Il sole stava per tramontare quando siamo andati alla casa del lama di Danpa, Alak Chomge.1
La sua casa era in alto in direzione della montagna, vicino alla khora. La strada sterrata saliva fino ad uno spiazzo su cui si affacciava una porta. Siamo entrati nella grande porta di legno a due ante e attraversato un ampio cortile salendo delle scalette di pietra.
In una stanza di legno ad un angolo del cortile sedeva il lama con altri due monaci. Mi dissero che aveva 84 anni ed era uno dei lama più anziani del monastero. Mi hanno colpito i suoi occhi, chiari per la vecchiaia, sembrava che vedessero oltre l’apparenza delle cose. Quando sono entrato la prima cosa che ho fatto è stata inginocchiarmi davanti a lui porgendogli una sciarpa rituale bianca (katak) tenuta con entrambe le mani e lui, dopo averla presa, me l’ha appoggiata sulle spalle e toccandomi dolcemente le guance con entrambe le mani come si fa con i bambini ha detto: “o ya!”
Sedeva in un angolo della stanza, questa era tutta rivestita di legno rossastro con katak bianchi, gialli e azzurri appesi alle pareti.
I monaci che stavano nella stanza ci hanno offerto una ciotola di yogurt. Abbiamo parlato un po’ con Alak Chomge, Danpa traduceva e di tanto in tanto l’anziano rideva calorosamente.
Danpa gli stava spiegando che avevo studiato e lavorato per un po’ a Pechino e che ero poi venuto a Labrang l’estate e il lama disse che vedeva tutte le cose che avevo fatto in precedenza. Ero molto emozionato, non ho mai creduto a queste cose ma mentre il lama parlava e mi guardava non avevo alcun dubbio che quello che diceva fosse vero.
Quando Danpa gli ha raccontato la mia paura riguardo a quello che mi sarebbe successo a 36 anni, lui si è messo a ridere, dicendo che se avessi recitato dei mantra la mia vita non avrebbe avuto problemi. Prima di andare via mi ha fatto mettere di nuovo in ginocchio davanti al piano rialzato dove sedeva e, prendendo un testo buddhista avvolto in una tela gialla, lo ha appoggiato sulla mia testa, poi sulla spalla destra, poi su quella sinistra, poi ancora sulla testa e così via, recitando dei versi in sanscrito a voce bassa che non capivo.
Alla fine ha appoggiato di nuovo il tomo sulla mia testa e ha concluso la recitazione con la parola samaya detta a voce un po’ più alta. In quel momento ho sentito un’energia penetrare nella sommità della testa e propagarsi verso il basso come un brivido.
Abbiamo salutato Alak Chomge e gli altri monaci e siamo andati via.
Stavamo andando a casa di Danpa e scendevamo giù per le vie del monastero. Era buio.
Quando siamo arrivati, il fratello di Danpa, Lobsang e il piccolo monaco allievo di Danpa, stavano preparando da mangiare. La stanza di legno era riscaldata dal calore della stufa. Dopo mangiato ho studiato un po’ di tibetano con Danpa e gli ho insegnato un po’ d’inglese. S’erano fatte le dieci, era tardi e l’indomani dovevo insegnare inglese ai bambini con il mio amico Gönpa, dovevo andare.
Danpa mi ha accompagnato con una piccola torcia lungo le strade di terra che serpeggiano irregolari tra le case dei monaci dai muri d’argilla. Tutto intorno era buio, solo la luce di stelle mai viste prima. La via lattea era chiara e distinta, sopra di noi brillava la costellazione dello scorpione con la sua stella rossa: Antares.
1 Alak Chomge è il settimo in ordine d’importanza a Labrang Thashikyil (su 65 lama). Alak è un termine molto usato in queste zone dell’Amdo davanti ai nomi dei lama per indicare la reincarnazione di un maestro (in altre zone è più usato il termine tulku o rinpoche).
Le cose che ci circondano, gli eventi che ci accadono, i nostri progetti, comprese le relazioni che abbiamo con gli altri, sono tutte interdipendenti (in tibetano tendrel). C’è una parola tibetana che indica una circostanza fortunata: thashi tendrel. Alcune persone pensano che thashi tendrel sia una cosa che possiamo creare, determinare ma essa si manifesta spontaneamente: in un giorno importante alziamo lo sguardo e vediamo un arcobaleno.
Se pensiamo di poterla creare la nostra mente comincia a ragionare calcolando e molto probabilmente non si manifesterà.
Voglio raccontare una storia che comincia da una di queste circostanze fortunate e prosegue attraverso le tante situazioni interdipendenti che da essa si sono dispiegate.
Un pomeriggio ero a Roma a Prati con mio nonno, in una delle varie “spedizioni” pratiche o burocratiche, stavamo camminando sul marciapiede e improvvisamente il mio sguardo venne catturato dalla copertina di un libro in una vetrina di una libreria. Sulla copertina c’era l’immagine di un buddha: era il libro di Terzani “Un indovino mi disse” e mio nonno me lo regalò.
La storia di Terzani e dei suoi incontri con vari indovini e astrologi mi piacque molto, l’idea di conoscere il mio futuro mi incuriosiva e allo stesso tempo mi spaventava. Per tutto quell’anno ne fui fortemente influenzato e nei miei viaggi in Asia, quando sentivo di un indovino o di un astrologo, lo volevo incontrare per farmi predire il futuro.
A Labrang quell’estate ho conosciuto un monaco che veniva da Trika (cin. Guide, nella provincia del Qinghai), si chiamava Aku Danpa e viveva nel monastero di Thashikyil insieme a suo fratello Lobsang. Entrambi avevano un viso che sembrava quello delle antiche statue di legno dorate dei lama e dei buddha che si trovano ancora in alcuni vecchi monasteri.
Aku Danpa aveva studiato medicina tibetana e astrologia e subito pensai di farmi leggere il futuro. Era il primo dei miei indovini.
Gli dissi la mia data e ora di nascita e dopo qualche giorno Aku Danpa mi diede la risposta che aveva scritto su un foglio di carta.
“La tua vita andrà sempre meglio ma a 36 anni (35 in occidente)1 avrai un problema abbastanza grande che poi supererai”.
Sì, è vero l’avrei superato ma le parole “problema abbastanza grande” avevano fatto sorgere in me una certa agitazione.
Quando gli chiesi più spiegazioni, lui rispose che per dirmi con più precisione cosa sarebbe successo a 36 anni avrebbe dovuto fare un altro calcolo astrologico più specifico di quella fase della mia vita e che ora non aveva tempo ma se volevo mi avrebbe portato dal suo maestro, un lama molto anziano, e avrei potuto chiedere a lui.
1 Quando Aku Dampa mi lesse la risposta disse 36, ma molti tibetani a cui raccontai in seguito questa storia mi dissero che era 37 (In occidente 36 anni. Nell’astrologia tibetana e in quella cinese infatti si conta anche il periodo passato nel grembo materno e si aggiunge un anno). Nel 37° anno, infatti, si conclude il 3° ciclo dei 12 animali e l’elemento dell’anno è in contrasto con l’elemento del proprio segno e in genere si presentano negatività e ostacoli. Per il serpente di fuoco (1977) il 37° anno è stato il serpente d’acqua (2013).
“Sindhura, la valle di Chakrasaṃvara (Tib. Demchok) che si trova tra le due correnti”, così i tibetani chiamano questa valle che si trova all’interno di un ansa particolare del Fiume Giallo (tib. Machu), un luogo sacro, un nekhang, un posto unico con un feng shui perfetto e un energia particolare. Nominata in antichi testi indiani e meta di eremiti questa valle ha l’aspetto di un canyon di terra rossa (Scr. sindhura), le rocce sono friabili con alcune zone più aride dove non cresce niente ed alcune in basso più fertili, coperte di vegetazione e di alberi di hua jiao mano mano che ci si avvicina al fiume. Questo luogo è uno dei luoghi sacri di Demchok e ha una storia bellissima e misteriosa….
Uno yogi venuto dall’India si ferma in una grotta di questa valle a meditare. Una giovane ragazza del villaggio vicino lo vede e ogni giorno gli porta da mangiare. I due si innamorano provocando il dissenso della gente del posto. Un giorno una barca con a bordo la ragazza affonda, tutti si salvano ma la ragazza sparisce. Passa del tempo…. Un giorno una bambina del posto ode una voce: “aprite la porta! Aprite la porta!”, ma nella valle non c’era alcuna porta e la voce proveniva dalla parete rocciosa che sovrasta la valle, dal profondo della roccia. Dopo qualche giorno la bambina torna con la gente del posto, all’improvviso un pezzo di roccia salta via da solo e lo spettacolo che si para davanti ai loro occhi li impressiona fortemente: lo yogi e la ragazza (che avevano già raggiunto la realizzazione suprema di Chakrasaṃvara) sono uniti nella karmamudrā. Cercano di separarli, di dividerli ma i loro corpi rimangono legati indissolubilmente l’uno all’altra, dopo innumerevoli tentativi alla fine vi riescono ma i due giovani muoiono.
A ridosso della parete rocciosa dove si era aperta la grotta, ad una discreta altezza dal livello del suolo è stato poi costruito un piccolo lhakang, un santuario che conserva la statua dello yogi e dalla sua consorte in quella grotta.2 La ‘porta’ della caverna, la roccia saltata fuori della parete giace ancora a terra nella valle ad alcuni metri di distanza e i tibetani ci girano intorno nella circoambulazione rituale o khora.
Un vecchio monaco ha vissuto qui, prendendosi cura del santuario per anni, dopo la sua morte un lama anziano di Labrang e venuto qui a recitare le scritture e a fare offerte alla divinità e agli spiriti del luogo. E’ questo lama che io e Sebastiano siamo venuti a trovare. Il lama, Aku, e’ un uomo non tanto alto, di corporatura grossa, i suoi abiti da monaco sono vecchi e strappati, la sua voce e la sua risata rauche e un grande senso dell’umorismo. Aku ci raccontava che a molti nel monastero di Labrang non piacciono i monaci poveri e stracciati come lui e a lui non piacevano quelli che sono monaci solo esteriormente e non nel cuore. I giorni nella valle con lui sono stati giorni bellissimi, indimenticabili: dormivamo all’aperto sotto i piccoli alberi ai piedi della parete di roccia, proprio sotto il santuario; cucinavamo con pochissimo, (tsangpa, melanzane e cavoli e noodles che Sebastiano aveva comprato lungo la strada) con legna e fuoco.
Aku aveva arrangiato sotto l’ombra degli alberi un tappeto, una stuoia e dei lembi di stoffa che cingevano il tutto e dentro aveva riposto degli oggetti rituali, bandiere di preghiera, un piccolo focolare su delle pietre, una teiera d’alluminio annerita per il tè e una pentola. Durante il giorno il sole era forte e faceva molto caldo, la sera era fresco e bisognava coprirsi. Nella valle non c’era la luce e la notte sedevamo accanto al fuoco e dormivamo tutti e tre lì sulla stuoia e sul tappeto, sotto i piccoli alberi….sotto le stelle….e ci addormentavamo al sibilare del vento….non avevamo coperte e venivamo mangiati dalle zanzare.
Aku spesso dormiva in una piccola casa bassa dai muri d’argilla poco più in là, a parte noi tre in questa valle le uniche persone erano gli abitanti di un villaggio più lontano e raramente qualcuno veniva nella nostra direzione. La mattina Aku ci dava qualche breve insegnamento che non riuscivo a capire benissimo e il pomeriggio passavamo difronte ad uno dei massicci rocciosi che formavano questa sorta di canyon e andavamo a fare il bagno nel Fiume Giallo. Un giorno abbiamo provato un “avventura” come diceva Sebastiano e ci siamo e ci siamo inerpicati su una di queste grandi rocce, una salita abbastanza pericolosa, degna di lui e mentre salivamo e scendevamo sui sentieri scoscesi intonavamo allegramente la musichetta di Indiana Jones per caricarci e mantenere vivo l’entusiasmo e la determinazione a proseguire e non tirarsi indietro davanti agli ostacoli. In questa gola il paesaggio era magnifico: le grandi rocce rosse, il fiume, gli alberi profumati di huajiao, il Fiume Giallo e le sue rive erano pieni d’argilla ma l’acqua era pulita. Tra un tuffo è l’altro ci ricoprivamo tutto il corpo con il fango caldo e facevamo a gara con i bambini di un villaggio poco lontano a slittare sulla riva fangosa a pancia in giù e Sebastiano faceva i salti mortali. Nel fiume lavavamo gli unici vestiti che avevamo mettendoli ad asciugare al sole e il tempo era così caldo che si asciugavano subito.
Aku mi ha insegnato molte cose, ma soprattutto a vivere la libertà e la spontaneità del Dharma….la libertà e la spontaneità della vita.
L’ultimo giorno, quando stavamo andando via per tornare verso Labrang, Sebastiano mi ha detto che la magia di questo posto sarebbe finita presto.
“Perché?” Chiesi io.
“Hai visto la strada? Prima non c’era.”
“Ma chi potrebbe essere interessato ad un posto come questo?”
“I cinesi fanno di tutto per i soldi.” Rispose lui.
Sulla via del ritorno pensavo ai giorni passati a Luojiadong. Ero emozionato e felice ma queste emozioni erano velate da una leggera malinconia.
Questa mattina ci siamo alzati prestissimo e, dopo una colazione a base di tsangpa, pane, uova sode e te con latte ci siamo avviati all’autobus per Linxia accompagnati da Dorjetso. Linxia si trova nella valle del fiume Daxia, un affluente del Fiume Giallo, per secoli ha costituito un centro religioso, culturale e commerciale importante della comunità islamica in Cina, qui infatti la maggioranza della popolazione è musulmana1 e con le sue innumerevoli moschee è chiamata dalla gente del posto la “piccola Mecca della Cina”.2
Ho portato con me solo l’essenziale: 2 quaderni, 1 libro, foglie di tè verde, mala, maglione di lana, carta igienica, un pezzo di pane e un uovo sodo avanzati dalla colazione, occhiali da sole di pietra per camuffamenti, mettendo tutto in una borsa di tela da monaco.
Gli unici vestiti sono quelli che ho addosso, pantaloni viola e maglietta arancione. Nell’autobus abbiamo incontrato un gruppo di ragazzi cinesi musicisti di Lanzhou che studiavano il buddhismo. Durante il viaggio abbiamo parlato un po’ e arrivati a Linxia ci hanno offerto il pranzo: shou zhua yang rou, grossi pezzi di carne di pecora da prendere con le mani, (la carne di pecora di questi luoghi è macellata alla maniera musulmana ed è famosa in tutta la Cina), chao mian pian, una specie di orecchiette in brodo, il tè ba bao, molto bevuto tra gli hui e gli altri musulmani della zona, e huang jiu, un vino con le bacche gou ji che va bevuto molto caldo.
Durante il pranzo abbiamo parlato di cultura e usanze cinesi e di cultura e usanze italiane e straniere, un ragazzo magro con il viso scavato e gli occhiali era esperto in buddhismo chan ed era interessato al buddhismo tibetano.
Dopo mangiato abbiamo cominciato a cantare e suonare la chitarra dentro il ristorante: loro hanno cantato una canzone del nord-ovest tutti insieme, l’esperto di chan alla chitarra accompagnato da un ragazzo con i capelli lunghi e l’orecchino un po’ stile Hei Bao o Tang Chao (dei famosi gruppi hard rock cinesi) che io, preso dall’ebbrezza dello huang jiu, avevo soprannominato “Er Giaguaro”.
Con la sua poderosa chitarra il Giaguaro si è esibito in una serie di pezzi rock in perfetto inglese come “What’s Up” dei 4 Non Blond e “Holiday” degli Scorpions e, su mia richiesta, hanno cantato “Yi Wu Suo You” e altre canzoni di Cui Jian, il padre del rock cinese. Io ho cantato e “The House of the Rising Sun”, “La Canzone del Sole”, “Knockin’ on Heaven’s Door” versione Guns ‘n’ Roses , “I Remember You” degli Skid Row….insomma il mio solito repertorio con strimpelli da menestrello. Poi un accenno di “Grazie Roma”; “Acqua Azzurra” e “O Sole Mio”, in duetto con Sebastiano e come gran finale abbiamo cantato tutti insieme due canzoni dei Tang Chao, l’ultima: “Tai Yang” (sole). Che cinesi strani e interessanti.
Dopo esserci salutati e scambiati gli indirizzi siamo andati alla stazione ovest per prendere l’autobus per Liu Jia Xia.
“No parte domani alle 6:30.” Ci dice un ragazzo hui (una delle minoranze musulmane della Cina).
E quindi eccoci qua, in una pensione-baracca difronte la stazione, è una pensione per cinesi, noi siamo illegali qui, a 6 kuai a notte (1200 lire), non ho mai trovato niente di meno costoso in quasi due anni di Cina a parte i prati e il pavimento del salotto di Lei Jian a Pechino.3
Pensione? Le pareti sono di compensato con buchi che permettono di vedere le stanze adiacenti, la “porta” è un pannello di plexiglass scorrevole stile “giapponese”, le pareti di compensato e la porta potrebbero essere buttate giù in un attimo e per di più il pannello scorrevole è aperto in alto. Le stanze sono 2 metri per 2 o forse poco più; 2 letti con lenzuola a fiori non lavate, materassi sottilissimi e sporchi poggiati su assi di legno, il pavimento è di cemento e la mobilia è tutta appiccicata: 2 letti e 1 comodino.
Non mancano i classici accessori del confort cinese: televisore Bei Jin, un thermos per l’acqua calda e due tazze sporche. Un cartello sul muro lercio dice qualcosa sull’igiene con la figura di un poliziotto che fa il saluto militare. L’acqua è quella del thermos e ci si lava nella bacinella e il bagno è quello della stazione degli autobus.
Vicino a noi c’erano dei grossi tibetani con dei grandi coltelli alla cintola e visto che le pareti di compensato e la porta di plexiglass non mi davano una sensazione di grande sicurezza e in più noi eravamo stranieri, all’inizio non ero molto tranquillo.
Stasera abbiamo mangiato degli spiedini ad un banchetto per strada, bevuto del tè dolce e fatto due chiacchiere con la signora della pensione.
Domani mattina partiamo alle 6:30.
Nella stanza Sebastiano mi ha spiegato per la prima volta degli esercizi di meditazione e abbiamo meditato un po’ insieme, anche se non sono riuscito a concentrarmi un granché.
2 Rimane ancora oggi il centro principale degli ordini Sufi Qadiriyyah e Khufiyya in Cina e terra natale di Ma Mingxin (1719–1781), fondatore dell’ordine Sufi Jahriyya.
3 Non potevo immaginare che nel capodanno dello stesso anno, a Labrang, ne avrei trovata una a cinque kuai a notte e che avrei poi raggiunto il record stando qualche giorno in una di tre.
Finalmente mi sono elevato dagli abissi di Lanzhou, una delle città più inquinate del mondo, alle montagne del Amdo, la Lamaseria di Labrang dove ho rincontrato i miei amici Gönpo e Sebastiano.
Erano due anni che non vedevo Sebastiano e sono stato contentissimo di parlare ancora con lui. Parlavamo sempre di tante cose: la visione della vita, il significato e il valore dei rituali e della spiritualità in genere e lui aveva sempre un grande senso dell’umorismo e di tanto in tanto faceva battute per sdrammatizzare il tutto.
Nel tardo pomeriggio siamo andati insieme ad un bambino olandese e ai suoi genitori a trovare un giovane tulku nella sua residenza poco lontano dalla Guesthouse del monastero.
Il tulku ha undici anni ed è la reincarnazione di un lama che nella vita precedente aveva raggiunto un alto livello di realizzazione.
Sono rimasto stupito dal suo inglese, decisamente inusuale per un bambino della sua età. Monaci, tutori, suo padre e sua madre gli stavano sempre vicino.
Tra loro c’era anche un ragazzo di Pechino, un tipo molto magro con un po’ di barba e baffi.
Era buddhista, aveva incontrato il piccolo lama alla montagna sacra Wutai in Cina ed era tornato qui con lui per insegnargli il cinese ed approfondire il suo studio e la sua pratica.
Questo fatto è decisamente inusuale infatti in Cina, a parte i monaci, qualche anziano e qualche curioso, finora non ho incontrato molti cinesi buddhisti e quelli che seguono il buddhismo tibetano sembrano essere ancora meno.
Sul piazzale del monastero vedo spesso pullman di turisti cinesi ma nessuno che preghi o che abbia una mālā in mano o al collo, si limitano a girare per i vari padiglioni seguendo goffamente una guida e a fare foto invadenti lungo la khora ai pellegrini suscitando reazioni di sdegno. I tibetani infatti non amano essere fotografati da loro o comunque non sembrano dargli il benvenuto.
Bempa, così si chiama il piccolo lama, ha un’energia e una voglia di giocare uguali a quelle di tutti i bambini. Abbiamo fatto qualche passaggio a pallone con lui fuori nel cortile ed era molto contento. Dopo un po’ siamo andati via.
La sera nella cameretta di Sebastiano, dietro al ristorante, abbiamo mangiato ancora tofu in salsa piccante, patatine fritte e dei funghi tibetani infarinati con l’orzo dal gusto burroso. Dopo una lunga chiacchierata sono andato a dormire, ero esausto.
Le stelle si stagliavano nitide e luminose su cielo nero….le stelle di sempre.
21 Luglio
Oggi dopo tanto tempo ho seguito la khora intorno a Labrang Thashikyil. Qui il sole è molto forte e le ore migliori per circoambulare il monastero sono quelle del primo mattino o del pomeriggio dopo le cinque, così io e Sebastiano ci siamo incamminati nel tardo pomeriggio, dopo aver comprato del pane, e preso del ketchup e della marmellata. E venuto anche con noi Asang un bambino tibetano molto vivace e ci seguiva con in mano un sacchetto d’uva fragola che gli aveva dato sua madre. Camminavo come tutti gli altri facendo girare le grandi ruote di preghiera (mani khorlo) colorate con una mano e tenevo la mālā (una sorta di rosario) nell’altra.
Alla fine di una fila di ruote e all’inizio di un’altra spesso c’erano delle piccole stanze scure, le pareti ricoperte di dipinti raffiguranti i buddha e i bodhisattva erano illuminate solo dalla luce fioca di lumini ad olio e al centro c’erano delle ruote dalle dimensioni enormi. Ruota dopo ruota, le lettere dorate dei mantra che giravano scintillando alla luce del sole mi facevano quasi perdere l’equilibrio.
Il nostro cammino era accompagnato da file di vecchiette rugose e sdentate, pastori sporchi dalle facce bruciate dal sole e sorrisi dorati, ragazze sorridenti e curiose e monaci dal passo spedito. Il bisbigliare di mantra ondeggiava nell’aria, come i cerchi provocati da un sasso in uno stagno.
Arrivati al Gungthang Chörten ho incontrato Kagya, il monaco custode che avevo conosciuto l’anno scorso e con cui mi fermavo spesso a parlare quando arrivavo in quel punto.
Le montagne ondulate, i falchi, il fiume, il ponte di legno con le bandierine di preghiera.
Passato un secondo e più piccolo chörten bianco in muratura siamo saliti lungo il sentiero che sovrasta gli ampi piazzali e i tetti d’oro del monastero e che costeggia la montagna, ci siamo fermati su dei gradini e alla rosea luce del tramonto abbiamo pasteggiato a base di pane, ketchup, marmellata e uva.
“Demo” dicevano i monaci che passavano lungo la via. Eravamo rimasti lì seduti da un po’ a parlare e a goderci il panorama e quell’atmosfera di pace, quando è arrivato un uomo sporco e stracciato e rivolgendosi a noi, ha detto qualcosa per me incomprensibile. Sebastiano mi ha detto che l’uomo ci aveva invitato ad avviarci verso casa e che lui ascoltava sempre i consigli di uomini così.
“Hanno un sesto senso è meglio ascoltarlo.”
Così ci siamo incamminati, il sole era quasi tramontato del tutto. Le casette di meditazione sul fianco della montagna….due padiglioni con ruote enormi e lumini ad olio….un giro intorno ad un altro chörten….un ultima lunga fila di ruote ed eravamo al ristorante di Dorje.
Il giro era finito ed eravamo molto stanchi: due momo di yak fritti e a letto.
28 luglio
Questa mattina come al solito ho fatto colazione al ristorante della famiglia di Dorje: il Labrang Monastery Restaurant con tsangpa e tè con latte. Finalmente, dopo tanti tentativi, l’impasto dello tsangpa mi riesce bene e non faccio più il solito pasticcio che fa ridere tanto i tibetani.
Dopo colazione sono andato a fare la khora, il tempo era brutto e lo è stato fino a sera, ha piovuto e tirava un vento freddo. A cena ho mangiato dei mian e sono tornato alla guesthouse del monastero.
Questa guesthouse si trova in una piccola traversa della via principale più sù poco lontano dal ristorante ed è una delle più economiche (un posto letto costa 5 kuai). Attraversando un cancello di ferro, si entra in un cortile di terra battuta intorno a cui si aprono delle porte di legno arancioni ognuna con accanto una finestra. Dalle porte arancioni si accede direttamente nelle stanze che si trovano tutte al piano terra.
La mia stanza ha due letti, una stufa (di solito alimentata con sterco di yak essiccato) e un bollitore d’alluminio per l’acqua calda, la porta si chiude puntellando un asse di legno alla stufa. Come la maggior parte delle abitazioni in Tibet e non c’è l’acqua corrente l’acqua si prende da un pozzo o dal bidone nella stanza di Kalsang, il gestore della guesthouse, e ci si lava in una bacinella nella stanza e il bagno è una latrina comune fuori.
Gli altri ospiti della guesthouse sono principalmente pellegrini tibetani o mongoli, che vengono a visitare il monastero e a fare la khora.
Di tanto in tanto per il cortile passeggia qualche vecchietta rugosa e sdentata.
Una vecchietta con i vestiti colorati e i capelli legati in piccolissime treccine divise in tre fasce, che arrivano quasi a terra, sorride ogni mattina.
Accanto al cancello c’è la stanza di Kalsang, un amico di Lama.
Kalsang è un uomo di bell’aspetto, magro con i capelli corti, ha vissuto in India per molti anni e parla bene inglese. La sera ho parlato con lui, è un tipo strano, di poche parole, un po’ enigmatico.
A Labrang girano tante storie su di lui e su alcuni dei suoi amici. Ogni tanto lo incontri sulla strada o lo vedi uscire da dietro un angolo. Con quel suo sguardo furbo e furtivo sembra sempre essere in cerca di qualcosa o di qualcuno. Sembra saperne una più del Diavolo.
29 luglio
Oggi io e Dom, un ragazzo belga che avevo conosciuto la sera prima, ci siamo incamminati verso una delle montagne di fronte al Gungthang Chörten, abbiamo passato il ponte di legno ricoperto di bandierine di preghiera, siamo arrivati dall’altra parte del fiume, siamo saliti sulla montagna e ci siamo seduti sull’erba al sole ammirando il panorama: i tetti dorati del monastero e del chörten e le basse case d’argilla dei monaci. Vicino a noi c’erano un uomo e una donna che sedevano in silenzio con i rosari in mano e abbiamo parlato un po’.
Dopo un po’ è arrivato un ragazzo e insieme a lui siamo saliti più in alto fino ad un boschetto di pini alti e sottili che s’innalzavano sopra un soffice tappeto di muschio. Siamo rimasti lì per un po’ in silenzio ad ascoltare il suono del vento, un sibilo dolce che faceva muovere le cime degli alberi.
“Prima qui non c’erano alberi.” Ha detto il ragazzo.
“Qui un giorno il lama di Labrang si e rasato e ha sparso i suoi capelli che sono diventati alberi di pino.”
“Quest’anno se ne è andato, quindi ci sono meno fiori.”
“Perché non ci sono i falchi?” Ho chiesto.
“Perché ieri è morto uno del paese e i falchi stanno dall’altra parte della montagna, dove hanno portato il corpo.”
Molte persone mi chiedono come sono finito in Tibet e le ragioni del mio interesse per questa terra e per le sue tradizioni. Noi occidentali amiamo chiederci infiniti perché e pretendiamo sempre di avere una risposta precisa per ogni domanda. Una volta mi trovavo a casa di Sangye Öser, un lama anziano di tradizione Jonangpa. Avevamo appena finito di mangiare e come al solito sedevo vicino a lui a parlare bevendo il tè. “Rinpoche, se io oggi sono qui a parlare con te cosa vuol dire? Chi ero nella mia vita precedente?” gli chiesi preso da quella curiosità e voglia di fare domande che gli occidentali e i cinesi spesso hanno quando non riescono a rilassarsi nella situazione così com’è. Lui mi rispose con la sua voce affettuosa e gentile: “Eri uno che seguiva l’insegnamento del Buddha” e poi disse: “Noi staremo insieme tutta la vita”.
Nel ’97 studiavo alla facoltà di Lingue Orientali, quello era il mio primo anno e al corso di lingua cinese non avevo ottenuto grandi risultati, ero sul punto di mollare quando decisi di partire per la Cina. Ero da solo e andavo a trovare degli amici che avevano appena terminato il corso estivo di cinese per poi viaggiare insieme. Questo paese mi piacque moltissimo e pochi mesi dopo ci tornai per studiare la lingua all’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Alla fine del corso, nel mese di luglio, i miei amici avevano progettato di fare un viaggio nello Xinjiang, e in Tibet, la terra dalle montagne più alte del mondo ma non ero tanto attratto, non mi piaceva viaggiare con tante persone e quei luoghi erano in quel momento lontani dalla mia idea di Cina, un paese che per me era ancora tutto da scoprire, preferivo viaggiare da solo e vedere altri posti. Avevo con me una guida della Cina che mi aveva regalato mia madre, la sfogliavo ripetutamente in cerca di mete da raggiungere, quando la mia attenzione fu catturata da poche righe stampate:
Da Lanzhou prendete un autobus di primo mattino e preparatevi a uno scomodo viaggio di 10 ore (260 km di strade di montagna). Xiahe si trova a un’altitudine di circa 3000 metri. Ma vale la pena di affrontare qualche fatica perché è un posto davvero stupendo! Vi sembrerà di essere in Tibet o, meglio ancora, nel paradiso della Cina!
La città di Lanzhou era il capoluogo del Gansu e a quell’epoca per arrivarci ci volevano circa 30 ore di treno da Pechino. Partii con un piccolo zaino sulle spalle, nel cuore provavo un sentimento di eccitazione e allo stesso tempo un senso di timore, timore per ciò che non conoscevo, a cui non ero preparato.
Partii non sapendo che Xiahe, quel “piccolo paradiso” che per me si trovava nel bel mezzo della Cina, era la città di Labrang. Labrang si trova nell’area dei pascoli intorno all’alto corso del fiume Sangchu nel Tibet nord-orientale, l’Amdo ed è qui che sorge il più grande monastero di quelle terre, Labrang Tashikyil. Quel viaggio avrebbe segnato per me un cambiamento profondo.
Attraversai una zona piuttosto arida: pianure punteggiate da filari di pioppi, montagne color ocra, dove crescevano solo pochi ciuffi d’erba. Quello che mi colpì di più fu la scarsa vegetazione e la mancanza d’acqua che caratterizzava quelle zone, dove l’agricoltura sembrava essere davvero difficile. Di tanto in tanto il treno si fermava in un villaggio dalle casette di mattoni, oppure in una città dai palazzi di cemento dove una o più ciminiere sputavano fumo nero. Fuori dal grigiore delle città, tutte dall’aspetto trasandato e squallido, i colori prevalenti erano l’azzurro del cielo e il giallo ocra della terra.
Arrivai a Lanzhou e poi a Xining e mi ritrovai immerso in quel mare di etnie che caratterizza l’attuale Cina dell’ovest: cinesi (han), dungani (hui), tibetani, salar, dongxiang, uighur, ecc. Lì, dopo gli han, la popolazione è costituita soprattutto dagli hui (in quegli anni i tibetani erano ancora pochi) e tra gli edifici religiosi prevalgono le moschee.
A Xining andai a visitare il monastero di Kumbum che sorge in una valle vicino alla città e dove nacque Lama Tsonkhapa, il grande maestro che fondò la scuola dei Gelugpa, “i virtuosi”. Quello fu il mio primo contatto con un monastero tibetano in Tibet. Per Pechino quello era il “far west”, quello che oggi sta tentando di sviluppare con slogan che echeggiano da tutti i media nazionali.
Tornato a Lanzhou presi un autobus per Labrang. All’epoca le strade erano molto più dissestate e il viaggio durava circa dieci ore (oggi con la nuova strada si impiegano tre ore e mezzo). Ad ogni centro abitato o villaggio continuavano a salire persone con grossi sacchi sporchi e pecore e molta gente sedeva su sgabellini di plastica bassissimi in mezzo al corridoio. C’erano parecchi hui con i loro copricapi bianchi. Passata Linxia, oltre il Chörten Karpo1 di Tumen Guan cominciarono a vedersi tibetani con il loro lunghi vestiti tradizionali.
Gli uomini portavano grandi cappelli a falda larga e le donne i capelli lunghi pettinati in una o due trecce. Man mano che si saliva lungo i tornanti delle montagne queste diventavano più verdi, il caldo afoso diventava fresca aria di montagna e il cielo grigio pieno di foschia di Lanzhou diventava un limpido cielo azzurro. Avevo l’impressione di salire verso il paradiso.
Labrang era diversa dalla Cina che avevo visto fino a quel momento: in effetti di cinese sembrava avere solo gli ideogrammi sui cartelli e la burocrazia. Alloggiavo nella parte alta della città alla Tara Guesthouse, di fronte alla khora2 del monastero e qui vedevo quasi esclusivamente tibetani. L’atmosfera era leggera, tutt’intorno si vedevano i profili ondulati delle montagne, nell’aria si sentiva il profumo del sang3 e si udiva un tintinnio di campanelli. Il sole brillava sui vestiti rossi dei monaci e su quelli variopinti dei pellegrini, dando anima a quei colori come per incanto.
Al ristorante del monastero incontrai Sebastiano, un ragazzo italiano che aveva passato lì molto tempo. Sebastiano era fidanzato con una ragazza del posto e parlava il cinese e il dialetto tibetano dell’Amdo. Inoltre aveva cominciato a studiare il Buddhismo e, per me, sapeva già molte cose. I racconti di Sebastiano, il fascino di quel luogo e della sua gente fecero nascere in me il desiderio di conoscere quella cultura, di comunicare con quelle persone usando la loro lingua. Il primo giorno avevo già imparato a salutare: “demo” e a ringraziare: “shata”.
Nei giorni successivi cominciai a studiare quella lingua con Lama4, un tibetano amico di Seba che parlava un po’ d’inglese. Mi annotavo le frasi su un block notes usando una traslitterazione fonetica improvvisata. Lama mi fece comprare un libro di lingua tibetana per bambini continuò a insegnarmi: mi assegnava dei compiti che controllava il giorno dopo e facevamo un po’ di conversazione.
Ogni giorno, facevo colazione al ristorante del monastero e studiavo. Dopo lo studio seguivo i pellegrini lungo la khora, la via che gira intorno al monastero. La khora di Labrang è di circa tre chilometri e perciò lungo la strada molti pellegrini mi facevano cenno di fermarsi a riposare. Ci sedevamo sulle pietre a ridosso della strada o, passato il vecchio ponte di legno sul Sangchu, salivamo sulla collina davanti al Gungthang Chörten e sedevamo sull’erba. Mi offrivano pane e frutta facendo dei grandi sorrisi. La nostra comunicazione avveniva a gesti, sguardi e sorrisi e ogni tanto qualche parola: “nyima tsage” (Il sole scotta) o “chö shage” (Sei bravo). Quando indicavano la mālā che avevo in mano, io recitavo prontamente: “Om Mani Padme Hum” e loro mi sorridevano e i loro occhi brillavano.
Volevo comunicare con quella gente cercando di avere un rapporto diverso da quello che ha di solito un turista. Molti di loro erano nomadi e pastori, le nostre vite erano così diverse e l’unica cosa che avevamo in comune era il percorrere quella via, la khora, che per me fu il primo giro della Ruota del Dharma.
Così mi avvicinai al Buddhismo ingenuamente, come per gioco, non conoscevo l’insegnamento e passavo molto tempo a circo-ambulare il monastero con i monaci e i pellegrini. Spesso venivo invitato dai monaci a prendere il tè e facevo delle piacevoli deviazioni lungo il percorso. La khora era un luogo di incontri e aveva un valore sociale oltre che religioso: qui si incontrava tutto il paese e si incontravano i pastori nomadi dei pascoli vicini e di quelli lontani.
Sono stati proprio quei pastori ad aprirmi il cuore…. a loro andrà sempre la mia riconoscenza.
Negli anni successivi sono tornato nuovamente a Pechino per perfezionare lo studio del cinese e ho compiuto molte altre escursioni in Tibet: nel Kham (Gyeltang e Dartsedo*) e soprattutto nell’Amdo (Mewa; Ngawa; Golok; Machu; Labrang e la zona del Sangchu; Rebkong*). Nell’inverno del 2000-2001 festeggiai a Labrang il primo capodanno, il più freddo che abbia mai trascorso. Quell’anno, l’anno del Serpente di Metallo, il losar cadde il 24 Gennaio e il primo giorno dell’anno fece una gran nevicata.
* A parte Labrang, gli altri sono nomi di aree più vaste e non di singoli centri abitati.
1Un chörten, “supporto per le offerte”, è un monumento che al suo interno conserva delle reliquie di esseri realizzati o/e testi buddhisti. Il suo nome sanscrito è stūpa. Il Chörten Karpo (lett. chorten bianco) si trova sulla strada che da Linxia porta a Labrang. Si pensa che questo fosse l’antico confine tra Cina e Tibet. Un anziano di Labrang mi ha riferito che qui i tibetani, tra tutte le altre merci, scambiavano i loro cavalli con il tè proveniente dalla Cina. I cinesi chiamano questo luogo Tu Men Guan, poco lontano dal chörten infatti si trova una porta con questo nome di recente costruzione (Labrang, 2005).
2 La khora è la strada percorsa dalla gente durante la circoambulazione rituale di un monastero, santuario o luogo sacro.
3 Il sang, offerta di fumo profumato effettuata bruciando ramoscelli di ginepro e altre sostanze. Cfr. Stein R. A. La Civiltà Tibetana , Torino: Einaudi 1986, p.178. Per una descrizione più dettagliata del culto del sang vedi Namkhai Norbu, Drung, Deu e Bön, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 1996, pp 193-197.
Gli studenti cinesi scelgono spesso dei nomi stranieri molto strani. Una volta ho parlato con uno che si chiamava “Prophet” che mi aveva raccontato aveva scelto questo nome per avere più sicurezza in se stesso e che si esercitava ballare la break-dance; una ragazza dello Xinjiang all’Università di Chongqing si chiamava “Cactus”, una mia studentessa “Cupido”, un altro studente “Tristano” e tra gli studenti degli amici miei ci sono stati anche “Foglia”, “Stagno” e “George Washington” (solo di nome).1 In questo corso una studentessa ha voluto chiamarsi “Squalo” nonostante io le avessi consigliato che era meglio sceglierne un altro.2 Qualche giorno fa ho conosciuto uno studente d’inglese di meno di vent’anni, carino e gentile con il viso rotondo e gli occhiali. Mi aveva parlato della sua passione per i militari e gli eserciti in generale e aveva lo zaino mimetico e il cappelletto dell’esercito americano. Ieri mi ha offerto un caffè e siamo tornati a scuola. Poco dopo mi è arrivato un sms: ” Hey this is Rambo. Nice to meet you!”
1 Un americano che ha insegnato a Pechino mi ha detto che, nella sua classe, c’era uno studente che si chiamava “Mike Tyson”.
2 Ho scoperto successivamente che Squalo, dopo essere andata in Italia, si è voluta chiamare Sabato.
Oggi verso l’ora di pranzo andavo a prendere un cappuccino è stavo facendo a piedi quel piccolo tratto di strada da casa mia a Starbucks. Era una piacevole “giornata di sole” e sul Primo Anello passavano poche macchine. Mentre mi avvicinavo al centro commerciale ho notato due animali che da lontano mi sembravano due piccoli cammelli. Erano dentro un recinto sul marciapiede, proprio davanti alla porta del centro commerciale. Come accade spesso in Cina, intorno al recinto si era radunata una folla di curiosi che guardava gli animali e quasi tutti avevano i telefonini in mano, facevano foto o tentavano di filmarli. Arrivato al recinto mi sono accorto che i due animali erano dei lama: uno era marrone e l’altro bianco. Mangiavano del fieno in una scatola in un angolo del recinto e guardavano la folla con i loro occhi grandi e un espressione calma. Guardandoli ho pensato come gli animali erbivori che ruminano riescano a rimanere così calmi e placidi anche in mezzo alla confusione. In Tibet osservo molto gli Yak e ho notato che, a volte mentre pascolano sugli scoscesi pendii delle montagne smettono di mangiare l’erba e alzano la testa rimanendo immobili per molti secondi con lo sguardo fisso, guardano in lontananza.
Sono andato a prendere il cappuccino è quando sono ripassato davanti al centro commerciale erano ancora lì. In Cina spesso succedono delle cose strane, inaspettate, un amico mio americano che ho conosciuto a Chongqing li chiamava China moments, qualcosa per noi completamente al di fuori dell’ordinario, che però sono delle cose che tirano sù la giornata, che hanno la forza di svegliarti, come l’uccellino di legno dell’orologio a cucù. Da quella conversazione che ho avuto a Chongqing con quel mio amico americano, sono diventato un osservatore di questi momenti. Non si può infatti essere un cacciatore di China moments, perché non puoi sforzarti di cercarli, non esiste alcun piano alcuna teoria, alcuna griglia logica o struttura grammaticale con cui catturarli, semplicemente accadono quando meno te lo aspetti. Cucù! China Moment! Come un bambino che ti spruzza all’improvviso con la pistola o, a volte, come una secchiata d’acqua. Cammini sul marciapiede di sera e….Cucu! Barboncino con pelo multicolore, giubbottino e museruola gialla a forma di becco di papera!
Mentre ripassavo davanti ai lama la mia logica ha cercato di catturare l’evento con le spiegazioni e le teorie, facendolo rientrare nella casella giusta, scegliendogli una giusta cornice: “quest’anno sarà l’anno della pecora ecco il perché…ho capito…ma i lama non sono proprio pecore, vengono dal Sud America…” Ma questo rovina il China Moment, così lo perdi.
Ho abbandonato il ragionamento…e ecco il China moment di oggi: stavo andando a prendere il cappuccino e….CUCU’! Lama davanti al centro commerciale!
A Jangkya ero ospite a casa di Pema Tsering, un giovane ngakpa del villaggio. Io, Pema e i suoi famigliari stavamo tutti in cucina e guardavamo un documentario sugli oracoli di Nechung e Palden Lhamo, persone in cui discendevano queste divinità (tib.lhaba).
“Ce l’abbiamo anche qui.” Mi dissero.
“Tra qualche giorno la divinità della nostra montagna, Amnye Mokri discenderà tra la gente del villaggio.”
“Dove?”
“Nel santuario, lì si radunerà la gente del villaggio a rendergli omaggio e lui farà delle divinazioni”. Disse lo zio di Pema.
“A tutti?”
“No, solo a chi vuole. La gente che chiede la divinazione si farà farsi dei tagli sul viso con un coltello e ripagando l’oracolo con il proprio sangue.”
Lo zio di Pema, un uomo di grossa corporatura e dal viso largo, aveva un moderno taglio di capelli che teneva pettinati all’indietro e dei grandi occhiali quadrati. Trascorse qualche giorno, era pomeriggio e stavo seduto nella cucina della casa. Avevo passato ore seduto accanto alla stufa mangiando pane e sorseggiando tè con il latte come fa la gran parte degli uomini qui. Qualcuno, non ricordo chi, entrò e disse: “arriva!” La divinità, discesa nel corpo del lhaba, stava facendo il giro del villaggio.
Uscimmo tutti nel cortile della casa e ci fermammo ad aspettare….in lontananza si sentiva un suono di tamburi.
Le persone stavano in piedi con dei katak1 fra le mani ai lati del cortile. Io ero molto teso, sapevo che Amnye Mokri era una divinità mondana e ne avevo un po’ paura. La musica si fece a poco a poco più forte e improvvisamente entrò un gruppo di uomini. In mezzo a loro c’era il lhaba.
Era un uomo dalla testa rasata che danzava volteggiando al ritmo lento dei tamburi, aveva il volto contratto in una smorfia, gli occhi spiritati e uno strano ghigno: la sua era un’espressione di felicità mista ad ira. La gente gli offriva dei katak e le sue spalle ne erano già ricoperte. Dietro la sua schiena, legato ad un katak, era stretto un quadretto che raffigurava la divinità Amnye Mokri, quello che riuscii a scorgere fu l’immagine di un guerriero dal volto rosso. Gli uomini che lo accompagnavano si erano schierati tutt’intorno, suonavano e lanciavano grida di gioia, qualcuno di loro aveva in mano una bottiglia di bai jiu (grappa cinese) e ne versava un po’ in una tazza che veniva offerta ad Amnye Mokri e questo, mentre continuava la sua danza, ne beveva alcune sorsate. La cosa andò avanti per alcuni minuti, dopo di che il gruppo uscì per proseguire il suo giro intorno al paese entrando in ogni cortile.
“Ogni anno c’è un lhaba diverso o e sempre lo stesso?” Chiesi.
“Sempre lo stesso.”
“E’ un monaco?”
“No.”
Apprendo che il medium è un semplice abitante del villaggio come la gente che lo segue.
Un pomeriggio Pokhwa Gyap (un ngakpadel villaggio) mi invita da lui, sediamo nel cortile di casa al sole su degli sgabellini di legno e beviamo tè e sidro alla frutta. Mi offre un grosso pezzo di carne bollita, da tagliare col coltello e delle pere maturate al sole.
“Mangia sono buone, sono una specialità del posto.”
Ne addento una con un po’ di esitazione perché è maturata a tal punto da diventare scura e grinzosa…..è freddissima ma dolce e succosa.
In Tibet il freddo invernale viene mitigato durante il giorno dalla forte luce del sole e, imbacuccato come ero, avrei potuto star seduto lì delle ore. Mi avevano detto che a Rebkong era apparso Padmasambhava e uno di quei luoghi era proprio vicino a Jangkya.
Pokkhwa Gyap si offre di portarmici, rimango ancora un po’ seduto a parlare con lui, la moglie e le bambine: la più grande conosce qualche parola d’inglese ma è molto timida e parla poco. Dopo un po’ usciamo e ci incamminiamo per una ripida stradina che si inoltra tra le case e scende alla sponda del Guchu, poco lontano. Il fiume è in gran parte ghiacciato e lo passiamo facilmente, Pokhwa Gyap è molto premuroso e mi sostiene durante tutto il percorso, poggia sempre per primo i piedi sul ghiaccio per assicurarsi che non ceda e poi mi invita a camminare seguendo le sue “orme sicure”. Oltre il fiume attraversiamo dei campi brulli e polverosi che di lì a poco sarebbero stati coltivati e arriviamo a una strada cosparsa di sassi che sale verso nord.
“E’ là”.
Di fronte a noi, sul ciglio della strada, Pokkhwa Gyap mi indica una grande masso con una forma strana. Avvicinatosi di più alla pietra si inginocchia tre volte toccando con la fronte il terreno e io mi inginocchio dopo di lui.
L’impronta del corpo del demone è impressa nella roccia.
“Questa è la testa……” dice cercando di farmi capire e poi simula la posizione mettendosi sdraiato su un fianco.
Qui infatti Guru Padmasambhava uccise una feroce sinmo che vagava in questa parte della valle. Rimaniamo un po’ di tempo seduti vicino alla pietra a parlare. Gli chiedo se ha terminato il ngöndro, le pratiche preliminari del Vajrayana, e lui mi dice che le ha completate due volte. Gli domando quale lignaggio Nyingmapa segua e lui risponde che ha ricevuto le trasmissioni sia del lignaggio di Mindröling che di quello del Longchen Nyingthig.
Restiamo per un po’ fermi in silenzio a osservare il panorama e ad ascoltare il sibilo del vento….poi ritorniamo sui nostri passi in direzione di Jangkya.
Stiamo percorrendo una strada nuova, come mi è già capitato di vedere in Tibet, lungo le strade che salgono all’interno di strette gole, ampie zone della valle sono state sommerse e sono state costruite dighe per la produzione di energia elettrica. In questa zona il Fiume Giallo è diventato lago che si estende tra le montagne, limpido, calmo e profondo.
“Pensi che questo cambiamento abbia portato dei miglioramenti o dei peggioramenti?” chiedo a Xiao Ma, l’autista hui che mi sta portando a Rebkong.
“Dei miglioramenti. La gente del posto dispone di più energia elettrica a un costo più basso.”
“Tutta quest’acqua non influenzerà negativamente l’agricoltura e l’ambiente?”
“No, con più acqua la zona è diventata più umida e questo compensa la siccità favorendo le coltivazioni.”
Forse è vero che ci sono stati dei miglioramenti ma le frane, le sempre più frequenti inondazioni nella Cina continentale, le precipitazioni anomale, i tifoni e altre calamità mi fanno pensare che la visione di Ma, come quella della maggior parte delle persone, sia solo a breve termine e che non tenga conto della stretta relazione di interdipendenza che lega i vari fattori ambientali.
Al contrario i Tibetani hanno sempre dato molta importanza al rispetto della natura, il cui equilibrio non doveva mai essere alterato, in essa infatti dimorano delle entità invisibili, dei genii loci, la maggior parte dei quali non sempre amichevole. Essi infatti sono spesso infastiditi dall’atteggiamento prepotente e indiscriminato dell’uomo nei confronti della natura, che costituisce la loro ‘casa’, e possono reagire causando malattie e calamità naturali di vario genere. In questo contesto l’uomo non è padrone ma ‘ospite’ e come tale deve comportarsi secondo delle norme ben precise di ‘convivenza pacifica’.
Queste entità possono essere suddivise (secondo una classificazione più semplice) in lha, nyan e lu. Secondo Trungpa Rinpoche i lha dimorano sulle vette delle montagne innevate, nel punto dove la terra è più vicina al cielo e dove per prima batte la luce del sole quando sorge.
Gli nyan abitano invece lo spazio intermedio: i versanti delle montagne con le loro rocce e le loro foreste e la superficie della terra con le sue pianure e distese erbose.
I lu hanno come casa gli oceani, i fiumi, i grandi laghi: tutto il regno dell’acqua e del sottosuolo. Tagliare alberi, rimuovere pietre sacre e scavare i fianchi delle montagne o il suolo, inquinare le risorse idriche, deviare il corso dei fiumi con degli argini o drenare l’acqua per mezzo di canali, compiere lavori in muratura o costruire edifici in genere, ecc. causano la vendetta di questi e di molti altri esseri non umani. Oggi in Tibet come nel resto della Cina stanno avvenendo molti lavori di modernizzazione che, in un’ottica a breve termine, sicuramente, in una certa misura, porteranno alcuni benefici ma, in questa selvaggia corsa allo sviluppo, si sta tenendo poco conto dell’impatto che tutto questo sta avendo sull’ambiente e delle relative conseguenze. Oggi la maggior parte delle persone non crede all’esistenza di queste entità e pensa che siano solo frutto della fantasia dei tibetani ma che queste ci credano o no, si troveranno poi a subirne le conseguenze.
Nel regno domato dall’ineguagliabile Buddha Shakyamuni, a nord del Trono Adamantino dell’ India, al centro del continente meridionale di Jambudvipa, si trova la Valle d’Oro di Rebkong dove Jetsun Kalden Gyamtso, “Fortunato Oceano”, un’emanazione del sublime Avalokiteshvara, ha beneficiato innumerevoli esseri. A ovest si trovano le Terre Pure di U e Tsang dove il Buddha Amitabha e Padmapani si sono emanati come i Vittoriosi dalle vesti color zafferano Padre e Figlio.
A nord, in Dome, si trova la montagna Tsongkha Kyeri, il luogo di nascita del Secondo Buddha, il grande Tsongkhapa, che regna supremo sui tre mondi. Ci sono molti villaggi della Valle d’Oro di Rebkong, e gli abitanti sono intelligenti, coraggiosi e abili nelle scienze dell’arte religiosa, la medicina, e l’astrologia. Tutti provano gioia nel praticare il Dharma.1
Shabkar Tsokdruk Rangdröl
Rebkong (cin. Tongren) si trova nella provincia del Qinghai, in quella zona che di solito i tibetani chiamano Tshongön2 e i mongoli Kökönor. Tutti questi termini vogliono dire “lago azzurro”, infatti in questa zona si trova il lago d’acqua salata più grande della Cina.
Nella letteratura tibetana Rebkong è chiamata la “Valle Dorata” per via delle Montagne Dorate e della Pietra Dorata presenti nella sua topografia.
E’ situata appena a sud del Fiume Giallo (tib. Machu),3 nella parte centrale dell’Amdo (Tibet nord-orientale), a sud di Tsongkha e per questo può essere definita “il cuore dell’Amdo”.
Anche se originariamente comprendeva un’area molto più estesa di quella attuale, oggi si trova a circa 185 km a sud di Xining ed è il capoluogo della Prefettura Tibetana Autonoma di Malho (cin. Huangnan).4
Nelle sue pianure e valli, vive gran parte della popolazione di questa regione. E’ abitata per lo più da agricoltori ma ci sono anche alcune comunità di nomadi sugli alti pascoli ai margini delle valli.
Anche qui, come in molte altre parti del Tibet, è presente la duplice economia agricoltura-allevamento ma la prima è senza dubbio quella prevalente.
I suoi villaggi e monasteri punteggiano la fertile e sinuosa valle del Guchu, ricca di campi coltivati e sottili alberi da frutta, che si estende per alcuni chilometri collegandosi a valli più piccole.
Il fiume Guchu l’attraversa da sud a nord passando per Dzongmar, Dardzang, Jangkya, Rongwo, Nyenthok, Gomar, Tokya5 e sfocia poi nel Fiume Giallo a ovest di Jentsa. “Guchu”6 in tibetano significa “nove fiumi” perché le sue acque sono formate dai nove torrenti che affluiscono da nove valli adiacenti. Sulle montagne intorno e nelle valli che si diramano tutto intorno si trovano molti altri villaggi tra cui quelli di Shohong, Gyalwo Gang, Chuja, Changlung, Kude,7 ecc.
A Rebkong sono state costruite anche alcune fabbriche: una di queste è la grande fonderia di alluminio di Tokya che inquina pesantemente questa parte della valle.
La via più veloce per raggiungere Rebkong è quella che da Xining percorre un tratto dell’autostrada Lanzhou-Xining per poi dirigersi verso sud su una strada che, a ridosso di ripide montagne rosse e ocra sfumate di grigio, costeggia in alcuni tratti il Fiume Giallo. Qui le acque del fiume sono limpide e cristalline e non hanno ancora assunto quel colore ‘giallo’ che di solito le caratterizza. D’estate le montagne sono ricoperte da un sottile strato d’erba verde chiaro che d’inverno si secca dando alla zona un aspetto abbastanza arido e brullo.
Quella che si percorre oggi è la strada nuova, finita di costruire solo poco tempo fa.
La vecchia strada si trova ancora qualche decina di metri più in basso e sta per essere allagata.
Già sono state allagate vaste aree delle valli sottostanti e sono state create dighe allo scopo di produrre energia idro-elettrica come in molti altri posti del Tibet (Vedi I Lha, gli Nyen e i Lu).
In questa zona il Fiume Giallo ha l’aspetto di un placido lago verde-azzurro che si estende tra le montagne. Pochi chilometri a ovest di Jentsa lo si attraversa e si imbocca la strada che porta fino a Rongwo risalendo il corso del Guchu e dopo alcuni chilometri si entra nella bassa valle del Guchu all’altezza di Tokya dove in lontananza, a ridosso delle montagne, si scorge la città di Rongwo.
Un’altra via per raggiungere Rebkong è da Labrang cittadina nei pressi dell’alto corso del fiume Sangchu a circa un centinaio di km a sud-est di Rebkong. La contea di Labrang (cin. Xiahe) si trova nella Prefettura Autonoma Tibetana di Gannan, nella provincia del Gansu, ed è il nodo dove convergono tutte le strade provenienti dall’Amdo sud-orientale: da Jigdril,8 nel Golok meridionale, da Ngawa, Dzoge, Machu e Luchu,9 prima di arrivare a Lanzhou o Xining. Dopo essere passata per le praterie di Gangya, nell’ultimo tratto questa strada attraversa l’area di Shohong e passa per una gola chiusa tra montagne rosse dalle pareti scoscese che a causa dell’erosione hanno assunto strane forme levigate, simili a quelle di un canyon.
La città di Rongwo
Rongwo si trova al centro della valle ed è il centro abitato più grande nonché sede centrale dell’amministrazione di Rebkong e di tutta la Prefettura di Huangnan. E’ una moderna e tranquilla cittadina di provincia in stile cinese, con i soliti edifici a più piani di mattoni rivestiti di piastrelline bianche o di intonaco cementizio grigio che le conferiscono un aspetto trasandato e fatiscente. Grandi ideogrammi cinesi spiccano a colori vivaci sulle finestre dai vetri sottili e sulle insegne dei negozi, a volte accanto a scritte in tibetano.
Durante le festività più importanti, soprattutto nel periodo del capodanno, lungo le vie principali c’è sempre una frenetica attività commerciale perché i contadini dei villaggi circostanti e i nomadi dei pascoli più remoti si riversano in città per assistere alle celebrazioni e per comprare o scambiare gli alimenti e le merci di cui hanno bisogno.
Come in tutta questa zona, a Rongwo convivono molte etnie differenti, i cui rapporti, almeno in passato, non sono sempre stati armoniosi: i cinesi han, i tibetani e i musulmani hui e salar.10
Anche se per le strade sembrano esserci quasi esclusivamente tibetani e alcuni musulmani, in realtà i cinesi costituiscono la maggioranza e occupano quasi tutti i posti di rilievo negli uffici e nell’amministrazione. Questo perché molti tibetani abitano nei villaggi vicini e vengono in città solo per lavorare, divertirsi o fare compere, per poi tornare a casa la sera.
I musulmani hanno in mano buona parte delle attività economiche: si occupano soprattutto della macellazione degli animali e della vendita della carne, gestiscono piccoli ristoranti e zahuodian, negozi in cui si trova praticamente di tutto, dagli alimenti agli articoli di ferramenta e di merceria.
L’attività dei tibetani consiste invece per lo più nella vendita di monili e gioielli, pietre ornamentali anche preziose come i coralli, artigianato a carattere religioso (statue, thangkha,11 ecc.) e inoltre nella vendita di stoffe, feltri, cappelli, tappeti e chuba, i vestiti tradizionali con le maniche molto lunghe di feltro o pelle, a volte imbottiti di pelo.
Spesso sono occupati anche nella gestione di ristorantini, che sono dei veri e propri punti di aggregazione. Qui infatti i visitatori occasionali trascorrono molto tempo guardando i video dei cantanti locali e sorseggiando tazze di tè fumanti.
Per via della modernizzazione apportata dai cinesi, oggi Rongwo è una moderna cittadina di provincia con strade rettilinee che si intersecano ad angolo retto, a differenza della maggior parte dei nuovi insediamenti, caratterizzati da una impostazione lineare (abitazioni costruite lungo un’unica strada principale). Le vecchie case di argilla e paglia che costituivano l’antico villaggio sono ancora visibili nei pressi del monastero Rongwo Gönchen.
Rongwo Gönchen oggi è situato nella parte sud, sul lato destro della strada che attraversa la città e prosegue in direzione di Tsekok. Originariamente era un monastero Sakyapa.
Il primo complesso degli edifici fu costruito nel 1301 dal maestro Sakyapa Samten Rinchen, nipote di un emissario di Drögon Chögyal Phakpa.12 Verrà ricostruito pochi secoli dopo da Shar Kalden Gyatso13che lo farà diventare un monastero Gelugpa.
Rongwo Gönchen è il più importante monastero di Rebkong14 e può essere considerato il terzo monastero Gelugpa più importante dell’Amdo. E’ composto di nove padiglioni e attualmente conta circa quattrocento monaci. Durante la rivoluzione culturale gran parte del monastero fu distrutta e oggi molti padiglioni sono stati ricostruiti usando materiali nuovi. Solo i vecchi edifici conservano lo stile tradizionale in muratura. Alcuni lavori di ristrutturazione sono ancora in corso, come ad esempio quelli lungo certi tratti della khora, la strada che gira intorno al perimetro del monastero percorsa dai fedeli durante la circoambulazione rituale.15
Mentre le ristrutturazioni esterne sono state fatte in modo abbastanza grossolano, all’interno i padiglioni sono stati ristrutturati magnificamente: le sale sono state adornate con statue e pitture murali di nuova fattura ma dal grande valore artistico. Rebkong è infatti conosciuta per i suoi artisti, in particolare per la straordinaria bravura dei suoi pittori, famosi in tutto il Tibet, al punto che a molti di questi vengono commissionati lavori anche nei monasteri di altre zone e rimane ancora oggi un importante centro di formazione artistica.
L’ottava manifestazione del Rongwo Kyabgön Shartsang, il lama principale, ha oggi poco più di vent’anni, conosce perfettamente sia il tibetano che il cinese e ha fama di avere grande compassione e saggezza.
La sua immagine compare un po’ dappertutto a Rebkong, nei negozi, nelle case private della gente, nei monasteri Gelugpa e nei santuari dei ngakpa (ngakkhang) disseminati nella valle e in cima alle montagne.
Tutti a Rebkong riconoscono la sua autorità, indipendentemente dalla tradizione religiosa a cui appartengono.
Agli inizi del XVIII venne fondato Labrang Tashikyil16 nell’alta valle del Sangchu, tra le praterie di Sangke e Gangya. Il nuovo monastero diventò presto il centro di formazione di geshe mongoli e buriati. La sua fama crebbe enormemente e con essa, la sua sfera di influenza che si estese sempre di più.
Probabilmente fu allora che Rongwo Gönchen e Labrang Tashikyil entrarono in competizione per il controllo delle aree circostanti, dando inizio a quella rivalità che ho percepito, ancora oggi, nella mentalità della gente e che è all’origine di molte storie strane che mi hanno raccontato sia a Labrang e sia a Rebkong.17
Casa di un villaggio lungo la strada di Gyawo Chuja (foto di Andrea Casetti).
I villaggi
I villaggi di Rebkong si trovano sia a valle che sui pendii e le cime delle alture che circondano Rongwo e sono costituiti da poche decine di case raggruppate e collegate fra loro da viottoli sterrati.
Quasi ogni villaggio ha un santuario (tib. lhakhang) dove, in alcuni giorni del calendario tibetano, i ngakpa svolgono cerimonie e partecipano alle pratiche collettive a cui sono presenti praticamente tutti gli abitanti. Questo è il centro della vita sociale e religiosa: la gente, infatti, non solo si raduna qui per le cerimonie o per fare le circoambulazioni ma si incontra anche all’interno del cortile o fuori dall’ingresso per conversare amichevolmente. A fare questo sono soprattutto gli anziani che di tanto in tanto interrompono il loro bisbigliare mantra per scambiarsi qualche parola, continuando però a strofinare la mala tra pollice e indice.
Il santuario ha generalmente l’ingresso che si affaccia in un piccolo cortile da dove si accede alla sala vera e propria. Il tetto è a volte leggermente spiovente e rivestito di tegole secondo lo stile architettonico tradizionale dell’Amdo che, soprattutto negli edifici religiosi, risente molto spesso degli influssi di quello tradizionale cinese.
In un villaggio di ngakpa il santuario è chiamato ngakkhang che letteralmente si traduce come “stanza o casa dei ngakpa” ma che definisce il padiglione delle pratiche tantriche.
Ci sono poi anche i manikhang, edifici che solitamente contengono una o più grandi ruote di preghiera le cui dimensioni possono variare da quelle di una piccola cella a quelle di un comune santuario.18Le abitazioni tradizionali sono fatte di un impasto essiccato di argilla mista a paglia che le rende resistenti al freddo e alle intemperie e sono sorrette all’interno da pilastri e travi di legno.19All’interno le pareti e il pavimento di alcuni dei locali, tra cui la cucina, sono interamente rivestiti di legno, altri semplicemente di intonaco, piastrelle o cemento crudo. La porta d’ingresso dà in un cortile intorno a cui sono disposte a ferro di cavallo le varie stanze. Ad alcune di queste si accede dall’interno, mentre ad altre direttamente dal cortile.20
Nelle case non c’è acqua corrente e a valle, nei villaggi più bassi, questa viene raccolta da pozzi o pompata in superficie per mezzo di impianti idrici rudimentali. Quando un villaggio si trova in alto o in montagna l’acqua viene raccolta direttamente dalla sorgente con grandi taniche di plastica. Questo lavoro spetta quasi esclusivamente alle donne che spesso percorrono lunghi e faticosi tragitti portando pesanti carichi sulla schiena. L’acqua viene poi portata dal pozzo o dalla sorgente all’interno delle case dove viene conservata in grandi contenitori di terracotta o di altri materiali. E’ considerata preziosa e se ne fa quindi un uso molto parsimonioso.
Le strade e i sentieri che portano ai villaggi più alti sono sterrati e difficilmente percorribili, attraversano piccoli torrenti e salgono curvandosi lungo i pendii, verso le cime dei monti. La gente di solito le percorre con le moto che sono diventate ormai i nuovi cavalli del Tibet, o con dei piccoli trattori ma c’è ancora chi le percorre a piedi o a dorso di mulo.La scuola di un villaggio nei pressi di Gönlaka è l’unica nella zona e i bambini ci arrivano a piedi dai villaggi circostanti e poiché alcuni di loro devono camminare per ore, le lezioni cominciano nel primo pomeriggio.
A Rebkong l’economia è prettamente agricola e i prodotti più coltivati sono l’orzo, il grano, la senape e le patate, mentre dagli alberi vengono raccolte anche delle pere e delle piccole mele. Durante l’inverno, le pere vengono consumate dopo essere state per lungo tempo esposte al sole. La buccia e la polpa di questi frutti viene fatta maturare a tal punto da assumere un colore marrone scuro ma il clima freddo fa sì che il frutto si conservi senza andare a male.
Anche qui la maggiore fonte di guadagno è costituita dalla vendita del Cordiceps sinensis.
Ecco grosso modo come si articola la vita di un contadino della zona nell’arco di un anno stando a quanto mi è stato riferito dal ngakpa Shawo Tsering di Gyawo Chuja e da alcuni abitanti del villaggio di Jangkya:
1) Verso la metà del secondo mese del calendario tibetano avviene la semina.
2) Nel periodo che va dalla metà del terzo alla metà del quarto mese molti si spostano verso sud piantando le tende sui pascoli dei nomadi di Tsekok e Sokwo per la raccolta dello Cordiceps sinensis.
3) L’ottavo mese vengono raccolti i prodotti della terra.21
Jangkya
Dalla città la strada sale verso sud, si lascia alle spalle il grande monastero e la scuola superiore Minshi22 e dopo alcuni chilometri si insinua tra le montagne più vicine.
Per un po’ disegna una fila di curve poi torna di nuovo rettilinea e continua per altri chilometri risalendo il corso del Guchu che ora scorre a sinistra, poco più in là.
Rongwo è ormai scomparsa dietro le montagne e l’impressione è quella di trovarsi in un altra valle più piccola, stretta e lunga. Infatti la particolare disposizione delle montagne crea un’illusione ottica per cui la stessa valle, a seconda delle diverse prospettive, sembra frantumarsi in tante altre piccole valli. A destra appare un chörten bianco e la strada passa sotto un arco improvvisato su cui sventolano bandiere del lungta23 dai cinque colori: siamo prossimi al villaggio di Jangkya. Spesso in Tibet, lungo le vie che conducono ai villaggi, vengono costruiti chörten e issate le bandiere con il lungta o con altre preghiere, mantra e invocazioni e la loro funzione è quella di proteggere e garantire la prosperità del luogo.
In Tibet ogni zona, ogni piccolo paese ha un “signore del luogo”, uno spirito che solitamente è una divinità guerriera associata ad una particolare montagna.24
Jangkya è il primo villaggio che si incontra lungo la strada. Le sue poche abitazioni d’argilla scendono dolcemente verso il Guchu dai piedi del monte Amnye Mokri. Amnye Mokri è il signore del luogo, la divinità tutelare di Jangkya, un cavaliere dal volto rosso con l’elmo e le armi dei guerrieri. Il suo “supporto”, o labtse,25 si trova sulla cima della montagna che sovrasta il villaggio. Qui ogni anno, nei primi giorni del primo mese del calendario tibetano, Amnye Mokri discende nel corpo del lhaba,26 una sorta di medium popolare, un uomo del villaggio adatto a ospitare la divinità, che parla tramite lui.27 In quei giorni la gente del villaggio si riunisce nel ngakkang dove il lhaba dà responsi e previsioni sul futuro (Vedi Incontro con Amnye Mokri)28
Il ngakkhang di Jangkya si trova su un lato dell’unica strada asfaltata, vicino alla scuola ed è un basso padiglione a cui si accede salendo pochi gradini, circondato da alcune ruote di preghiera. All’interno del santuario il pavimento è fatto di assi di legno e sulle pareti sono affisse pitture e thangkha, la maggior parte delle quali è recente. Ne rimangono solo alcune antiche, sfuggite ai saccheggi e alle distruzioni degli anni Sessanta perché nascoste sul monte Amnye Mokri.29
La tradizione vuole che, nei pressi di questo villaggio, Guru Padmasambhava uccise una sinmo,30 uno dei tanti demoni ed entità malefiche che dimoravano in queste terre.31 Un masso sull’altra riva del Guchu dalla strana forma concava, testimonia questo scontro. Qui, infatti, è ancora impressa l’impronta del corpo del demone.32
A Jangkya dovrebbero esserci alcune decine di ngakpa ma io ne ho visti poco meno di dieci, di cui tre anziani.
Una delle famiglie più prestigiose del villaggio è quella di Tapagya. Come suo padre, Tapagya è un ngakpa.33La sua è una famiglia di ngakpa da almeno sette generazioni e per questo è una delle più prestigiose del villaggio.
Villaggio di Chanlung, Rebkong
Changlung
Da Jangkya si attraversa il fiume e si continua a salire verso est, lungo una stradina che si inerpica sull’altro lato della valle. A un certo punto si incontrano alcune case su un pendio terrazzato: il villaggio di Changlung (nel dialetto locale Shyanglung). Sul monte che lo sovrasta si trova l’eremitaggio dove Palchen Namkha Jigme trascorse lunghi periodi in ritiro, dedicandosi alla pratica del thögal34 ed ebbe molte visioni di divinità e di esseri realizzati tra cui e lo stesso Guru Padmasambhava e il dharmapāla Rāhula.35
Gyawo Chuja
E’ nascosto dalla cima di Gyawo Gang sul lato est della valle del Guchu e la sua sagoma si scorge appena dal Rongwo Gönchen. La strada che vi giunge penetra in una stretta gola dove scorre un piccolo torrente, sulla parete di roccia a sinistra e su alcuni massi caduti sono visibili delle macchie color ruggine. Secondo la tradizione popolare, Guru Padmasambhava uccise qui un’altra sinmo scagliandole contro il suo dorje. Il sangue della demonessa si riversò un po’ ovunque sulle pietre e il suo corpo prese fuoco. Rimangono ancora alcuni frammenti scuri incastonati nella roccia che si dice siano i resti carbonizzati della sinmo.36
La strada riprende a salire per i tornanti della montagna e dopo un po’ di tempo, davanti agli occhi comincia a comparire Gyawo Chuja.
Villaggio di Chuja, Rebkong
Le case del villaggio sono aggrappate al pendio o sparpagliate tutto intorno circondate dai campi a terrazza. Qui, nonostante l’altitudine sia maggiore rispetto a Rongwo, le montagne sembrano delle piccole colline dai contorni lievi.
In questa zona ci sono sette villaggi di ngakpa e tutti sono preceduti dalla parola Gyawo (Gyawo Chuja, Gyawo Gang, ecc.), Gyawo Chuja è tra questi quello più importante. “Gyawo”37 in tibetano vuol dire re e infatti una leggenda narra che in questa zona visse l’antico re dell’Amdo.
La gente del luogo tramanda diverse storie di personaggi dai poteri straordinari. Qui vissero famosi mahāsiddha come Drubchen Nyimai Khorlo, Kawa Metok Charbep, Achag Yama Mebud. Si dice che un giorno i tre si incontrarono e pensarono si preparare il tè ma non avevano il fuoco. Subito Achag Yama Mebud fece scaturire magicamente il fuoco da alcune pietre. A quel punto un altro disse che avevano il fuoco ma non avevano l’acqua. Kawa Metok Charbep fece cadere la pioggia ma il sole stava tramontando e i tre yogi avrebbero dovuto continuare a bere il tè nell’oscurità, così Drubchen Nyimai Khorlo fermò il sole, inchiodandolo con il suo phurba sul terreno.38
Gyawo Chuja è il villaggio dove nacque lo yogi Rigdzin Palden Tashi, considerato dai suoi discepoli il re della tradizione dei ngakpa Nyingmapa: “Alak Gyawo”.
Gli spiriti della montagna del luogi sono Taklung Lhagöd Thuchen e Jomo Menmo, sua consorte.
Un giorno un antenato di Rigdzin Palden Tashi conosciuto con il nome di Namkha Gyaltsen, andato a raccogliere delle erbe medicinali sulla montagna, provocò queste entità che reagirono scagliandogli contro dei fulmini. Namkha Gyaltsen li raccolse prontamente con il lembo del vestito dopodiché fece scivolare i frammenti di ferro incandescenti che erano rimasti su una pietra che stava lì accanto e questa si dissolse. Vicino al villaggio, a Khandro Drora, il posto delle dākinī danzanti, si trova la caverna di Taklung Shelgi Riwo dove si dice che un famoso yogi abbia raggiunto il corpo di arcobaleno.39
Attualmente Gyawo Chuja conta circa una cinquantina di ngakpa, il più anziano dei quali ha passato i novant’anni. Nella parte alta del villaggio vicino alla casa del ngakpa più anziano si trova un ngakkhang e un manikhang. Il ngakkhang, Rigdzin Ramphel Ling, è una piccola costruzione quadrata di argilla essiccata e legno, dai muri tinti di bianco e il tetto ricoperto di tegole grigie che, in pessime condizioni fino a poco tempo fa, è stato di recente restaurato. Ai tempi di Rigdzin Palden Thashi esisteva già un ngakkhang più piccolo che lui ha poi ampliato e rinnovato.40
Cortile interno del Rigdzin Rangphel Ling, ngakkhang di Chuja
Da Rongwo si segue il corso del Guchu verso nord e giunti all’altezza di Tokya si prosegue per Labrang. Dopo alcuni chilometri si entra in una gola. Tutto intorno le montagne dai contorni ondulati, che facevano da scenario al fiume Guchu, diventano alti picchi levigati. Gli agenti atmosferici sembrano aver modellato la roccia dando a queste cime dalle varie tonalità di rosso, delle forme bizzarre. Questa è la terra di Shohong famosa per i suoi “ngakpa dal puro samaya e dall’irremovibile fede nel Mantra Segreto della Tradizione Antica”,42 terra che ha dato i natali a grandi personaggi il cui ricordo rimane nel cuore di tutti i suoi abitanti: lo yogi Shabkar Tsokdruk Rangdröl (1781-1851) da molti considerato una manifestazione di Jetsun Milarepa e Gendun Chöpel (1903-1951), uno dei più grandi scrittori tibetani del secolo scorso, figlio di Ngakchang Dorje Namgyal (1888-1908), la quarta manifestazione di Alak Gyawo.
Qui a valle dove scorre un piccolo torrente e sui versanti dove si ode il sibilio del vento sono dislocati otto villaggi43 e si erge Yama Tashikyil, dove meditarono Shar Kalden Gyatso, Shabkar Tsokdruk Rangdröl, Pema Rangdröl e molti altri maestri.
La montagna Amnye JadrönShohong Nyengya, Rebkong
Ai piedi della montagna sacra Amnye Jadrön c’è Nyangya:44 il villaggio di Shabkar che nella sua autobiografia lo descrive così:
Nelle vicinanze si trovano gli Otto Luoghi dei Realizzati di Rebkong e molti luoghi sacri dove una volta aveva praticato Lord Kalden Gyatso. Il più eminente di questi luoghi sacri è Shohong Lakha , il palazzo reale di Chakrasamvara, situato nei pressi del tempio di Chuchik Shel.
Entrambi contadini e nomadi vivono in questa terra di rupi, foreste e prati fioriti. Qui, seguendo la pratica di Chakrasamvara e Vajrayogini, il grande praticante tantrico conosciuto come Kawa Dorje Chang Wang, che era venuto dall’Orientale Kathok, ha raggiunto il corpo vajra di arcobaleno in una singola vita.
In questa regione, dieci villaggi di varie dimensioni sono sparsi in tutte le direzioni. Tra questi c’è Nyengya, un villaggio ai piedi della dimora montana della divinità locale Jadrön. Questa è la mia terra.45
Le abitazioni di Nyangya sono costruite su un dolce pendio terrazzato che sovrasta un’ampia vallata. La massiccia cima piatta di Amnye Jadrön si eleva in questo paesaggio colorato e la sua vista mi richiama alla mente antichi potenti re.
Sulla parete perpendicolare di questa montagna c’è una grotta dove Shabkar si ritirò in meditazione e dove altri hanno meditato dopo di lui. Sotto la stata c’è un altra cella dove oggi, di tanto in tanto, monaci e ngakpa vengono a meditare.
Vicino il muro di cinta di una delle case al limitare del villaggio, sorge uno stūpa ricoperto di piastrelle bianche che conserva la statua di uno yogi in una nicchia della parte superiore. Questo era il luogo dove prima si trovava la casa della famiglia di Shabkar e dove lui nacque.
Ngakkhang dove studiò il giovane ShabkarNgakkhang dove studiò il giovane Shabkar
Poco lontano da Nyangya la strada scende percorrendo una stretta gola punteggiata qua e là da alberi dal fusto sottile dove si ode il gorgoglio di un piccolo torrente. Si cammina per un po’ lungo il corso dell’acqua e poi si sale verso una piccola altura dove si vede una costruzione di modeste dimensioni situata in una posizione isolata. Questo è il ngakkhang dove Shabkar cominciò a studiare il Dharma.
L’edificio è stato ristrutturato da poco usando materiali nuovi più resistenti: i muri di argilla e paglia sono stati rimpiazzati da muri di mattoni e in alcuni punti della struttura è stato impiegato anche del cemento. All’interno le travi e le colonne portanti sono state rinnovate di recente ma molte devono ancora essere ridipinte. Al secondo piano dell’edificio, lungo uno stretto e scricchiolante ballatoio, c’è una statua di Shabkar e due piccoli stūpa di metallo disposti ai due angoli. Quello di destra dovrebbe contenere alcuni resti del grande yogi di Nyengya.46 Da circa un anno un giovane ngakpa è in ritiro in questo ngakkhang.
Statua di Shabkar Tsokdruk Rangdröl all’interno del ngakkhang
1 Within the realm tamed by the peerless Buddha Shakyamuni, north of the Diamond Throne of India, the center of the southern continent of Jambudvipa, lies the Golden Valley of Rekong where Jetsun Kalden Gyatso, “Fortunate Ocean”, an emanation of the sublime Avalokiteshvara, benefited countless beings. To the west lie the Pure Realms of U and Tsang where the Buddhas Amitabha and Padmapani emanated as the saffron-clad Victorious Ones-Father and Son.
To the north, in Domey, stands the mountain Tsongkha Kyeri, the birthplace of the Second Buddha, the great Tsongkhapa, who reigns supreme over the three worlds. There are many villages of the Golden Valley of Rekong, and the inhabitants are intelligent, courageous, and skilled in the sciences of religious art, medicine, and astrology. All take delight in practicing the Dharma.
Cfr. Shabkar Tsokdruk Rangdröl. Ricard 1994, op. cit., p. 15. Traduzione dall’inglese di Andrea Casetti.
4 La Prefettura di Huangnan è costituita da quattro distretti (cin. xian): Jentsa (cin. Jianzha), Rebkong (cin. Tongren) , Tsekok (cin. Zeku) e Sokwo (cin. Henan). Jentsa ha una popolazione di 49158 abitanti in un area di 1601 kmq; Rebkong ha una popolazione di 75038 abitanti in un area di 3353 kmq; Tsekok ha una popolazione di 53249 abitanti in un area di 6858 kmq. La Contea Autonoma dei Mongoli di Sokwo (Henan Menggu Zizhi Xian) si trova poche decine di chilometri a sud-est di Tsekok e conta 30134 abitanti. Come a Tsekok, anche qui gli abitanti sono nomadi. La maggior parte della popolazione è di etnia mongola ma ormai quasi del tutto assimilata ai tibetani dell’Amdo.
Hanno però conservato alcuni caratteristiche peculiari dei mongoli: la tenda circolare ger e vestiti e gioielli, leggermente diversi. Quasi tutti parlano tibetano e pochi hanno preservato il mongolo. Comunicazione orale Nyida Chenagtsang (Roma, 2005). Cfr. Gyurme Dorje, Tibet , Footprint (terza edizione), pp. 599, 604, 610, 613.
Secondo alcuni tibetani, anticamente il nome Rebkong si riferiva a tutta quella che è oggi la prefettura di Huangnan, comprendendo quindi anche Jentsa (gCan tsha) e Tsekok (rTse khog) e Sokwo (Sog bo) e includendo anche l’area di Trika. Così mi è stato riferito da Hungchen Cenagtsang e da più di una persona del posto (Xining, Rebkong, 2006).Il distretto di Rebkong oggi è diviso in undici contrade (xiang). Tre di queste sono abitate da nomadi mentre la altre otto da agricoltori. Comunicazione di un insegnante di Jangkya confermatami poi da altri locali.
5sCang skya; Rong bo; Nyan thog; sGo dmar; Tho rgya.
9mZod dge; kLu chu. Ad eccezione di Ngawa sono tutte zone di nomadi.
10 Cfr. Berzin A. “Historical Sketch of the Muslim in China”, 4 – 1995. www.berzinarchives.com .
11 Pitture su tela raffiguranti divinità, mandala, grandi maestri, ecc. Possono essere anche composte con vari pezzi di seta colorata. Le tangkha di Rebkong sono molto famose in Tibet.
12Drogön Chögyal Phakpa (1235-1280) era il precettore imperiale di Qubilai Qan e con il suo appoggio dominò su vaste aree del Tibet. Il suo potere giunse fino nel Kham e nell’Amdo sfidando le confederazioni tribali e i regni orientali che godevano di una certa indipendenza. In Tibet sotto il protettorato mongolo, nonostante il potere nominale fosse nelle mani dei qan, quello effettivo era nelle mani dei Sakyapa. Cfr Cornu P. 2003, op. cit.; Davenport J. T., Ordinary Wisdom, Sakya Pandita’s Treasury of Good Advice, Boston: Wisdom Publication 2000, pp. 1-4.
13 Jetsun Kalden Gyatso o Drupchen Kalden Gyatso (1607-77), Rje btsun sKal ldan rgya mtso o Grub chen sKal ldan rGya mtso. Un grande maestro considerato un’emanazione di Śāripūtra, autore di bellissime poesie e canti di realizzazione e il suo stile di vita e i suoi insegnamenti influenzarono molto quelli di Shabkar Tsokdruk Rangdröl e di altri maestri di Rebkong. Era conosciuto come Kalden Repa (sKal ldan Ras pa) e Kachu Rinpoche (bKa’ bcu Rin po che). Nel 1648 fondò il centro di ritiro di Thashikyil (bkra shis ‘khyil sgrub sde). Il suo maestro Chöpa Rinpoche Lobzang Tenpai Gyaltsen (1581-1659), Chos pa Rinpo che bLo bzang bsTan pa’i rGyal mtshan, fu un’altro famoso eremita. Cfr. Ricard 1994, op. cit., pp. 21-22.
14Vedi ‘Jigs med Theg mchog, Rong bo don chen gyi gdan rabs rdzogs ldan gtam gyi rang sgra zhes bya ba bzhugs so, Qinghai: Mi rigs dpe skrun khang 1988.
15 Lungo la khora stanno restaurando le file di ‘ruote di preghiera’ che vi sono affisse. Queste sono dei rulli di varie dimensioni con all’interno scritture e mantra che vengono fatte girare dai fedeli e sono solitamente chiamate Mani-khorlo (nel Bön, matru-khorlo, infatti in questa tradizione il mantra più usato non è il “Mani”: Om Mani Padme Hum ma è, come lo chiamano i fedeli, il “Matri”: Om Matri Muye Sale Du/ Om Ma Tri Mu Ye Sa Le ‘Du ). Cfr. Stein R. A., op. cit., p. 211.
16Labrang Tashikyil (Bla brang bKra shis dkyil) è il monastero più potente dell’Amdo fondato nel 1708-10 dal primo Jamyang Shepa, Ngawang Tsongdru (1648-1722) sotto il patronato del principe dei mongoli Qosot Wang Gyalpo Junang Tsewang Tendzin. Comunicazione orale di un anziano di Labrang. (Labrang, 2005). Cfr. Ricard 1994, op. cit., p.365-367; Cornu P. 2003, op. cit., p. 317.
17 Comunicazione orale di Nyida Chenagtsang, Hungchen Chenagtsang, di altri ngakpa di Rebkong e alcuni anziani di Labrang. (Roma, Xining, Rebkong, Labrang 2005-2006).
18 Non esiste una parola specifica in italiano che possa tradurre il termine tibetano lhakhang, che sarebbe una stanza o costruzione khang dove sono poste delle immagini o statue di divinità lha, lo stesso vale per manikhang che è una costruzione dove è posta una ruota di preghiera mani khorlo, o per ngakkhang, una costruzione dove si pratica il Tantra ngak o dove si riuniscono dei praticanti tantrici, ngakpa (il Dott. Nyida Chenagtsang usa il termine ngakpa house o “casa di ngakpa”). In tutti è tre i casi ho scelto come traduzione la parola santuario dall’inglese “shrine room” o “shrine hall” che, a mio parere, è più comunemente usato e facilmente comprensibile. Nei villaggi che ho visitato mi è sembrato che spesso i tibetani non fanno molte distinzioni tra lhakhang, ngakkhang e manikhang.
19 Un anziano del villaggio di Jongmang a Ngawa mi ha riferito che i muri esterni delle loro case devono essere rafforzati applicando del nuovo impasto ogni tre o quattro anni per evitare che la casa ceda. (Jongmang, 2006).
20 Questa è solo una descrizione generale, bisogna tener presente infatti che alcuni elementi, quali la disposizione dei locali, l’arredamento e i materiali usati per il rivestimento, possono variare a seconda delle zone, delle caratteristiche dell’ambiente e della situazione economica del villaggio o dei singoli proprietari. La tipologia dei villaggi e delle case dei contadini del nord dell’Amdo resta comunque più o meno la stessa.
21 Tutte queste informazioni mi sono state riferite dai ngakpa Shawo Tsering di Gyawo Chuja, e da alcuni abitanti del villaggio di Jangkya (Gyawo Chuja, Jangya, 2006).
23 Le bandiere del lungta o “cavallo di vento”, rituale che ha la funzione di trasferire dalla negatività alla positività, dalla sfortuna alla fortuna, tutto ciò che è basato sui cinque elementi. Sono di cinque colori e su ognuna di esse è raffigurato il cavallo di vento circondato da altri quattro animali: la tigre, la leone delle nevi, il garuda e il drago. Ogni animale è associato ad un elemento ed ogni elemento a un colore: cavallo-spazio, tigre-vento, leone-terra, garuda-fuoco, drago-acqua. Cfr. Namkhai Norbu 1996, op. cit., pp. 130-136.
24 Un entità non umana, se provocata può causare gravi calamità e malattie. Se invece viene onorata, questa entità può garantire prosperità alla zona, diventandone il protettore. Molto spesso il signore del luogo è associato ad una montagna ma dove non ci sono alture può essere anche una pianura, un albero, una pietra, ecc. Il signore del luogo molto spesso è una divinità mondana e i benefici che arreca sono parziali, limitati solo a questa vita. Infatti, nonostante sia molto potente, come gli altri esseri senzienti, è condizionato dalle emozioni negative e prigioniero del saṃsāra. Cfr. Stein R. A.1986, op. cit., pp. 174 -183.
25 I labtse (la btsas, la rdzas) sono dei grossi mucchi di pietre o altari in muratura su cui vengono conficcati bastoni e copie lignee delle armi degli antichi “dei guerrieri”, soprattutto frecce e lance. A questi bastoni vengono appese o avvolte le variopinte bandiere del lungta, batuffoli di lana bianca e katak. Gli altari possono essere sia a base circolare che a base quadrata. Vengono eretti solitamente sulle cime delle montagne o vicino ai passi montani. Sono anche chiamati pamkhar (dpa’ mkhar) “castelli di guerrieri” e costituiscono il ‘supporto’ per onorare le divinità del luogo. Cfr. Stein R. A. 1986, op. cit., p. 176.
29 Comunicazione orale di un abitante del villaggio (Janggya, 2006).
30Le sinmo (srin mo) o raksasi sono una potente classe di demoni femminili che mangiano carne umana. La sua versione maschile è chiamata sinpo (srin po) o raksasa. Ricard 1994, p. 672.
31 Qui a Rebkong si dice che Padmasambhava sia apparso in più luoghi e abbia sottomesso sinpo, sinmo e ogni sorta di esseri malvagi.
33 Diminutivo di Tamdringya (rTa mgrin rGyal) “Hayagriva il Vittorioso”. Tamdrin è il nome tibetano di Hayagriva. Gyal significa “vittorioso” e nel dialetto locale viene pronunciato gya. Nel lignaggio Nyingmapa la pratica di Hayagriva (uno degli Otto Heruka) è considerata molto importante e qui a Rebkong sono molti ad avere questo nome.
34 Thögal (thod rgal) la pratica più avanzata dello Dzogchen. Cfr. Ricard 1994, ivi., p 23.
35 Comunicazione orale di Ngakpa Wangdegya di Gyawo Gang (Khyung Gӧn, 2006).
Il “protettore del dharma” o dharmapāla (chökyong/chos skyong) è un entità che ha il compito di proteggere i praticanti e gli insegnamenti Vajrayāna e Dzogchen. Rāhula (Za/gZa) è una manifestazione di Vajrapāni che governa le forze planetarie ed è uno dei principali prottettori dei Nyingmapa e in particolare dell’insegnamento Dzogchen, insieme a Ekajaṭī e a Vajrasādhu o Dorje Legpa (tib. rdo rje legs pa).
Cfr. Cornu P. 2003, op. cit., pp. 159-166.
36Comunicazione orale del ngakpa Shawo Tsering di Gyawo Chuja (Gyawo Chuja, 2006).
38Comunicazione orale del ngakpa Shawo Tsering il Vecchio, l’uomo più anziano di tutto il villaggio. Questa storia mi è stata poi riraccontata più dettagliatamente da Nyida Chenagtsang. (Gyawo Chuja, Roma, 2006).
39 Comunicazione orale del ngakpa Shawo Tsering il Vecchio (Gyawo Chuja, 2006).
Taklung Shelgi Riwo (sTag lung Shel gyi Ri bo), dove meditò Shelgi Ode Gung Gyal, uno degli Otto Grandi Realizzati di Rebkong. Cfr.Ricard 1994, op. cit., p. 22.
40Comunicazione orale di Nyida Chenagtsang (Roma, 2006).
42 Cfr Ricard 1994, op. cit., p.18.La Tradizione Antica è quella Nyingmapa.
43 Nyintha, Chumar (Chu dmar), Gotse (Go tshe), Nyingya (gNyin rGyal), Shyeru (Phyed ru), Wönru (dPon ru), Kashul (Ga shul), e il paese di Gendun Chöpel: Shohong Shyi (Sho ‘phong dpyis). Così mi ha scritto il Professor Dorjegya docente di Lingua Tibetana alla scuola superiore Normale delle Minoranze di Rongwo (Rongwo, 2006).
44I locali chiamano il villaggio Nyangya Ngogongma (gNyan rgyal Ngo gong ma).
45Nearby are Rekong’s Eight Places of the Accomplished Ones and many hallowed spots where Lord Kalden Gyatso once practiced. The most eminent of these sacred places is Shohong lhakha, the actual palace of Chakrasamvara, located near the temple of Chuchik Shel. Both farmers and nomads live in this land of cliffs, forests, and flower-filled meadows. Here, by following the practice of Chakrasamvara and Vajrayogini, the great tantric practitioner known as Kawa Dorje Chang Wang, who had come from Eastern Kathok, attained the vajra rainbow body in a single lifetime. In this region, ten villages of various sizes lie scattered in all directions. Among these is Nyengya, a village at the foot of the local god Jadrön’s mountain abode. This is my homeland, the place of my birth. Cfr. Ricard 1994, op. cit., p.15.
46 Comunicazione orale di un ngakpa che era in ritiro nel ngakkhang (Shohong, 2006). Il ngakpa, inoltre, mi ha detto che lo scritto appeso alla parete era uno scritto di Shabkar e che, in un luogo nascosto, ci sarebbero stati anche il suo cappello di loto e il suo phurba. Hungchen Chenagtsang ha in seguito smentito questa ipotesi (Xining, 2006).
Stamattina alle 8.30 sono andato in un giardino pubblico qui a Chengdu per liberare migliaia di pesci (tipo anguille) nel fiume insieme ad un amico cinese e a Sönamkyi, una vecchietta tibetana che chiede l’elemosina vicino a casa mia. Siamo arrivati e il gruppo di cinesi, lama Konsar e gli altri monaci avevano già cominciato le preghiere attirando tutta una folla di curiosi.
Verso le 10 abbiamo preso un autobus e dopo quasi un’ora e mezza tra taxi, autobus e rickshaw siamo arrivati davanti a una casa un po’ isolata in un villaggio vicino a Pixian. Lì siamo andati a trovare un maestro tibetano di Mewa che ci ha aspirato via le malattie con una sciarpa di seta bianca (katak) sputando una sostanza scura in una ciotola.
Tornati a Pixian (altra mezzora d’autobus) siamo rimasti aspettare seduti sui gradini della stazione per una mezz’ora con Sönamkyi, seduta accanto a me, che chiedeva l’elemosina suscitando reazioni di stupore e di disdegno nei passanti. Dopo un’altra mezz’ora d’autobus siamo andati a Pengzhou, lì abbiamo visto un tempio con una copia di cemento dello Stūpa dell’Illuminazione di Bodh Gaya a grandezza naturale che dava all’ambiente un’atmosfera abbastanza surreale.
Dopo esserci fermati in un negozio-ufficio che vendeva strane pillole all’estratto di pino a bere acqua calda, verso le 17.30 abbiamo preso l’autobus di ritorno.
Alle 18.30 siamo scesi a Chengdu in mezzo alla strada e, cercando di prendere un taxi, ci siamo ritrovati in un incrocio sotto un cavalcavia enorme in un delirio totale. Un fiume caotico di macchine, autobus, camion, motorette elettriche e rickshaw che suonavano il clacson ogni secondo mentre cercavano di tagliare la strada agli altri o di infilarsi in diagonale negli spazi tra due vetture.
Siamo rimasti in quel casino per quasi un’ora attraversando di qua e di là la strada senza riuscire a trovare nessun autobus o taxi che ci portasse a casa e, dopo un po’, abbiamo scoperto che sul cavalcavia c’era uno che minacciava di buttarsi di sotto. Miracolosamente poi siamo riusciti a prendere un taxi e a tornare verso il centro.
Sono andato a salutare lama Konsar nel suo albergo nel quartiere tibetano e, abbastanza stanco, mi sono trascinato a piedi verso casa.1 Che domenica!