordinary Wisdom, Sakya Pandita’s Treasury of Good Advice, Boston: Wisdom Publication 2000, pp. 1-4.
13 Jetsun Kalden Gyatso o Drupchen Kalden Gyatso (1607-77), Rje btsun sKal ldan rgya mtso o Grub chen sKal ldan rGya mtso. Un grande maestro considerato un’emanazione di Śāripūtra, autore di bellissime poesie e canti di realizzazione e il suo stile di vita e i suoi insegnamenti influenzarono molto quelli di Shabkar Tsokdruk Rangdröl e di altri maestri di Rebkong. Era conosciuto come Kalden Repa (sKal ldan Ras pa) e Kachu Rinpoche (bKa’ bcu Rin po che). Nel 1648 fondò il centro di ritiro di Thashikyil (bkra shis ‘khyil sgrub sde). Il suo maestro Chöpa Rinpoche Lobzang Tenpai Gyaltsen (1581-1659), Chos pa Rinpo che bLo bzang bsTan pa’i rGyal mtshan, fu un’altro famoso eremita. Cfr. Ricard 1994, op. cit., pp. 21-22.
14Vedi ‘Jigs med Theg mchog, Rong bo don chen gyi gdan rabs rdzogs ldan gtam gyi rang sgra zhes bya ba bzhugs so, Qinghai: Mi rigs dpe skrun khang 1988.
15 Lungo la khora stanno restaurando le file di ‘ruote di preghiera’ che vi sono affisse. Queste sono dei rulli di varie dimensioni con all’interno scritture e mantra che vengono fatte girare dai fedeli e sono solitamente chiamate Mani-khorlo (nel Bön, matru-khorlo, infatti in questa tradizione il mantra più usato non è il “Mani”: Om Mani Padme Hum ma è, come lo chiamano i fedeli, il “Matri”: Om Matri Muye Sale Du/ Om Ma Tri Mu Ye Sa Le ‘Du ). Cfr. Stein R. A., op. cit., p. 211.
16Labrang Tashikyil (Bla brang bKra shis dkyil) è il monastero più potente dell’Amdo fondato nel 1708-10 dal primo Jamyang Shepa, Ngawang Tsongdru (1648-1722) sotto il patronato del principe dei mongoli Qosot Wang Gyalpo Junang Tsewang Tendzin. Comunicazione orale di un anziano di Labrang. (Labrang, 2005). Cfr. Ricard 1994, op. cit., p.365-367; Cornu P. 2003, op. cit., p. 317.
17 Comunicazione orale di Nyida Chenagtsang, Hungchen Chenagtsang, di altri ngakpa di Rebkong e alcuni anziani di Labrang. (Roma, Xining, Rebkong, Labrang 2005-2006).
18 Non esiste una parola specifica in italiano che possa tradurre il termine tibetano lhakhang, che sarebbe una stanza o costruzione khang dove sono poste delle immagini o statue di divinità lha, lo stesso vale per manikhang che è una costruzione dove è posta una ruota di preghiera mani khorlo, o per ngakkhang, una costruzione dove si pratica il Tantra ngak o dove si riuniscono dei praticanti tantrici, ngakpa (il Dott. Nyida Chenagtsang usa il termine ngakpa house o “casa di ngakpa”). In tutti è tre i casi ho scelto come traduzione la parola santuario dall’inglese “shrine room” o “shrine hall” che, a mio parere, è più comunemente usato e facilmente comprensibile. Nei villaggi che ho visitato mi è sembrato che spesso i tibetani non fanno molte distinzioni tra lhakhang, ngakkhang e manikhang.
19 Un anziano del villaggio di Jongmang a Ngawa mi ha riferito che i muri esterni delle loro case devono essere rafforzati applicando del nuovo impasto ogni tre o quattro anni per evitare che la casa ceda. (Jongmang, 2006).
20 Questa è solo una descrizione generale, bisogna tener presente infatti che alcuni elementi, quali la disposizione dei locali, l’arredamento e i materiali usati per il rivestimento, possono variare a seconda delle zone, delle caratteristiche dell’ambiente e della situazione economica del villaggio o dei singoli proprietari. La tipologia dei villaggi e delle case dei contadini del nord dell’Amdo resta comunque più o meno la stessa.
21 Tutte queste informazioni mi sono state riferite dai ngakpa Shawo Tsering di Gyawo Chuja, e da alcuni abitanti del villaggio di Jangkya (Gyawo Chuja, Jangya, 2006).
23 Le bandiere del lungta o “cavallo di vento”, rituale che ha la funzione di trasferire dalla negatività alla positività, dalla sfortuna alla fortuna, tutto ciò che è basato sui cinque elementi. Sono di cinque colori e su ognuna di esse è raffigurato il cavallo di vento circondato da altri quattro animali: la tigre, la leone delle nevi, il garuda e il drago. Ogni animale è associato ad un elemento ed ogni elemento a un colore: cavallo-spazio, tigre-vento, leone-terra, garuda-fuoco, drago-acqua. Cfr. Namkhai Norbu 1996, op. cit., pp. 130-136.
24 Un entità non umana, se provocata può causare gravi calamità e malattie. Se invece viene onorata, questa entità può garantire prosperità alla zona, diventandone il protettore. Molto spesso il signore del luogo è associato ad una montagna ma dove non ci sono alture può essere anche una pianura, un albero, una pietra, ecc. Il signore del luogo molto spesso è una divinità mondana e i benefici che arreca sono parziali, limitati solo a questa vita. Infatti, nonostante sia molto potente, come gli altri esseri senzienti, è condizionato dalle emozioni negative e prigioniero del saṃsāra. Cfr. Stein R. A.1986, op. cit., pp. 174 -183.
25 I labtse (la btsas, la rdzas) sono dei grossi mucchi di pietre o altari in muratura su cui vengono conficcati bastoni e copie lignee delle armi degli antichi “dei guerrieri”, soprattutto frecce e lance. A questi bastoni vengono appese o avvolte le variopinte bandiere del lungta, batuffoli di lana bianca e katak. Gli altari possono essere sia a base circolare che a base quadrata. Vengono eretti solitamente sulle cime delle montagne o vicino ai passi montani. Sono anche chiamati pamkhar (dpa’ mkhar) “castelli di guerrieri” e costituiscono il ‘supporto’ per onorare le divinità del luogo. Cfr. Stein R. A. 1986, op. cit., p. 176.
29 Comunicazione orale di un abitante del villaggio (Janggya, 2006).
30Le sinmo (srin mo) o raksasi sono una potente classe di demoni femminili che mangiano carne umana. La sua versione maschile è chiamata sinpo (srin po) o raksasa. Ricard 1994, p. 672.
31 Qui a Rebkong si dice che Padmasambhava sia apparso in più luoghi e abbia sottomesso sinpo, sinmo e ogni sorta di esseri malvagi.
33 Diminutivo di Tamdringya (rTa mgrin rGyal) “Hayagriva il Vittorioso”. Tamdrin è il nome tibetano di Hayagriva. Gyal significa “vittorioso” e nel dialetto locale viene pronunciato gya. Nel lignaggio Nyingmapa la pratica di Hayagriva (uno degli Otto Heruka) è considerata molto importante e qui a Rebkong sono molti ad avere questo nome.
34 Thögal (thod rgal) la pratica più avanzata dello Dzogchen. Cfr. Ricard 1994, ivi., p 23.
35 Comunicazione orale di Ngakpa Wangdegya di Gyawo Gang (Khyung Gӧn, 2006).
Il “protettore del dharma” o dharmapāla (chökyong/chos skyong) è un entità che ha il compito di proteggere i praticanti e gli insegnamenti Vajrayāna e Dzogchen. Rāhula (Za/gZa) è una manifestazione di Vajrapāni che governa le forze planetarie ed è uno dei principali prottettori dei Nyingmapa e in particolare dell’insegnamento Dzogchen, insieme a Ekajaṭī e a Vajrasādhu o Dorje Legpa (tib. rdo rje legs pa).
Cfr. Cornu P. 2003, op. cit., pp. 159-166.
36Comunicazione orale del ngakpa Shawo Tsering di Gyawo Chuja (Gyawo Chuja, 2006).
38Comunicazione orale del ngakpa Shawo Tsering il Vecchio, l’uomo più anziano di tutto il villaggio. Questa storia mi è stata poi riraccontata più dettagliatamente da Nyida Chenagtsang. (Gyawo Chuja, Roma, 2006).
39 Comunicazione orale del ngakpa Shawo Tsering il Vecchio (Gyawo Chuja, 2006).
Taklung Shelgi Riwo (sTag lung Shel gyi Ri bo), dove meditò Shelgi Ode Gung Gyal, uno degli Otto Grandi Realizzati di Rebkong. Cfr.Ricard 1994, op. cit., p. 22.
40Comunicazione orale di Nyida Chenagtsang (Roma, 2006).
42 Cfr Ricard 1994, op. cit., p.18.La Tradizione Antica è quella Nyingmapa.
43 Nyintha, Chumar (Chu dmar), Gotse (Go tshe), Nyingya (gNyin rGyal), Shyeru (Phyed ru), Wönru (dPon ru), Kashul (Ga shul), e il paese di Gendun Chöpel: Shohong Shyi (Sho ‘phong dpyis). Così mi ha scritto il Professor Dorjegya docente di Lingua Tibetana alla scuola superiore Normale delle Minoranze di Rongwo (Rongwo, 2006).
44I locali chiamano il villaggio Nyangya Ngogongma (gNyan rgyal Ngo gong ma).
45Nearby are Rekong’s Eight Places of the Accomplished Ones and many hallowed spots where Lord Kalden Gyatso once practiced. The most eminent of these sacred places is Shohong lhakha, the actual palace of Chakrasamvara, located near the temple of Chuchik Shel. Both farmers and nomads live in this land of cliffs, forests, and flower-filled meadows. Here, by following the practice of Chakrasamvara and Vajrayogini, the great tantric practitioner known as Kawa Dorje Chang Wang, who had come from Eastern Kathok, attained the vajra rainbow body in a single lifetime. In this region, ten villages of various sizes lie scattered in all directions. Among these is Nyengya, a village at the foot of the local god Jadrön’s mountain abode. This is my homeland, the place of my birth. Cfr. Ricard 1994, op. cit., p.15.
46 Comunicazione orale di un ngakpa che era in ritiro nel ngakkhang (Shohong, 2006). Il ngakpa, inoltre, mi ha detto che lo scritto appeso alla parete era uno scritto di Shabkar e che, in un luogo nascosto, ci sarebbero stati anche il suo cappello di loto e il suo phurba. Hungchen Chenagtsang ha in seguito smentito questa ipotesi (Xining, 2006).
Qualche mese fa se ne andato il grande maestro del Monastero di Yuthok nell’Amdo, Karma Sönam Rinpoche. Dopo aver annunciato che il suo momento era arrivato, è entrato in meditazione e dopo qualche giorno il suo corpo è diventato sempre più piccolo. Karma Sönam aveva 93 anni ed era un importante lama della tradizione Karma Kagyu e praticante del chöd, tra i tanti segni straordinari di realizzazione ha lasciato l’impronta della sua mano nella roccia.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo due anni fa, Rinpoche era molto vecchio e benediceva le persone dalla finestra della sua casa nel monastero gettando del riso.
Qui sotto riporto una mia traduzione della versione cinese del testo tibetano che racconta le vicende del parinirvāṇa di Tulku Karma Sönam:
Ecco in breve come sono andate le cose:
Rinpoche quest’anno aveva annunciato che non sarebbe rimasto in vita ancora a lungo, suo nipote voleva costruirgli una nuova casa e, quando ne parlarono, Rinpoche disse che tutto era impermanente, che questo sarebbe stato il suo ultimo anno in questo mondo e che non c’era bisogno di costruire una casa, non aveva bisogno di ricchezze o cose di questo tipo. Grazie alla sua chiaroveggenza sapeva che questo sarebbe stato l’anno del suo parinirvāṇa.
All’inizio dell’autunno, Rinpoche si era molto indebolito e i monaci si erano preoccupati e lo avevano pregato di andare in un grande ospedale, per accontentarli Rinpoche si era fatto portare all’Ospedale del Popolo della Contea di Dzamthang per farsi visitare ma non ha voluto rimanere a lungo e il giorno dopo è tornato al Monastero di Yuthok.
Alle persone più vicine aveva detto: “Dopo che sarò morto avvertite Dodrupchen Rinpoche, a parte questo non c’è bisogno di fare nient’altro. Quando i monaci dagli altri monasteri verranno in visita, fategli dei regali, non fateli tornare indietro a mani vuote. Dopo che sarò morto non c’è bisogno che facciate per me delle opere buone, io non ho nemmeno i soldiper farle…”. Così aveva richiesto più volte.
“Le due statue e il dorje e la campana che ho usato nella pratica sono molto belle e preziose, lasciatele nella mia stanza come oggetti benedetti. Non fate costruire al monastero uno stūpa reliquario per me, se ce ne fosse proprio bisogno lasciate costruire uno stūpa d’ottone a mio nipote e nient’altro.”
Tra le altre cose Rinpoche aveva detto più volte che il suo trono nella terra pura di Sukāvatī era vuoto e che, una volta rinato lì, avrebbe beneficiato tutti gli esseri senzienti che avevano avuto una connessione con lui. Prima di andarsene Rinpoche aveva chiesto a suo nipote Tulku Sangye Tenzin se fosse l’ottavo giorno del mese del calendario tibetano e aveva risposto da solo che era il sette e che l’indomani sarebbe stato l’otto.
Il giorno dopo Tulku Sangye Tenzin guidò la pratica, Rinpoche alzò il pollice in segno di ringraziamento e entrò in meditazione, nel perfetto stato di Mahāmudrā e per la felicità dei discepoli che avrebbero voluto vederlo ancora per tanto tempo, mantenne la posizione del nirvāṇa come una persona ancora in vita.
Alle dieci passate dell’8° giorno le persone del monastero hanno chiamato in India Sua Santità Gyalwa Karmapa, Tai Situ Rinpoche e Dodrupchen Rinpoche e gli hanno riferito la notizia del trapasso di Karma Sonam e, seguendo le loro istruzioni, il consiglio del monastero ha mandato il maestro vajra Lama Karma Loyak e Khenpo Tulnam a svolgere gli ultimi rituali vicino ai resti del corpo di Rinpoche.
Il 18° giorno del calendario tibetano ( il 10 novembre 2014) è cominciata ogni giorno a venire una folla di circa 6-7 mila monaci e laici a rendere omaggio ai resti del corpo di Rinpoche.
Quelli che sono venuti a rendere omaggio dovranno recitare 100.000 volte il nome di Amitābha, quelli che hanno preso il sale che avvolgeva i resti dovranno recitare 100.000 volte il mantra di Avalokiteśvara e quelli che hanno preso dei pezzi del vestito dovranno recitare 100.000 volte il mantra di Vajrasattva.
I monaci del nostro monastero dovranno promettere di impegnarsi nelle dieci azioni virtuose e di contribuire all’unione delle Tre Regioni (Ü-Tsang, Do Kham, Do Me) e fare il possibile per smettere di mangiare la carne. I monaci giovani dovranno promettere di mantenere i voti in modo puro e di ascoltare e riflettere bene sugli insegnamenti e i monaci anziani dovranno promettere di praticare i Sei Yoga di Nāropā e di praticare sempre gli insegnamenti di Rinpoche.
Il corpo di Karma Sonam Rinpoche dopo sette giorni di meditazioneImpronta della mano di Rinpoche nella roccia.
Nella credenza popolare dei tibetani il ngakpa1è visto spesso come un mago che, con i suoi ngak2o “formule magiche”, è in grado di manipolare a suo piacimento i fenomeni del mondo materiale e che può anche provocare sciagure e malanni. Per questo il popolo spesso ne ha timore.
Questa figura appare in più di un racconto. Nella vita del grande yogi3 Milarepa, ad esempio, si racconta che egli da giovane abbia studiato la magia nera presso uno di questi maghi per vendicarsi degli zii che avevano privato lui e la madre di tutte le ricchezze, riducendoli a dei miserabili. Milarepa fece crollare la loro casa durante il matrimonio del cugino, causando la morte di trentacinque persone. Fece poi cadere una violenta grandine sui campi del villaggio, rovinando i raccolti di coloro che non avevano sostenuto la madre nei momenti difficili.4Ma ngak significa anche mantra e quindi il ngakpa è “colui che recita i mantra”, il praticante del Mantra Segreto, degli yoga del Tantra e dello “yoga primordiale” Ati Yoga o Dzogchen. Qui per yoga non si intende semplicemente una serie di esercizi fisici e respirazioni come nell’Hatha Yoga della tradizione indiana, ma qualcosa di molto più profondo.
Yoga, che a volte è tradotto come “unione”, in tibetano si traduce con naljor:5 Nal o nalma6 è la nostra condizione reale così come è, senza nulla da cambiare o modificare e jor significa avere questa conoscenza.
Il vero yogi, il naljorpa, è appunto chi possiede questa conoscenza concretamente e non solo a livello intellettuale.
Anche se ai termini ngakpa e yogi è spesso dato lo stesso significato penso sia opportuno delinearne una differenza: lo yogi è un ngakpa realizzato, quindi si può dire che uno yogi è anche un ngakpa ma non necessariamente un ngakpa è anche uno yogi.
L’insegnamento del Tantra è chiamato anche la “via della trasformazione” e ha un approccio completamente diverso da quello dei Sūtra che è chiamato la “via della rinuncia”. Infatti, mentre quest’ultimo vede le emozioni affliggenti (scr. kleśa) come qualcosa di negativo a cui rinunciare per mezzo di voti e allenamenti mentali (tib. lojong)7 impiegati come antidoti, il primo ne vede la potenzialità intrinseca e utilizza queste emozioni sul sentiero della liberazione trasformandole in saggezza.
Nel III sec. d.C. il Tantra era già diffuso in India e in Asia Centrale, i suoi praticanti erano soprattutto laici e la loro comunità era distinta da quella dei monaci che studiavano e praticavano gli insegnamenti dei Sūtra seguendo le regole del Vinaya.8
Nella sua forma fisica o nirmanakāya, il Buddha Śākyamuni si limitò a rivelare l’insegnamento dei Sūtra e solamente molti secoli dopo trasmise insegnamenti del Tantra, apparendo nella forma di Vajradhāra, Ghuyasamāja, Hevajra e altre manifestazioni del sambhogakāya a grandi realizzati o mahāsiddha.9
La tradizione indo-tibetana riporta le storie di ottantaquattro mahāsiddha famosi per i diversi metodi usati per raggiungere l’illuminazione e per i loro straordinari poteri.
Infatti, attraverso i numerosi mezzi abili (scr. upāya) della tradizione tantrica, seppero usare la loro situazione particolare come via per raggiungere l’illuminazione. Il loro comportamento, i loro attaccamenti e talvolta i loro difetti fisici erano il loro oggetto di meditazione, il loro sadāna (tib. drubthab):10 il mezzo per ottenere la realizzazione suprema e quelle ordinarie.
Tilopa raggiunse l’illuminazione macinando semi di sesamo per fare l’olio; Salipa che aveva il terrore dei lupi ricevette l’istruzione di considerare tutti i suoni come uguali all’ululato del lupo; Kotali il montanaro imparò a praticare le pāramitā scalando la montagna della mente; Tandhepa, che era un giocatore inveterato perse tutti i suoi beni ai dadi e si illuminò quando realizzò che tutto il mondo era vuoto come la sua borsa.11
Saraha, “il Grande Brahmino” (tib. Bramze Chenpo), incontrò la figlia di un artigiano che fabbricava frecce che lo istruì su come superare la dualità usando come simbolo la freccia che stava preparando in quel momento e, poiché si guadagnò da vivere fabbricando frecce, fu conosciuto con il nome di Saraha “Colui che ha tirato la freccia” o il “Sagittante”.
Mahāsiddha Tilopa
I mahāsiddha appartenevano a tutte le classi sociali: tra loro vi erano re e ministri, brahmini, poeti e musici, madri di famiglia e prostitute, ecc. Molti di loro erano mendicanti senza una fissa dimora, mercanti e artigiani che svolgevano i lavori considerati piùdegradanti, mescolati alla gente delle caste più basse. Allo stesso modo dei kāpālika hindu, mistici folli che conducevano una vita libera da tutte le convenzioni sociali dell’India dell’epoca,passavano la notte nei luoghi dove venivano cremati o fatti a pezzi i cadaveri, mangiavano carne, interiora crude e altre sostanze putride, bevevano alcol e avevano rapporti sessuali con prostitute, donne di umili origini e fuori casta.12
Tutti questi elementi avevano la funzione di portare l’individuo al di là dei propri limiti ed erano considerati dei potenti mezzi per realizzarsi. Questi yogi davano più importanza all’esperienza diretta degli insegnamenti che alla speculazione filosofica studiata nelle grandi università buddhiste indiane di Nālandā e Vikramaśīla.
Molti dei loro insegnamenti non erano espressi a parole e concetti ma con dei gesti o in forma di canzoni (tib. nyam gur),13che sorgevano spontaneamente dal loro stato ‘risvegliato’.14
Nāropa studiò molti anni all’università di Nālandā ed era molto abile nei dibattiti filosofici ma fu solo Tilopa a risvegliarlo alla sua ‘condizione reale’, colpendolo improvvisamente in testa con un sandalo.15
Guru Padmasambhava
In particolare nell’VIII sec. è stato Padmasambhava a portare per primo in Tibet gli insegnamenti del Mantra Segreto, sotto invito del re Trisong Deutsen (742-797), e a dare inizio al lignaggio16che poi prenderà il nome di Nyingmapa, o degli “antichi”.
Questi era nato in Oddiyāna,17 un regno a nord-ovest dell’India che molti identificano con la valle dello Swat in Pakistan, al confine con l’Afghanistan18 ma che avrebbe potuto essere anche molto più vasto e comprendere altri paesi centro-asiatici di religione buddhista.
Nella tradizione tibetana l’Oddiyāna è la terra delle dākinī,19 entità femminili di saggezza, detentrici degli insegnamenti segreti trasmessi poi ai mahāsiddha e a Padmasambhava.20
Dākinī Kārmeśvarī
Quando Guru Padmasambhava si trovava in Tibet, diede per la prima volta l’iniziazione delle “Otto Grandi Sādhana” o Kabgye21 ai suoi venticinque discepoli nelle grotte di Chimphu nei pressi del monastero di Samye. Tra gli iniziati c’erano la sua principale consorte Yeshe Tsogyal, il re Trisong Deutsen e il ngakpa Nupchen Sangye Yeshe. Poiché queste pratiche costituiscono l’essenza degli insegnamenti tantrici da lui trasmessi in questa terra, i venticinque discepoli di Padmasambhava si possono considerare i primi praticanti del Tantra o Mantra Segreto (tib. Sangngak) del Tibet: i suoi primi ngakpa.
Nonostante esistano varie classificazioni del ngakpa a seconda della scuola o del lignaggio a cui appartiene, possiamo essenzialmente parlare di tre differenti tipi di praticante tantrico rappresentati chiaramente nel lignaggio Kagyu:
1) il ngakpa che conduce una vita familiare (tib. kyimngak),come Marpa il traduttore che aveva moglie e figli.
2) il ngakpa che ha rinunciato alla vita nella società e mantiene il voto di celibato (tib. serngak).In questa categoria rientra il ngakpa asceta itinerante come Milarepa, che passò molti anni in ritiro in grotte sulle montagne ed altri luoghi isolati, vagando senza fissa dimora o come il famoso yogi di Rebkong Shabkar Tsokdruk Rangdröl.
3) il ngakpa monaco (il monaco che pratica il Mantrayāna), il “detentore del vajra dai tre voti” (tib. sumden dorje zinpa): quello esterno del Prātimokṣa, quello interno del Bodhisattva e quello segreto del Mantra Segreto.
Il ngakpa monaco studia e pratica una combinazione degli insegnamenti dei Sūtra e dei Tantra: un esempio è quello di Gampopa (1074-1155), discepolo del grande yogi Milarepa.
Gampopa era un monaco ordinato e deteneva sia il lignaggio tantrico della Mahāmudra e degli yoga di Nāropā sia i lignaggi Sūtra di Atīśa. Un altro esempio e quello di uno dei venticinque discepoli di Padmasambhava: Vairocana il Traduttore.
Anche se il monaco che pratica il Tantra costituisce un tipo di ngakpa, generalmente oggi, quando si parla di ngakpa, si intende nella maggior parte dei casi il praticante tantrico laico non legato alla vita monastica e che , nella maggior parte dei casi, conduce una vita familiare, per lo più la figura del kyimngak.
Questi ngakpa, infatti, possono formarsi una famiglia e svolgere un lavoro che permetta loro di mantenersi e, accanto alle attività principali che sono l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, si possono dedicare a molti altri lavori come ad esempio quello di medico, insegnante, scrittore, commerciante, ecc. e, nei piccoli centri rurali, rappresentano ancora oggi un importante punto di riferimento per la popolazione locale.
Essi vivono infatti nella società laica con tutte le sue difficoltà e sofferenze con le sue gioie e le sue contraddizioni, terreno fertile per i‘tre veleni’22a cui non rinunciano ma che invece utilizzano come mezzi lungo il sentiero spirituale.Questo stile di vita è completamente opposto a quello dei monaci che vivono lontani dalle città e la cui vita è espressione della loro rinuncia: quella esteriore della vita sociale e quella interiore delle emozioni affliggenti.
Un insegnamento ngakpa essenziale è: “vivi così come è” ed è rappresentato dalla loro usanza di non tagliarsi i capelli e dal colore bianco del loro abito che rappresenta la purezza originaria della mente, fondamentalmente libera dall’illusione e dalle emozioni negative che ne derivano.
Yeshe Tsogyel
Le donne che praticano il Tantra sono chiamate ngakma23ed hanno un ruolo molto importante.
In passato in India, in Tibet e nello Shang Shung hanno vissuto grandi yoginī24 come Yeshe Tsogyal (VIII sec.),25 Mandarava (VIII sec.), Niguma (X-XI sec.), Sukhasiddhi (X-XII sec.) Machik Labdrön (1031-1129),26 Jomo Menmo (1248-1283), Sera Khandro (1892-1940), Ayu Khandro (1839-1953) e Öden Barma nella tradizione dello Yungdrung Bön e altre ancora.
Oltre ai primi discepoli di Padmasambhava, alcuni famosi yogi tibetani del passato furono Jigme Lingpa (1729-1798) nella tradizione Nyingmapa, i Khön Könchok Gyalpo (1033-1102) e Sachen Kunga Nyingpo (1092-1158) in quella Sakyapa, Marpa (1012-1097) e Milarepa (1040-1123) nella tradizione Kagyupa, Drom Tönpa (1005-1064) in quella dei Khadampa, il famoso costruttore di ponti Thangtong Gyalpo (1361-1485) detentore di vari lignaggi, Drenpa Namkha, Tapihritsa (VII-VIII sec.) e Shardza Tashi Gyaltsen (1859-1935) nella tradizione dello Yungdrung Bön e molti altri ancora.
JñānakumāraNamkhai NyingpoNupchen Sanggye Yeshe
Maestri vissuti in tempi più recenti sono stati anche Dudjom Rinpoche (1904-1987), Dilgo Khyentse Rinpoche (1910-1991), Chögyam Trungpa (1939-1987) e Chagdud Tulku (1930-2002) e Chimed Rigdzin (1922-2002) che negli ultimi decenni hanno dato molti insegnamenti in occidente.
Chögyal Namkhai Norbu, Dzongsar Khyentse Rinpoche, Sakya Tridzin e i suoi figli sono solo alcuni esempi di yogi contemporanei che continuano a diffondere molti insegnamenti in tutto il mondo, in particolare quelli del Tantra e dello Dzogchen.
Una delle zone in cui più si è concentrata la tradizione degli yogi è Rebkong nell’Amdo (Tibet nord-orientale), appena a sud del Fiume Giallo. Gli abitanti del luogo sono per lo più agricoltori ma le aree più alte e lontane sono abitate anche da alcune comunità di nomadi come nel caso di Tsekok
Rebkong è un importante centro culturale, famoso per i suoi santi, artisti e studiosi, terra di Gendun Chöphel (1903-1951),27 autore di molte opere di grandissimo valore spirituale e letterario tuttora studiate dai tibetani, e dello yogi Shabkar Tsokdruk Rangdröl (1781-1851),28 da molti considerato una manifestazione di Milarepa.
A Rebkong i gruppi di ngakpa vengono chiamati ngakmang e accanto al più numeroso gruppo della tradizione Nyingmapa ne esiste anche uno dello Yungdrung Bön che per distinguersi dai ngakpa Nyingmapa hanno preso il nome di bönmang.29Questi gruppi si dividono a loro volta in vari sottogruppi: ngakmang di differenti lignaggi all’interno della stessa tradizione religiosa, ngakmang di una zona, o di un villaggio.
Lo yogi Palchen Namkha Jigme, dicepolo di Alak Gyawo, dopo aver conferito nei pressi del villaggio di Changlung30 un’iniziazione dei Kabgye a molti ngakpa, diede ad ognuno di loro un phurba di legno.31
Si narra che ne furono consegnati mille e novecento e, per questo, da quel giorno i ngakpa di Rebkong vennero chiamati la comunità de’ “I Mille e Novecento Detentori di Phurba”.
Villaggio di Chanlung, RebkongNgakpa di Jangkhya e di Changlung
In passato i ngakpa di Rebkong erano conosciuti e temuti in tutto il Tibet. Vi erano ngakpa capaci di volare, di invertire il corso di un fiume, di fermare il sole affondando il proprio phurba nel terreno e non erano pochi quelli che hanno avuto la realizzazione in una sola vita manifestando il ‘corpo di arcobaleno’.
Oggi a Rebkong, nonostante i ngakpa siano sempre numerosi e sono sempre di più quelli che considerano l’essere ngakpa alla stregua di un lavoro e “praticano solo per riempire le loro ciotole” come dicono con sarcasmo alcuni tibetani.
Ma, nonostante le vicende storiche passate, la progressiva modernizzazione e i problemi di quest’epoca oscura, oggi in Tibet e a Rebkong vivono ancora dei maestri altamente realizzati, la maggior parte dei quali, ha raggiunto più di settanta o ottant’anni e rappresenta una guida rara e preziosa per le generazioni future di praticanti del Dharma, nella speranza che questa preziosa tradizione continui ad essere preservata.
Oggi infatti in un mondo globalizzato che va sempre di più verso la modernizzazione, le persone sono sempre più prese dalle vicissitudini della vita, sono impegnate a perseguire i propri obbiettivi materiali e pratici ma allo stesso modo sentono che tutto questo non è sufficiente a dare un senso alla loro esistenza.
C’è quindi la necessità di conciliare la dimensione materiale con quella spirituale e, per realizzare questo scopo, non è necessario abbandonare la vita mondana e ritirarsi in solitudine, questo infatti potrebbe semplicemente essere un altro modo per astrarsi dalla realtà e non porterebbe a nessuna vera comprensione di noi stessi.
La vita del ngakpa, quindi, ci mostra come sia possibile vivere nel mondo seguendo un cammino spirituale senza troppe rinunce, confrontandosi con la situazione in cui ci si trova al momento, qualunque essa sia.
Da secoli i ngakpa hanno vissuto e continuano a vivere in questo modo, come direbbe Trungpa Rinpoche : “unendo il Cielo con la Terra”.
12 “i kāpālika buddhisti e quelli hindu si ritrovarono così a frequentare i medesimi luoghi e, per un periodo, crebbero insieme, scambiandosi conoscenze e pratiche”. Baroetto G. , Hevajra Tantra, Roma: Astrolabio Ubaldini 2004, p. 8; vedi anche Reynolds J. M., “The Mahasiddha Tradition in Tibet”, www.vajranatha.com;
13nyams mgur. Per esempi di nyam gur cfr. Donatoni R. 2002, op. cit.; Riggs N., Like an Illusion, Lives of the Shangpa Kagyu Masters, Oregon : Dharma Cloud Press 2001, pp. 288-289; Ricard M. 1994. op. cit.
14 Reynolds J. M., “The Mahasiddha Tradition in Tibet”, www.vajranatha.com ; Cornu P. ,2003, pp. 353-355.
Per le vite degli ottantaquattro mahāsiddha vedi anche Dowman K., Masters of Mahamudra, Songs and Histories of the Eightyfour Buddhist Siddhas, Albany, State University of New York Press 1985.
15Cornu P., 2003, op. cit. pp.405-407, 681-683; Patrul Rinpoche 1994, op cit. pp.145-146; Kalu Rinpoche 2000, op. cit., pp. 200-202.
16In questa accezione ilil termine identifica una successione ininterrotta di maestri che detengono un certo tipo di insegnamenti.
19Le dākinī sono delle entità femminili molto potenti. In Tibet sono chiamate khandro (mkha’ ‘gro ma): “coloro che percorrono lo spazio”. Ci sono le dākinī di saggezza (yeshe khandroma/ye shes mkha ‘gro ma), esseri illuminati che hanno realizzato il profondo significato degli insegnamenti segreti e li proteggono. Possono trasmettere la conoscenza ai praticanti per aiutarli sulla via.
Ci sono poi le dākinī mondane (jikrten khandroma/‘jigs rten mkha’ ‘gro ma), esseri ancora vincolati dall’esistenza condizionata o saṃsāra, i cui poteri possono influenzare, spesso anche negativamente, solo eventi mondani. Vajrayoginī, Mandāravā, Simhamukhā, Ekajatī e Śridevī sono tutte dākinī di saggezza. Quando lo yogi Khyungpo Naljor incontra la dākinī Simhamukha dal volto di leone, ella gli dice: “L’istruzione suprema è riconoscere la dākinī come la tua propria mente.”
Reynolds J. M., “Wisdom Dakinis, Passionate and Wrathful” www.vajranatha.com; De Falco C., La biografia del grande Maestro Padmasambhava di Taranatha, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 2002, p.18. Cornu P. , 2003, ivi, pp.149-150. Cfr. Riggs N. 2001,op. cit. ,pp.10-13, 34-43; Kalu Rinpoche 2000, op. cit. , pp. 190-191, 233-237; Simmer-Brown J. , Dakini’s Warm Breath, The Feminine Principle in Tibetan Buddhism, Boston: Shambala 2001. Per una raccolta di biografie su Padmasambhava vedi Ngawang Zangpo, Guru Rinpoche, His Life and Times, Ithaca, New York, Boulder Colorado: Snow Lion Publication 2002.
20De Falco C. 2002, ivi, pp. 17-20; Cornu P. , 2003, ivi, pp. 432-433, 445-450.
21 bKa’ brgyad. Le Otto Grandi Sādhana (Drup De Chenpo Gye/sGrub sde Chen po brGyad). Le Sādana degli Otto Heruka. Guru Padmasambhava ricevette queste trasmissioni dagli Otto Vidyādhara (rigdzin/rig ‘dzin) negli Otto Grandi Carnai Indiani. Gli Otto Heruka: 1) Yangdak Heruka (yang dag he ru ka) di colore bianco a est , 2) Jampel Ku (’jam dpal sku- Yamāntaka) di colore giallo a sud, 3) Pema Sung (pad ma gsung– Hayagrīva) di colore rosso a ovest, 4) Phurba Thrinle (phurpa ‘phrin las-Vajrakīla) di colore blu a nord, 5) Dudtsi Yontan (bdud rtsi yon tan) a sud-ovest , 6) Mamo Pötong (ma mo rbod gtong) a sud-est, 7) Jikrten Chötö (’jig rten mchod bstod) a nord-ovest e 8) Möpa Drak Ngak (dmod pa drag sngags) a nord-est. Al centro si trova Chemchok Heruka, (che mchog he ru ka) “ il Grande Heruka Glorioso” di colore blu scuro, emanazione terrifica del Dharmakāya Samantabhadra, oppure Lama Rigdzin (bla ma rig ‘dzin– Guru Vidyādhara), divinità che sintetizza in sé il principio degli otto vidyādhara o l’essenza di Padmasambhava. Cornu P. , 2003, op. cit. , pp. 283-285. Ricard 1994, op. cit. , p. 602.
22 I “tre veleni” (dug sum/ dug gsum) sono le tre principali emozioni che affliggono la mente.
25 Per la vita e gli insegnamenti di questa yoginī vedi Dowman K., La Danzatrice del Cielo, La Vita Segreta e i Canti di Yeshe Tsogyal, Roma: Astrolabio Ubaldini 1985.
26Viene riportata anche quest’ altra data (1055-1145). Cfr Cornu P. 2003, op. cit., p. 335
29 Secondo Hungchen Chenagtsang infatti un gruppo di ngakpa in tibetano si dice ngakmang e bönmang è un nome scelto dai ngakpa Bönpo esclusivamente per distinguersi dal più numeroso e antico gruppo Nyingmapa. Il Bönmang e più unitario e non esistono bönmang di differenti lignaggi. Vedi il capitolo 3.
30 Nel dialetto di Amdo viene pronunciato Shyanglung.
31 Scr. kīla. “Pugnale rituale di forma piramidale a tre lame unite in una sola punta, usato nel Vajrayāna tibetano e nepalese. L’estremità dell’impugnatura è solitamente ornata da una testa (che simboleggia Guru Drakpo) o da tre teste di deità irata (che simboleggiano Vajrakīla), oppure una o tre teste sormontata/e da una testa di cavallo a simboleggiare Hayagrīva). La lama emerge dalle fauci di un makara.” Il makara è un animale leggendario che in Tibet e raffigurato come una sorta di drago con la proboscide. Cornu P., 2003, ivi, pp. 364-365, 480.
Stamattina alle 8.30 sono andato in un giardino pubblico qui a Chengdu per liberare migliaia di pesci (tipo anguille) nel fiume insieme ad un amico cinese e a Sönamkyi, una vecchietta tibetana che chiede l’elemosina vicino a casa mia. Siamo arrivati e il gruppo di cinesi, lama Konsar e gli altri monaci avevano già cominciato le preghiere attirando tutta una folla di curiosi.
Verso le 10 abbiamo preso un autobus e dopo quasi un’ora e mezza tra taxi, autobus e rickshaw siamo arrivati davanti a una casa un po’ isolata in un villaggio vicino a Pixian. Lì siamo andati a trovare un maestro tibetano di Mewa che ci ha aspirato via le malattie con una sciarpa di seta bianca (katak) sputando una sostanza scura in una ciotola.
Tornati a Pixian (altra mezzora d’autobus) siamo rimasti aspettare seduti sui gradini della stazione per una mezz’ora con Sönamkyi, seduta accanto a me, che chiedeva l’elemosina suscitando reazioni di stupore e di disdegno nei passanti. Dopo un’altra mezz’ora d’autobus siamo andati a Pengzhou, lì abbiamo visto un tempio con una copia di cemento dello Stūpa dell’Illuminazione di Bodh Gaya a grandezza naturale che dava all’ambiente un’atmosfera abbastanza surreale.
Dopo esserci fermati in un negozio-ufficio che vendeva strane pillole all’estratto di pino a bere acqua calda, verso le 17.30 abbiamo preso l’autobus di ritorno.
Alle 18.30 siamo scesi a Chengdu in mezzo alla strada e, cercando di prendere un taxi, ci siamo ritrovati in un incrocio sotto un cavalcavia enorme in un delirio totale. Un fiume caotico di macchine, autobus, camion, motorette elettriche e rickshaw che suonavano il clacson ogni secondo mentre cercavano di tagliare la strada agli altri o di infilarsi in diagonale negli spazi tra due vetture.
Siamo rimasti in quel casino per quasi un’ora attraversando di qua e di là la strada senza riuscire a trovare nessun autobus o taxi che ci portasse a casa e, dopo un po’, abbiamo scoperto che sul cavalcavia c’era uno che minacciava di buttarsi di sotto. Miracolosamente poi siamo riusciti a prendere un taxi e a tornare verso il centro.
Sono andato a salutare lama Konsar nel suo albergo nel quartiere tibetano e, abbastanza stanco, mi sono trascinato a piedi verso casa.1 Che domenica!