I nove draghi prigionieri

In uno dei discorsi finali del ritiro di dieci giorni il maestro Goenka consigliava di meditare prima del sorgere del sole, verso le cinque del mattino quando ancora la gente dorme, parlava infatti di come le persone, in ogni loro azione, fossero animate dagli stati mentali negativi dell’attaccamento e dell’avversione e di come questi si riversassero nell’ambiente circostante come fattori inquinanti e avessero il potere di influenzare la nostra meditazione.

Il discorso filava, dopotutto quando entri in un ambiente dove tutti sono tristi o felici sei in qualche modo affetto da questi stati d’animo, ma il fatto che questo potesse influenzare la propria capacità di calmarsi anche stando nella propria stanza mi sembrava un po’ esagerato: “possono davvero gli stati negativi degli altri influenzare la nostra calma mentale fino a questo punto?” Mi chiedevo.

Sugli scaffali delle librerie nella sezione “spiritualità” ci sarà capitato di imbatterci in quei libri sull'”energia” spesso editi da case editrici anonime con titoli come I Vampiri Energetici, L’Energia Guaritrice della Preghiera, Gli Angeli Custodi e altri titoli strani questo genere.

Quando, perso nel magnetismo mentale del libro-shopping, mi ci cade lo sguardo, li sfoglio spesso per curiosità, ne guardo la copertina, le illustrazioni interne e tutta quella serie di schemi, diagrammi e tabelle che li costituiscono. Ora ammetto di averli sempre considerati libri di serie F1 e per questo non particolarmente rilevanti ma da un po’ di tempo ho cominciato a pensare che anche questa sia una sottile forma di orgoglio e che, come tutte le forme d’orgoglio, renda impossibile ogni vero apprendimento. Infatti ogni cosa è in un certo senso di per sé un insegnamento, sta a noi coglierlo.

Insomma, le verità di questi libri mi sono sembrate in un certo senso connesse a quello che Goenka diceva nel suo discorso, verità che mai prima d’ora ho sentito così reali e tangibili come qui a Hong Kong, dove le ansie, i desideri, le speranze e le delusioni  delle persone sono così intense e concentrate in uno  spazio così ristretto, da creare delle polarità energetiche di grande forza.

Come le acque di un torrente impetuoso che scorrono fragorosamente in una stretta gola di montagna (questa è anche l’immagine evocata dal fiume di gente che avanza freneticamente nelle strade strette tra le gole dei grattacieli) o come un cielo nuvoloso, apparentemente “calmo” ma carico dell’elettricità del fulmine.

Il fatto che il magnete trainante di questa città sia forse solo esclusivamente il denaro rende il tutto più intensificato: i soldi e il potere, infatti, attraggono facilmente il “lato oscuro della Forza” e mettono alla prova anche il più puro e forte dei cavalieri Jedi.

Mi era capitato più volte di tornare da una giornata in centro con il mal di testa ma non avevo mai pensato che questo potesse essere legato all’energia del posto. All’inizio infatti avevo pensato che fosse una coincidenza e avevo cercato le cause altrove ma poi , affinando sempre più le mie percezioni, e osservando più attentamente le circostanze in cui questi sintomi si manifestavano, fui quasi certo che queste sensazioni di malessere dipendessero dall’ambiente stretto e chiuso e dalle persone che mi giravano vorticosamente intorno.

Anche adesso, quando vado in centro (soprattutto nelle zone più affollate di Hong Kong Island come Central o Caswaybay o di Kawloon come Tsim Sha Tsui, Jordan, Mongkok e Hung Hom) noto che queste sensazioni diventano più forti e vanno attenuandosi appena mi allontano gradualmente dal caos. Una delle energie più evidenti a Hong Kong è l’aggressività, il modo in cui la maggior parte della gente si muove per strada è secco e ruvido, non c’è gentilezza nelle espressioni, nei movimenti, nei gesti e la maggior parte della gente si muove davvero veloce, troppo veloce. Inoltre penso forse di non aver mai parlato qui con una persona veramente calma, c’è una certa ansia di fondo, quasi sempre presente nelle espressioni e nel tono di voce che è sempre veloce e confuso.

In altre città forse questo è meno evidente o determinante perché la vita non è così veloce, c’è molto più spazio, piazze e giardini dove la gente si riposa e non è così ossessionata dal lavoro o dal successo (inoltre non tutto gira così esclusivamente e freneticamente intorno al denaro, almeno non ai livelli di Hong Kong) e soprattutto non ci sono più di 7 milioni di persone in molto meno di 250 kmq (infatti dei 1000 kmq di territorio meno del 25% è costruito e solo il 7% è a scopo residenziale).

È strano come Macau, con i suoi casinò e la sua fama della Las Vegas dell’Asia, sia comunque una città più dolce. Notai come la gente lì fosse più rilassata e camminasse piano e rimasi stupito nel vedere un  cinese locale leggere comodamente il giornale la mattina con tutta calma su una delle panchine di una piazzetta o la gente passassare più tempo nelle caffetterie. Forse era stata l’influenza dei portoghesi pensai o forse il fatto che lì ci vivono in pochi o che a Macau ci sia un lato oscuro latino della Forza (Lado escuro da Força) ma queste sono solo mie supposizioni. Adesso torniamo all’argomento principale, volevo solo fare un paragone.

In Cina esiste da millenni l’arte dell’individuare le energie della natura cercando di convogliarle in modo positivo, o di non ostacolarle, l’antica geomanzia cinese: il feng shui.

La teoria base del fengshui è che l’ambiente esterno influenza la nostra condizione psicofisica. Stranamente ora il fengshui delle città europee sembra essere migliore di quello di molte città cinesi.

A Hong Kong si dice che il feng shui del territorio sia estremamente positivo, quasi ideale per attirare prosperità e longevità, con il mare davanti, le verdi montagne nell’entroterra e le sue isole e coste guarnite di innumerevoli insenature e golfi. Nel feng shui infatti l’energia del Qi, rappresentata dal drago, scende dalle montagne e si ferma davanti a uno specchio d’acqua dove si raccoglie e si condensa. L’ironia però vuole che l’intervento esterno dell’uomo abbia quasi letteralmente distrutto il feng shui del posto, rendendo l’area urbana di Hong Kong una delle città con il peggiore feng shui dell’Asia.

I draghi, infatti, come gli abitanti umani di questa città, sono rimasti imprigionati nel cemento e la loro magica perla sta perdendo la sua lucentezza e con essa il suo potere. I draghi non hanno colpa, sono stati imprigionati dagli uomini ma gli uomini chi li ha imprigionati?

Esiste una prigionia mentale, quella dell’attaccamento e dell’avversione, dell’incapacità di vedere la vita sotto altri punti di vista, della resistenza al cambiamento e una prigionia fisica materiale, del luogo dove si vive. Spesso una genera e influenza l’altra.

Mi diverto a pensare come il concetto di prigionia sia relativo, infatti molti alloggi qui sono più simili a celle d’isolamento (sempre però a carissimo prezzo) mentre alcune prigioni dell’Austria o della Norvegia sembrano pensioni di villeggiatura. Con i prezzi del real estate ad una media di 10000-12000 HKD (1200-1400 euro) per “piede quadrato”, alla prigionia si aggiunge anche la schiavitù di decenni di mutuo sulla casa e il cittadino-prigioniero che dichiara con gioia la “grande notizia” di avere ottenuto il mutuo dalla banca, ora e anche schiavo.

Anche io sono prigioniero qui, prigioniero di una città, prigioniero di un’isola, prigioniero di una stanza, prigioniero di un sistema di valori che non mi piace ma spesso guardo il cielo e l’esempio da seguire, la via verso la libertà me la danno loro, le aquile che volano in quegli spicchi d’azzurro lasciandosi trasportare dalle correnti e le cui sagome si specchiano nei vetri  dei grattacieli.

E’ l’alba e dalla finestra al trentacinquesimo piano di un grattacielo guardo sotto di me una stretta strada ad alto scorrimento incurvarsi leggermente e passare in mezzo a degli anonimi palazzi altissimi poco lontano che serrano dei campi sportivi. In lontananza una linea serpeggiante di un treno sopraelevato passa dietro agli edifici e si vede anche una vecchia fabbrica messa di traverso. Inspiro ed espiro lievemente e mi viene in mente il fengshui.”A mali estremi estremi rimedi!” penso divertito ed è così infatti che dei maestri di feng shui vengono pagati a carissimo prezzo per “rimediare” ai misfatti dell’uomo (che qui mi sembra molto confuso). Io comunque ho deciso di seguire i miei maestri alati perché la vera libertà e il feng shui migliore anche i cittadini più ricchi di Hong Kong non se li possono comprare.

Primo viaggio a Cheung Chau

Cheung Chau è stata la prima delle outlying islands che ho visitato qui a di Hong Kong, ancora prima di Lamma e di Peng Chau.

E’ un isola piccolina (2,5 kmq) qualche chilometro a sud ovest di Hong Kong, costituita da due massicci di granito ricoperti da una rigogliosa vegetazione collegati tra loro da una lunga lingua di terra e da questo deriva appunto il nome che in cinese significa “isola lunga”.

Tutto è cominciato da una conversazione in un Mac Donald con il mio amico Lal, un indiano anziano che vive a Hong Kong da tantissimi anni, da quando era giovane.

Avevo incontrato Lal per la prima volta nel dormitorio di un centro di meditazione di Sheung Shui. Eravamo seduti ad un tavolo e stavamo compilando il modulo di partecipazione di un ritiro di dieci giorni di vipassana, dove, per tutto il tempo a partire dal giorno successivo, non avremmo dovuto parlare e guardare gli altri partecipanti negli occhi, oltre che ovviamente seguire gli otto precetti di shila, la disciplina. Stavo per firmare qualcosa in cui promettevo che avrei rispettato tutte queste e altre regole fino alla fine del ritiro e sapevo che sarebbe stato duro.

Tra i tanti cinesi di Hong Kong che erano lì più o meno silenziosi Lal era l’unico che parlava un po’ con tutti. “My name is Lal!” diceva con voce calda guardandoti dritto negli occhi.

Il suo non era semplicemente un “io mi chiamo…” “mi potresti dare la penna?”, “grazie!”, Quando vedeva che qualcuno lo ascoltava cominciava a fare dibattiti filosofici, parlava del Buddha e della meditazione ma non solo.

“Do you know who is one of the greatest masters of India?” chiedeva con una voce lenta e ondulata nel suo inglese dall’ accento indiano scandendo tutte le parole e quando rispondevi “Chi è?” Lui dopo una breve pausa di silenzio, tuonava: “Ooosho!”

Nel pronunciare quel nome si soffermava molto sulla “o” iniziale, la pronunciava con energia, prolungandone il suono come per creare un atmosfera mistica e misteriosa e faceva così anche con gli altri nomi. Non stava semplicemente parlando: muoveva le braccia e le dita delle mani in gesti istrionici la cui velocità ed energia seguivano il ritmo e la veemenza delle sue parole.

Ti fissava con quei suoi occhi sgranati e magnetici con le pupille leggermente cerchiate di grigio. Il suo sguardo era ipnotico e le sue espressioni solenni come quelle di un antico faraone egizio. Mentre lo ascoltavo con grande interesse pensavo che per lui mantenere un silenzio totale dal giorno successivo non sarebbe stata una cosa facile e così sarebbe stato anche per me. Forse era per questo che ci eravamo subito trovati.

La sua presenza durante il ritiro per me è stata importantissima e durante le pause il solo vederlo camminare fuori in tuta da ginnastica con quei pochi capelli bianchi spettinati mi metteva di buon umore. Spesso dopo pranzo o il pomeriggio si sedeva al sole sul muretto vicino a me in silenzio con in mano una tazza di te con latte. La sua era una presenza calda e sentivi di volergli bene.

Mi divertiva quando cercava il contatto con gli altri esprimendosi con gli occhi e con varie espressioni del viso nonostante ci fosse stato chiesto di rimanere raccolti e in silenzio.

Ma come sono trascorsi i giorni di quel ritiro forse ne parlerò un’altra volta, dopotutto questo post è su un isoletta di Hong Kong e non sui dieci giorni di vipassana se no l’avrei intitolato diversamente e comunque nella narrazione a me piace usare la tecnica delle scatole cinesi o delle matrioske. “Una storia dentro una storia” come le Mille e una Notte e Big Fish. Il rischio è però che a volte mi perda un po’ anch’io ma non sarà questo il caso.

Allora io e Lal stavamo seduti in un Mac Donald. Volevo prendere un tè o un caffè con lui il pomeriggio e Lal mi aveva portato lì. Infatti  Hong Kong è una città molto frenetica e non sono tanti i posti dove si può stare seduti a lungo senza dover riordinare per forza qualcosa, Mac Donald era appunto uno di questi e per noi era fondamentale. Vi ho già detto, infatti, quanto e come Lal riusciva a parlare e quindi per noi stare seduti a lungo voleva dire molto a lungo.

Avevo sentito parlare dell’isola di Lamma e chiesi a Lal ma lui mi disse che era meglio Cheung Chau che era più “caratteristica” così mi decisi ad andarci.

“Devi andare a Central e prendere il ferry dal molo numero cinque.”

“Come hai detto che si chiama?” Gli chiesi ancora fuori prima di salutarci.

“Cheung Chau” mi ridisse. “Molo numero cinque! E’ facile.”

“Ok! Grazie!”

Non avevo preso nessuna nota e mi allontanai ripetendo quelle parole tra me e me. “Cheung Chau! Cheung Chau! Cheung Chau!…..”

Quella e stata l’ultima volta che io e Lal ci siamo incontrati.

Il giorno dopo dal mio albergo-loculo del Hua Feng Building a Jordan o preso la linea rossa fino a Central e, uscito dalla stazione della metro, chiedendo un po’ in giro, sono arrivato al molo numero cinque da dove ho preso la slow ferry.

Per quasi tutto  il viaggio sono stato in piedi fuori a poppa della nave guardando i grattacieli allontanarsi davanti a me.

Dopo un po’ il mio sguardo finalmente si perdeva nello spazio. Nel blu del cielo e del mare mi sono sentito veramente di nuovo libero.

Sul ponte davanti a me cerano due ragazze giovani, anche loro sembravano provare la stessa sensazione, annusavano l’aria ricca di iodio e guardavano le onde e la scia bianca e spumosa della nave sorridendo sotto il sole.

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Mentre ci avvicinavamo alla terra, si vedevano gli edifici bassi e il verde delle colline. Il traghetto procedeva lento verso il molo in mezzo a barche, barchette e pescherecci di varie dimensioni che oscillavano sull’acqua.

Siamo scesi e prima di sedermi in uno dei tanti ristorantini a prendere qualcosa ho fatto una breve passeggiata.

Non c’erano tante persone in giro, finalmente un’atmosfera tranquilla, il mare e il sole e nessuna macchina. Quando scopro dei posti nuovi di solito mi piace camminare senza avere una lista delle cose da fare e da vedere ma scoprirlo piano piano, chiedendo alle persone, un po’ come una Caccia al Tesoro, soprattutto ora che mi trovavo in un’isola di pescatori e di pirati dei mari del sud.

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Ho preso la strada alla mia sinistra perché era quella che mi piaceva di più.

Qui, sul lungomare, c’erano tanti tavoli rotondi di ristoranti che facevano il pesce. Volevo trovare un tempio così ho chiesto a una delle signore di quei ristoranti che mi volevano far sedere a mangiare. Ero nella direzione giusta. Stavo procedendo in direzione di una piccola collina verdeggiante e, dopo un po’, mi sono trovato in una piazza con dei campi sportivi dove si affacciava rivolto verso il mare il tempio principale dell’Isola (Il Tempio di Pak Tai) con i tetti decorati da draghi, miniature di leoni e varie divinità dai colori vivaci.

In cima alla scalinata del tempio, ai lati dell’ingresso c’erano quattro leoni di granito e un grandissimo albero di banyan che faceva ombra su delle panchine poco più in là.

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Dopo aver visitato il tempio, mi sono infilato in una stradina perdendomi nelle vie laterali. Un   te’, poi un altro tè con latte in due ristorantini dai tavoli rotondi per strada e la sera un chao fan (risotto alla cantonese) e una birra ad uno dei ristoranti sul lungo mare.

Dal tavolo guardavo il tramonto e poi le luci delle navi e dei lampioni lasciare striature d’oro e d’argento sull’acqua scura.

Era tardi dovevo tornare.

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Le persone! Quanto sono belle le persone! Anche io spesso, preso dai miei problemi e insoddisfazioni me ne dimentico ma in altri momenti riscopro quanto mi piaccia di più parlare delle persone che incontro e degli eventi  che mi accadono per arrivare in un luogo che descrivere il luogo stesso, che staccato da tutti questi elementi diventa addirittura noioso.

“Insomma che cosa hai fatto a Cheung Chau?”

“Sono sceso dal traghetto. Ho passeggiato sul lungo mare. Ho visto un tempio. Ho mangiato qualcosa, bevuto una birra e ho ripreso il traghetto.”

Questa per me è la morte! Per fortuna il telegrafo non è stata una mia invenzione.

Forse la mia versione non è stata proprio lineare ma del resto non sono lineare neanche io e poi anche mia nonna mi diceva che dovevo prendere il risotto dai lati e non dal centro altrimenti mi sarei scottato la lingua.

Pearl Blue Iced

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Ho appena guardato la pubblicità di una birra locale, la Blue Girl e ho pensato a quanto fosse idiota.

Un gruppo di occidentali si stanno, come sempre ovviamente, godendo la vita alla grande. Non è un apprezzare le piccole cose ma una vita spericolata vissuta al massimo, quasi da cocainomane.

Sì perché se non urli “wooooh!” o dici ciao con quella falsa euforia e quel tono ascendente, come avviene spesso ora anche in Italia, non sei abbastanza positive e non avrai molti “amici” o followers sulle piazze della città e su quelle di internet. Altri “amici” ti contatteranno meno perché non sarai abbastanza cool o non farai o avrai fatto abbastanza cose da mostrare e per questo non sarai degno di cosiderazione. Il loro Ego non ne sarà soddisfatto, non potranno dire ” Io c’ho un amico….” facendoti diventare una loro estensione.

Come se la nostra esistenza come esseri umani debba essere riconosciuta dagli altri in base a quello che facciamo o che mostriamo di aver fatto e non per il semplice fatto di esserci, di essere vivi su questa terra e di, come cantava Zucchero, avere bisogno di amore fin dai nostri primi istanti di vita, proprio come le piante hanno bisogno del sole. Ma forse non ci amiamo tanto ed è per questo che preferiamo fare gli idioti per essere universalmente accettati da altri idioti.

La nostra tristezza, la solitudine, le situazioni e gli stati mentali più ordinari e insoddisfacenti vengono nascosti, il tenerci sempre iperattivi può diventare uno dei modi per non farceli vedere, per sfuggire a noi stessi. Raramente parliamo della sofferenza, almeno della nostra, ne siamo quasi imbarazzati, oppure al contrario la ingigantiamo esaltandone i lati tragici e quando parliamo della sofferenza degli altri molto spesso lo facciamo con cinismo come un giornalista o un presentatore di un varietà televisivo. Facebook, Instagram e gli altri social con la loro sublimazione dell’Ego sono un po’ lo specchio di tutto questo.

Ritorno alla pubblicità perché spesso mi perdo nel fare questi voli pindarici.

Allora i giovani della pubblicità fanno trekking, vanno in bicicletta in salita nella neve, salgono lungo i pendii delle montagne ghiacciate come quelli della Compagnia dell’Anello, insomma di tutto di più.

Fin qui niente di così strano: la frivolezza della pubblicità del Cornetto Algida o del Maxi Cono mista allo spirito di squadra, “amici per la pelle volemose bene” e senso di raggiungere uno scopo condiviso che ritroviamo un po’ in Amaro Montenegro, solo che alla fine, giunti soddisfatti sulla vetta, a -10 tutti imbacuccati e stanchi, invece di un bicchierino del buon vecchio liquore o uno di cognak portato da un San Bernardo, si stappano e bevono una bottiglia ghiacciata di Blue Girl a testa con qualche frase edificante che dovrebbe essere un insegnamento per i telespettatori.

Mi vengono in mente i testi della canzone di Battiato “sul ponte sventola bandiera bianca!” e penso a quanto siano attuali soprattutto oggi.

A proposito di bandiere bianche, ora me ne devo andare in fretta perché in questo ristorante di Taiwan stanno cercando di ricreare il microclima dell’Antartide e sono in maglietta a maniche corte (qui una Blue Girl a temperatura ambiente sarebbe diventata un Calippo).

Esco, l’aria tropicale mi travolge, mi si appannano gli occhiali e arranco per qualche metro sulla via notturna piena di insegne luminose appoggiandomi ad una ringhiera. Di sottofondo qualcuno, probabilmente un po’ alticcio, ulula da un karaoke. Alzo lo sguardo è vedo sopra di me un grande cartello che sporge dal primo piano di un edificio: Aberdeen Fish Balls.

La gerarchia naturale

Dopo aver girato a lungo per le chinatown di Singapore, Kuala Lumpur, Bangkok e di altre città del Sud Est Asiatico, una delle prime impressioni che ho avuto arrivando a Hong Kong è stata quella di trovarmi in una grande chinatown, una chinatown enorme, da dove non si esce e dove ad ogni angolo e in ogni vicolo avrei potuto incontrare le Tre Bufere o David Lo Pan o dove ancora, in qualche negozio polveroso, avrei potuto vedere il volto in penombra del mago Egg Shen.1

Insomma una Chinatown Town, bellissima e affascinante, moderna e internazionale con ancora un’anima antica, che però è sempre più nascosta nel cemento:  quella dei miti, delle tradizioni e della religione popolare dei cinesi.

Una città che non riposa mai, dove a volte la notte e il giorno vengono confusi perdendo significato e dove, anche nelle ore più buie e nelle vie più isolate e più oscure,  si sente sempre un qualche brusio o s’intravede una luce o un bagliore.

Infatti, nonostante le sue piccole dimensioni, Hong Kong offre una grande varietà di attrazioni e divertimenti e chi si ferma qui per qualche giorno o qualche mese rimane colpito dalla magia di una città con così tante “piccole cose” da scoprire, una città misteriosa.

A lungo andare, però, la sua altissima densità di persone ed edifici, la sua mancanza di spazio e la sua velocità, possono influenzare negativamente l’equilibrio psicofisico di chi ci vive.

Infatti immergersi nel caos e nella vitalità di una città come questa (che offre veramente quasi tutto a chilometro zero), qualche volta è bello ma è anche bello poter scegliere.

Scegliere di entrare e uscire da questo caos, mantenendo una propria dimensione tranquilla dove tornare a casa. 

Tornare in un posto dove non si sia sempre investito dalle persone in una delle strette arterie della città, dove ad ogni attraversamento pedonale non si oda il fastidioso tic-tac dei semafori o il click-clak ad ogni stazione della metro o non si abbia la vista sbarrata da palazzi di quindici trenta o cinquanta piani (in alcune parti anche  settanta) che tagliano il cielo a piccoli spicchi.

Un tornare a casa, non solo con il corpo ma anche con la mente, con il cuore.

Infatti anche noi esseri umani siamo nati per vivere in una dimensione semplice, a contatto con la natura e con i suoi elementi. A contatto con il cielo e con la terra.

Questo è proprio uno dei principi base della filosofia cinese, dove l’armonia è rappresentata proprio da questo trinomio: Cielo, Terra e Uomo.

Il cielo sopra, la terra sotto e l’uomo in mezzo.

Questa sensazione è molto forte quando stiamo in una prateria della Mongolia, in Tibet o in qualsiasi ambiente naturale sconfinato.

Cielo, Terra, Uomo. “Tutto qui?” “Solo questo?” Sì semplicemente solo questo, niente di più semplice e allo stesso tempo niente di più straordinario. Siamo lì tra il cielo e la terra, senza intrattenerci, senza Iphone, Ipad e macchine fotografiche, senza parlare, senza muoverci. In silenzio, senza pensare di voler poi trascrivere questa esperienza in qualche blog o diario. Qualcosa accadrà, la magia di Cielo, Terra, Uomo si manifesterà (non verbalmente) se abbandoneremo ogni aspettativa.

Lasciando scorrere via i pensieri riguardo al passato e non afferrando quelli riguardo al futuro, rimarremo incondizionati da questo fiume e saremo senza passato e senza futuro. Saremo solo un essere umano che respira tra il cielo e la terra.

Questa è la gerarchia naturale che permea tutto il Classico dei Mutamenti (Yi Jing) ed è visibile nei suoi otto trigrammi (Ba Gua).

Gerarchia naturale non è solamente uno dei tanti “bei concetti” da incorniciare al muro o un nuovo libro dell’Astrolabio-Ubaldini da   esibire su una delle librerie delle nostre case-museo, ormai così piene di trofei, souvenir e cianfrusaglie di vario genere da sembrare il rifugio di un antiquario o di un rigattiere. Queste cose infatti al limite potrebbero arricchire qualche venditore ambulante di un mercato delle pulci ma non noi.

La gerarchia naturale è il mondo in cui viviamo e che abbiamo dimenticato, tradito e sepolto sotto il cemento. Il cemento esterno dell’urbanizzazione e il cemento interno dell’intellettualizzazione e del razionalismo.

A questo disordine esterno, infatti, corrisponde un disordine interno di cose accumulate e non interiorizzate che, invece di arricchirci, ci appesantisce sempre di più rendendoci sempre più goffi. La nostra mente infatti è colma di concetti come lo è una stanza disordinata e noi arranchiamo a fatica cercando di trovare un piccolo spazio dove stare tranquilli e a nostro agio.

Per quanto riguarda Hong Kong, se vogliamo allontanarci davvero dal caos e dalla frenesia quotidiana  della città e da quella sensazione (che alla lunga diventa quasi claustrofobica) di essere imprigionati in veri e propri muri di cemento, possiamo andare a vivere a Saikung, in qualche angolo remoto di Lantau o come ho già detto precedentemente attraversare il mare verso isole più piccole.

Se invece sentiamo che questo  non sia sufficiente a farci allontanare dal caos e dalla frenesia della mente potremmo pensare di partecipare ad una giornata o a un ritiro più lungo di meditazione, questo sicuramente ci aiuterà ad osservare il nostro disordine, eliminare la “claustrofobia mentale” e a fare più spazio nella nostra mente.2

1 Tutti personaggi del film di John Carpenter Grosso Guaio a Chinatown (Big trouble in little China).

2 Esistono varie forme di meditazione, varie scuole e vari insegnanti, alcuni buoni e alcuni non buoni, quindi è meglio informarsi adeguatamente prima di fare una scelta. Ho visto che a Hong Kong c’è la tradizione zen vietnamita di Thich Nhat Hanh (che considero un bravissimo maestro) che ha come centro principale il Plum Village sull’isola di Lantau o quella vipassana di tradizione birmana di S.N.Goenka a Hang Tau, Sheung Shui nei New Territories, che propone ritiri di 10 giorni (a cui ho partecipato una volta). Anche questa è molto valida  ma richiede una disciplina più rigida e tante ore al giorno di meditazione e per questo non mi sento di consigliarla a tutti (anche io sinceramente non so se farei un secondo ritiro ma questo non vuol dire). Questa meditazione appartiene alla stessa tradizione di quella praticata da Terzani in Un Indovino Mi Disse e anche il lignaggio di maestri è lo stesso.

Pensieri su alcune isole del Mare Cinese Meridionale

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Dal titolo sembra che voglia parlare delle Spartly Islands ma no, a dire la verità non ci ho  neanche pensato.

Infatti sono tante le isole disseminate nel Mare Meridionale (Nan Hai) e io parlerò di quelle in questo tratto di mare che si estende dalle coste frastagliate di Hong Kong, piene di golfi, insenature, promontori e penisole ai grandi arcipelaghi dell’Austronesia.

Di queste le isole più grandi sono Lantau e Hong Kong, che però hanno già perso quella loro “peculiarità”, essendo state collegate attraverso ponti e tunnel alla terra ferma.

Potremmo dire che l’ingegno dell’uomo abbia cercato così di bypassare il controllo del re drago che dimora in queste acque e che queste isole abbiano perso così la loro caratteristica più importante quella di essere isolate dalla  terra ferma ma rimane comunque il fatto che poterle raggiungere in metro (MTR) in pochi minuti abbia i suoi vantaggi.

Non mi sento ora di fare un’analisi di tutte le epoche storiche della Cina e sinceramente neanche mi interessa, forse in alcuni periodi è stato  diverso ma di certo la cultura cinese moderna, in tutti gli angoli del mondo in cui la si possa osservare, ha sempre dato maggior importanza alla pragmaticità piuttosto che alla bellezza e alla poesia.

Meglio stare seduto a un tavolo all’angolo, schiacciato al muro e circondato da gente rumorosa in un locale affollato con aria condizionata ghiacciata che a un tavolo fuori al “caldo” in tranquillità magari pure tra i fiori e con una bella vista (e non parlo solo durante le ore più calde).

Qui sarebbe divertente fare una digressione su ciò che è bello romantico secondo i cinesi ed è quello che proverò a fare in poche parole.

Bello: tendenza a preferire le cose grandi, vistose, pacchiane. I luccichini e tutto ciò che è dorato sono un cliché.  Meglio se l’oro e i diamanti sono veri. Infatti c’è anche un’attrazione particolare verso tutto ciò che è prezioso e in genere il bello è associato al rispettivo valore in denaro dell’oggetto: più costa e più piace.

Romantico: galanteria esagerata e molto showing off da parte degli uomini che sembrano aver studiato il copione di un film romantico-tragicomico con un retrogusto da film dei supereroi, immagine di purezza e atteggiamento infantile da parte delle donne che amano circondarsi di orsacchiotti e cuoricini di peluche forse per fuggire dalla cruda realtà: No money No party! No Face no Place! 

Infatti dietro ai sorrisi, spesso di facciata, si vive sempre in competizione e se non hai soldi e una buona posizione all’interno della società non sei nessuno.

Ora  non vorrei deviare troppo dall’argomento principale (ma forse l’ho già fatto) e quindi mi fermo qui.

Certo  è  divertente vedere come, accanto alla donna super truccata con vestito, scarpe col tacco e borsetta firmati che si vede spesso in giro, compaia una donna vestita completamente a caso, spesso in tuta e ciabatte di gomma se non direttamente in pigiama (questo soprattutto nel resto della Cina e anche durante il giorno).2

Questa cultura che fa della via di mezzo (zhong yong) un punto cardine della sua filosofia sembra non averla ancora trovata.

Del resto anche Battiato cercava un centro di gravità permanente ma non so se poi sia riuscito a trovarlo. Insomma “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Il mare appunto.

 Ecco, come dicevamo, il mare…, le isole…

Oltre alle due isole più grandi di cui abbiamo parlato sopra, ci sono anche isole isole, cioè isole che non hanno perso la loro “isolatezza”, e che non sono come il caffè decaffeinato e la birra analcolica.

Queste sono: Lamma, Cheung Chau e Ping Chau ma ormai ve ne parlerò un’altra volta.

Infatti, anche oggi, come Alice, sono finito agli antipodi di quello che stavo dicendo.

“Come? Un post sulle isole che non parla di isole?” direte voi.

Ma se ancora non l’avete capito, vi dirò un segreto: a me piace prendere il tè e festeggiare i noncompleanni!

Ho appena finito la mia tazza di tè al limone. Buona giornata!

Questo modello di romanticismo mi sembra un fenomeno relativamente recente ed è molto più diffuso nella Cina Popolare, soprattutto per quanto riguarda il ruolo maschile.

2 Queste sono caratteristiche culturali nonostante siano generali, rimangono abbastanza diffuse. Secondo me, infatti, non sono semplicemente delle generalizzazioni ma delle “tendenze” che ho avuto modo di osservare più o meno in tutte le comunità cinesi dell’Asia dove sono stato, da Pechino a Hong Kong, da Singapore a Kuala Lumpur. Queste “tendenze”, che a seconda del luogo hanno intensità diversa, raggiungono il culmine nella Cina Popolare e sono invece più stemperate nelle comunità cinesi post coloniali  (dove a volte sono “sotterranee”) ma sempre presenti, se non altro in sottofondo, appunto background.

Là dove volano le aquile 

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In mezzo a montagne verdi ricoperte di vegetazione sub tropicale, ammassi di palazzi alti e sottili si stagliano verso l’alto proiettando le loro ombre su vie strette simili a quelle di un labirinto.

Queste sono tagliate di tanto in tanto da passaggi pedonali sopraelevati e da altre strade rialzate che incurvandosi si avvitano verso il basso dove una moltitudine di esseri minuti si sposta a grande velocità tracciando, all’occhio di chi li osserva dall’alto, dei disegni simili a quelli del volo degli storni nei cieli d’autunno.

Un mare sempre mosso di uomini che come tante onde si sfrangono sui blocchi di cemento grigio, sul vetro e sul metallo illuminati dal sole.

Al limitare di questo caos, come uno specchio scintillante, si estende il mare, quello vero, quello  dalle acque calme, increspate dalle onde e dalla spuma.

Quello che per secoli è stato il ponte tra i continenti e le cui conchiglie conservano ancora, nel loro suono, storie di antichi viaggiatori e marinai.

Caos e calma. Solido e fluido. Limite e vastità.

Quelle distese infinite punteggiate da navi e da piccole isole che per estensione sono seconde solo al cielo.

Questa è Hong Kong, il “Porto Profumato”, accanto al delta del Zhu Jiang, (Fiume delle Perle). Una delle “perle del drago” dei mari del sud.1

Una città che non si ferma e non dorme mai che si affaccia sull’infinito. Là dove volano le aquile.

Una città che rischia di morire per via del troppo stress e per i milioni di smartphone zombies che la popolano ma che possiede ancora un’anima viva e pulsante, quella di  dell’Imperatrice del Cielo Tin Hau e dello scuro Imperatore del Nord, Pak Tai.2

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Una città “piccola” ed elettrizzata ma dove esistono ancora oasi di pace e tranquillità.

Per raggiungere questi luoghi, dobbiamo metterci in viaggio come Zhong Li Quan, Lü Dong Bin e gli altri Otto Immortali delle leggende taoiste e “Attraversare il Mare”. Solo così, infatti , lasciando alle spalle ciò che è familiare e partendo verso ciò che è ignoto, potremo incontrare il popolo delle isole.

Il viaggio comincia sui moli di  Hong Kong Island, quando saliamo su uno dei tanti ferry che quotidianamente si allontanano dalla IFC tower e dagli altri grattacieli appuntiti di Central e Admiralty.

Con un po’ di fortuna possiamo salire su un vecchio ferry e goderci l’immensa sensazione di libertà che si ha quando si percorre il vasto, riscoprendo ancora una volta il valore della lentezza. 

Salpiamo. Il tempo rallenta e il mare con la sua compassione lava via le nostre preoccupazioni terrene.

In piedi sul ponte della nave, possiamo ammirare le varie tonalità dell’azzurro e scrutare l’orizzonte come un vecchio marinaio o un pirata dei mari orientali, sentire il vento sul nostro volto e assaporare l’odore della salsedine misto a quello del gasolio.

Questa è una delle ultime poesie di Hong Kong.

C’è una sorta di sollievo nel vuoto del mare. Né passato, né futuro.

Orazio

1 L’altra perla di drago dei mari del sud è Singapore.

2 Due divinità della religione popolare cinese.

 

Nuovi e antichi dei

 

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Quando gli antichi dei sono dimenticati

Nei miei viaggi tra le comunità dei cinesi nel sud est asiatico, a Hong Kong e nella Cina Popolare, ho sempre fatto caso a una differenza fondamentale: nella Cina Popolare il culto delle divinità della terra, dell’acqua e del cielo è praticamente scomparso.

Questi spiriti, che personificano le forze della natura e che dovrebbero essere rispettati per mantenere una società armoniosa, sono invece stati oltraggiati, offesi e, nel migliore dei casi, semplicemente dimenticati.

Ora la Cina sta, come dice, “governando la natura”(zheng fu zirang),  e pensa ingenuamente di riuscirci.

L’antico imperatore faceva i sacrifici al Cielo e alla Terra ma quando ci si aspetta che il Cielo e la Terra facciano i sacrifici ai nuovi imperatori vuol dire che c’è un  problema: l’ordine è capovolto e le sempre più frequenti catastrofi naturali sembrerebbero esserne un segno.

Se vuoi domare un cavallo selvaggio solo con la forza, senza alcun rispetto e gentilezza, questo prima o poi ti butterà giù.

Senza il culto di queste divinità e il culto degli antenati (non parlo degli antenati comunisti con le loro rispettive mummie)  manca qualcosa alla spiritualità cinese, qualcosa di trasparente e incolore come l’aria, che spesso è associato alle varie forme e ai vari  colori con cui entra in contatto (taoismo, confucianesimo e buddhismo).

Queste “divinità” e “spiriti” sono la manifestazione shen (神) delle forze del Cielo e della Terra e interagiscono con il mondo degli uomini a cui sono strettamente legate.

Possiamo trovare molte di queste tradizioni e miti nel “Classico dei Mari e delle Montagne”, lo Shan Hai Jing.

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La Cina Popolare e la Cina Oltre il Mare

Taiwan, Hong Kong, Macau e la Cina d’Oltremare invece, nonostante il dominio coloniale, hanno mantenuto intatte tutte quelle tradizioni e quel folclore che ha sempre caratterizzato il popolo cinese.

I cinesi d’oltremare infatti nelle loro chinatown hanno affondato radici forti che gli hanno permesso di rimanere culturalmente saldi in terra straniera (eccetto rare eccezioni). Non hanno mai avuto dubbi sulla loro identità culturale, non l’hanno mai tradita né  abbandonata e, se in alcuni casi questo è successo, è stato per decisioni o circostanze a loro  esterne.

L’altra Cina, è una “Cina nuova” (Xin Hua) che ha deciso di rinnovarsi e di cambiare  rompendo con la “società feudale” e la tradizione, seguendo quelli che chiamava modelli culturali stranieri ma che sono stati poi un pretesto per fondare un nuovo impero basato su una versione cinese di quei principi. Una Cina che nonostante le ostentazioni di forza e l’orgoglio è ancora insicura, soffre di un complesso d’inferiorità e infondo dubita ancora di se stessa.

Un paese che ha sì tante potenzialità ma anche tante sfide interne da affrontare e tanti problemi da risolvere e forse ha paura che potrebbe non farcela. Una Cina che con il Grande Balzo in Avanti e la Rivoluzione Culturale è l’unica responsabile dei suoi fallimenti e delle sue distruzioni anche se fa fatica ad ammetterlo e che in un certo senso ha tradito se stessa, volendo sradicare le sue radici che ora cerca goffamente di trapiantare senza sapere bene come.

In questo quadro gli stranieri sono usati dalla propaganda come capro espiatorio per distogliere l’attenzione della popolazione (per la maggior parte ancora tenuta nell’ignoranza) dai veri problemi e dai veri responsabili che sono molto spesso interni.

L’intento è quello di mantenere viva nell’immaginario collettivo la figura di un “cattivo” esterno che vorrebbe distruggerli. Questo, secondo alcuni, potrebbe essere in parte anche vero ma non certo in questi termini così esagerati e teatrali che rasentano quasi il comico.

Questo sentimento è esageratamente rialimentato dai serial che chiamo per divertimento  dei “tre cattivi”: giapponesi, colonialisti/imperialisti occidentali (yang gui) e nazionalisti del Guomindang. Mentre gli ultimi due si cominciano a vedere sempre di meno, quelli sui giapponesi, ora più che mai, vengono trasmessi tutti i giorni a quasi tutte le ore cosa che forse ai responsabili della programmazione sembra patriottica ma che ad un osservatore esterno sembra ridicola. Insomma con la scusa del non dover dimenticare si continua a gettare benzina sul fuoco a tutte le ore.
Certo che se trasmettessero  meno questo tipo di programmi e più film comici o cartoni animati forse il rancore passato e le aspettative future si placherebbero e la gente vivrebbe più in pace nel presente.

Infatti in Kungfu Fu Panda il maestro Wu Gui dice: “Ieri è storia, domani è un mistero ma oggi è un regalo: per questo si chiama presente!” Ma forse questo presente per molti non è proprio così bello e armonioso.

Molte persone però, soprattutto tra i giovani, sembrano già cominciare ad accorgersi di questo sortilegio e qualcuno comincia a svegliarsi.

La nuova spiritualità cinese: forma, regole e materialismo

Nonostante una gran parte dei cinesi della Nuova Cina si siano riavvicinati alla spiritualità in tutte le sue forme, la loro comprensione rimane ancora superficiale  e, nella maggior parte dei casi, i rituali della gente comune (una versione un po’ “personalizzata” di quelli tradizionali) vengono riproposti in una serie di movimenti più simili ad una scena teatrale che altro. Insomma viene data molta attenzione alla forma che, come altre cose in questo paese, è spesso eccessiva e poco alla sostanza. Questo ingrediente aggiunto ad anni di educazione e slogan socialisti, fa sì che tutti i rituali vengano trasformati in una serie di rigide regole meccaniche quasi militarizzate.

Quando qualcuno prega o fa delle offerte accade spesso di sentire una voce “fuori campo” severa che sentenzia: “Non devi pregare così!” “Non ti devi inchinare in questo modo” o che ti “insegna” o “consiglia” sempre qualcosa: “non capisci! Ti insegno io come fare” “Ti sbagli! Ti consiglio di fare così!”

Si è sempre osservati, giudicati e controllati e raramente si è lasciati liberi di fare come ci si sente. I “credenti” per paura di sbagliare sembrano cercare di imitare nervosamente qualcosa, a volte imitano timidamente quelli che stanno intorno a loro ma che a loro volta sono confusi o stanno imitando altri. Si riducono così a scimmiottare dei movimenti e dei rituali del passato che non hanno del tutto compreso e assimilato in un gioco che sembra la versione mimica del telefono senza fili. Insomma c’è poca rilassatezza e, ancora per molti versi, una grande confusione.

C’è molto gan e poco wuwei.  Il fare le cose giuste al momento giusto e nella misura giusta, solamente se necessario, è diventato uno strafare che rovina e distrugge quello che andrebbe seminato e raccolto con pazienza. Se salti in padella a fuoco troppo alto o per troppo tempo bruci  tutto.

Quindi anche se  in Cina ci sono nominalmente milioni di taoisti e buddhisti, anche se alcune statistiche dicono che più del 30% dei cinesi segue la religione popolare, tra la gente comune è ancora tutto molto caotico e incerto. In quasi ogni ristorante è apparsa una divinità della ricchezza (cai shen) ma rimane ancora molta confusione.

Bisogna dire però che in quasi vent’anni sono stati fatti molti progressi e che imitando alla fine si può anche imparare. Come dice il guru dello Yoga della Risata: “fake it until you make it”.

La Cina sta imparando ma non sta ancora disimparando. Molte volte infatti quello che serve non è studiare cose nuove ma eliminare dei concetti, delle idee e dei punti di vista che ci limitano, come un denso strato di nuvole grigie ci preclude la vista del cielo, solo così potremo imparare davvero.

Allo stesso modo in cui si pulisce una tazza prima di versarci un buon tè. Se si versa il tè senza prima pulire la tazza, infatti, per quanto il tè possa essere di prima qualità, il sapore ne risulterà sempre alterato.

I segreti di Sujaya 

5 Febbraio 2016

Era notte inoltrata, stavo in piedi vicino ad un indian kebab in un’affollata zona di bar e pub quando mi si è avvicinata una piccola signora indiana chiedendomi se poteva parlare con me. Aveva il viso scavato e rugoso ma degli occhi grandi pieni di vitalità come quelli di una bambina. Mi disse di chiamarsi Sujaya (ho pensato fosse stato meglio cambiarne il nome).

Come quasi tutte le persone del subcontinente indiano, Sujaya era molto comunicativa e riusciva facilmente a catturare i suoi interlocutori con note giocose di gioia e solennità. Io ero stanco di stare in piedi, Sujaya nel frattempo si era avvicinata a Sunny, il bengalese che lavorava all’indian kebab, e stava tornando verso di me con una bottiglia di un qualche cocktail alla vodka. Ci spostammo in un piccolo spiazzo all’ombra delle fioche luci elettriche, su una panchina di legno circondata da bottiglie di vetro vuote. Davanti a noi  c’era un ininterrotto viavai di ragazzi in camicia e pantaloni e ragazze in minigonna e scarpe coi tacchi, molti dei quali già barcollavano, si trascinavano o venivano trascinati in avanti per effetto dell’alcol.

Non nascondo di essere venuto anche io lì con il desiderio di conoscere delle ragazze e parlare con quella piccola signora  per la mia “piccola mente” era un allontanarmi da quel “obbiettivo”.

Quasi sempre infatti i desideri che formuliamo nella nostra mente non corrispondono a quello che vogliamo profondamente.

La vita, come un grande specchio, manifesta a noi quello di cui abbiamo veramente bisogno in quel preciso momento.

Insomma i nostri desideri non vengono esauditi come quelli del genio della lampada, almeno non nella maniera e nei tempi in cui le nostre menti limitate si aspettano.

Quella notte, quella piccola signora indiana era la mia manifestazione e sicuramente era lì per insegnarmi qualcosa, qualcosa che spesso è al di là delle parole.

Sujaya cominciò a raccontarmi in modo non lineare storie e aneddoti della sua vita e io cercai di ascoltarla profondamente abbandonando ogni altro pensiero.

Nel corso della narrazione di tanto in tanto faceva delle pause, guardava davanti a sé, sorseggiava il suo cocktail alla vodka ed ecco che improvvisamente la sua voce tuonava e mostrava lo sguardo coraggioso e la dignità di una tigre. Come me, anche a lei piaceva rapportarsi alle persone in modo diretto, parlando del più e del meno. Anche lei, come me, era un’osservatrice, una cantastorie.

Sono sempre stato attratto dalle storie della gente comune, vite di gente piccola e ordinaria, che vive e lascia un contributo per il solo fatto di essere sé stessa e, senza pretese e troppe ambizioni, si muove silenziosamente nei tanti retroscena della vita, invisibile agli occhi di chi cerca il grande. Vite nobili nella loro insignificante unicità, vite minute e graziose, quelle che Acheng chiama vite minime.

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L’Arrivo a Hong Kong e i viaggi in altri paesi dell’Asia 

Sujaya era nata a Lahore, in Pakistan. Suo padre faceva il pilota di aerei così lei era venuta a Hong Kong da ragazza con la famiglia e aveva studiato a Macau. Era cristiana e diceva che Dio era lo stesso per tutti anche se con nomi diversi, per i cristiani, musulmani, buddhisti e indù e non le piacevano le persone prepotenti con menti ristrette.

Era stata in tanti paesi dell’Asia ma per lei Hong Kong era il posto migliore. Infatti diceva che, anche se il costo della vita era alto, se lavoravi molto potevi guadagnare molto, che il sistema legislativo era buono come in Gran Bretagna e che la polizia non era corrotta come in Pakistan e in Malaysia. Nel corso degli anni era tornata più volte in Pakistan a Lahore ma non sarebbe voluta tornare a viverci per via della mancanza di un sistema legislativo valido che tutelasse la popolazione.

Sembrava però capire la corruzione dei poliziotti del suo paese quando diceva che erano troppo poveri e che le loro famiglie erano numerose. Nelle sue parole c’era quasi un tono di complicità.

Quando le chiesi com’era la Malaysia, mi rispose che lì la sicurezza non era buona. Gli dissi di farmi un esempio e lei rispose che una volta era stata scippata per strada.

Diceva che a Singapore, per quanto in certi aspetti simile ad Hong Kong, si guadagnava troppo poco rispetto al costo della vita.

“A Hong Kong  se non ti vai a cercare problemi non hai problemi.” Affermava con tono deciso.

“Hong Kong è il posto migliore!”

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Dio, fantasmi e fatture: il ruggito della tigre.

Come la maggior parte delle indiane a Sujaya piaceva parlare di Dio, dei fantasmi e della magia ma il suo atteggiamento verso queste cose era attivo, aveva come un fuoco che ardeva dentro di lei e bruciava ogni ostacolo.
“Qualcuno ha paura dei fantasmi io no, cosi gli dico: perché  hai paura? Una notte in un bagno pubblico ne ho visto uno. Era una signora di mezza età che mi ha sorriso e poi, quando mi sono girata, non c’era più. Sono uscita ma non c’era nessuno. Un’altra volta ho visto uno scheletro azzurro vestito elegante e gli ho detto: ciao! Dove vai?” Pronunciò queste ultime parole con grande veemenza e poi scoppio a ridere.

“Non ho paura, se hai paura vincono loro!” Diceva con la profonda convinzione di chi ha realizzato quello di cui sta parlando.

“Quando li vedo li colpisco con una ciabattata in testa e loro spariscono.”

Ho pensato che dicesse così forse perché con il caldo a Hong Kong vanno tutti in giro in ciabatte. Comunque io non avrei avuto lo stesso sangue freddo infatti da piccolo, e non solo da piccolo, dormivo sempre con una luce accesa proprio per tenere lontani i mostri o i fantasmi.

Poi Sujaya cominciò a raccontare di come una volta la moglie del suo capo, un’indiana, gelosa delle attenzioni  del marito verso di lei, le avesse fatto una fattura mettendole qualcosa nel cibo e di come lei, dopo aver finito di mangiare il pasticcio incantato, le avesse detto in tono di scherno: “Tu hai tanti dei! (Infatti la donna era musulmana e credeva in un solo dio ma Sujaya intendeva gli dei della magia nera). Non mi potrai fare niente!”

Mi confessò che una volta anche lei aveva usato la magia per conquistare un uomo di cui era innamorata ma che poi aveva lasciato perdere. Incuriosito le chiesi come facesse a durare un qualcosa basato su un trucco magico e lei mi ripose con semplicità, con quel suo inglese dall’accento indiano, che bastava andare ogni sei mesi dal mago e pagarlo per rifare la magia, tutto qui.

“Queste cose come la magia nera  esistono ma chi le usa riceverà  una punizione da Dio in questa stessa vita, non dopo.” Diceva con il suo fervore. Capivo perfettamente quello che voleva dire, per me quel suo Dio era una forma personalizzata della realtà assoluta e del karma.

“Sei sposata?” Chiesi.

“No, non mi sono mai sposata. Una volta mi piaceva un uomo in Pakistan, io vivevo a Londra e gli mandavo i soldi ma poi ho capito che lui era interessato solo a quelli.

“E poi?”

“Poi ho saputo che andava da un mago per far sì che io continuassi a stare con lui così sono andata da un mago anch’io e ho interrotto la relazione.”

I venditori di biscotti

Sujaya inoltre mi confermò che quei poveri indiani, pakistani e bangladeshi che avevo visto per la strada giorni prima e che sembravano vendere i biscotti della nonna erano solo pesci piccoli e che i grandi boss erano locali.

“A Hong Kong ci sono tanti trafficanti di droga e il governo li protegge, altrimenti come farebbero ad esserci così tante persone ricchissime con macchine di lusso.” (Visto che Hong Kong è uno dei più importanti porti del mondo questo potrebbe anche essere vero).

Sujaya forse alludeva alle tante Porsche, Ferrari e Lamborghini che si vedono in città. Sfrecciano rombando nella notte per quelle vie strette ma ahimè! I proprietari possono sfogare quel loro desiderio di libertà solo da un semaforo all’altro, tra un verde e un rosso.

Insomma come accadeva nel passato in Cina, i mercanti sono locali ma i cavalli e le spezie sono stranieri.

Le storie di Sujaya erano divertenti e piene di quella passione e giocosità che non avevo trovato al mio arrivo ad Hong Kong. Ma tra i tanti segreti che Sujaya mi aveva svelato, per uno come me, dal forte spirito bucolico, amico di Orazio e Virgilio, uno è stato quello più prezioso e per questo l’ho lasciato per ultimo.

Raccontai a Sujaya la mia delusione riguardo al fatto che a Hong Kong non si potesse stare seduto a lungo in un ristorante e che non si potesse dormire sulle panchine o nei parchi e lei mi diede la chiave e cioè che bastava prendere il cibo, il tè o il caffè takeaway e sedersi in un parco. “Così te la puoi prendere con calma e stare quanto vuoi.”

“Non c’è problema! Puoi tranquillamente dormire sulle panchine, se qualcuno ti dice qualcosa fregatene. Digli: io non vado via, andate via voi.”

Mi raccontò poi di come, quando lei si metteva a dormire sulle panchine e arrivava la polizia, alzasse la voce e li facesse andar via.

“Non ho paura di niente! Solo di Dio!” Diceva guardandomi con il suo sguardo di tigre e le movenze di un pirata dei sette mari.
“Se hai paura vincono loro!”

Era questo forse l’essenza dell’insegnamento di Sujaya? Non so, forse la prossima volta che mangerò un bel panino con prosciutto cotto e formaggio all’ombra di un albero mi verrà in mente qualcosa. Qui non vendono panini con la mortadella.

Alla fine…fatevi il minestrone!

Ieri pomeriggio sono stato invitato ad una conferenza sulla nutrizione alla in un ufficio che poi scoperto essere la Amway.

Sono arrivato alla metro di Yao Ma Tei verso le sei e ho incontrato la mia amica Josephine con i suoi amici e altri veterani esperti in un ristorante lì vicino. Siamo rimasti lì  a chiacchierare un po’ e io ho ordinato un nasi goreng, il riso saltato in padella indonesiano. La mia compagnia era animata e si parlava di alimentazione equilibrata, del valore del nutrizionismo e dell’importanza della salute del corpo. Forse anche questo era un segno che dovevo ricominciare a prendermi cura del mio di corpo, che come diceva Mao è il “capitale del popolo.” Nel frattempo alla cena si sono aggiunte altre persone.

C’erano due tipi in particolare tirati a lucido di tutto punto, uno anche con i capelli tirati indietro con la spuma tipo America anni ’30. Parlavano un ottimo inglese e anche il cinese mandarino, si muovevano come degli uomini sui trent’anni e sembravano quasi degli attori di Hollywood ma, con grande sorpresa, ho scoperto che ne avevano soltanto  ventuno. Il loro modo di essere mi sembrava innaturale,  un po’ troppo sopra le righe per delle persone della loro età. Si atteggiavano molto e questo era per me comico e un po’assurdo. Uno di loro, quello con il capello leccato, mi avevano detto appunto che era tornato dai suoi studi in America.

All’inizio avevo pensato di parlare con gente adulta d’esperienza e, come al solito in queste situazioni, specialmente a Hong Kong e nelle comunità dei cinesi ricchi della Malesia e di Singapore, mi sentivo un po’ a disagio, una pecora ancora più nera di quella che già sono. In questi posti, infatti la gente già da molto giovane è focalizzata sul business e sul successo e forse anche troppo ma questo del resto è un fenomeno diffuso un po’ in tutta la Cina: o hai successo o non sei nessuno e la quantità di successo è misurata dalla quantità di ricchezza che uno possiede.

Infatti gong xi fa cai (che significa su per giù “congratulazioni! Arriverà la ricchezza/prosperità”) è uno degli auguri più consueti durante il capodanno cinese. Dopo ripensando al fatto che erano solo ragazzi di ventunanni mi sono detto “In soggezione per dei ventunenni? Ma io me li magno a colazione quelli lì” Sarò pure una pecora nera ma me li bruco insieme ai fasci d’erba. A parte gli scherzi, torniamo al centro del racconto che è la conferenza sul nutrizionismo. Dopo aver finito di mangiare ognuno ha pagato quello che aveva preso e siamo saliti all’ufficio della Amway. Qui c’era una grande sala conferenze dalle pareti bianche lucide e molti schermi davanti e tutt’intorno. Sembrava l’interno di un’astronave.

Sedevamo su sedie pieghevoli di ferro e plastica su un pavimento moquettato azzurro, continuava ad arrivare gente e la sala si stava riempendo. Il mio posto era vicino a una delle pareti accanto a Josephine e venivo spesso abbagliato dalla luce del monitor alla mia sinistra. Dopo la breve introduzione di una donna sui quarant’anni è arrivata la star della serata, una donna grassa dal viso tondo e i capelli molto corti ondulati  con la permanente. Era vestita con dei pantaloni e una giacca neri con dei motivi rossi  colorati un po’ in stile cinese e al suo arrivo è partita  una musica spaziale dai suoni taglienti, con qualche suono dei raggi di Goldrake.

Chiu chiu chiu bssh bssh chiu..tr tr tr tr chiu….Sembrava la musica di quando un wrestler entra sul ring. Erano note di sfida e ricordavano anche quelle di un gioco a quiz. La signora  doveva avere, oppure li dimostrava, più di 50 anni, era piena d’energia e parlava con entusiasmo a voce altissima. La lingua era il cantonese e Josephine mi traduceva pazientemente tutto. Si è parlato soprattutto del cibo pericoloso che circola in Cina. Abbiamo visto dei filmati e ci hanno dato delle fotocopie che ogni tanto la signora faceva leggere ad alta voce e tutti in coro producevano una specie di cantilena. La conferenza era molto animata e la signora era molto teatrale. Si muoveva, rideva, urlava, gesticolava facendo espressioni strane catturando l’attenzione dei partecipanti che di tanto in tanto ridevano battendo le mani.

Olio di fossa (Digou You), olio ricavato dagli scarti cibo e liquami ripescati dalle fogne; carne di maiali malati; gamberetti fatti crescere con la pillola contraccettiva; polli morti trattati e riciclati per i ristoranti; carne di topo trattata con urina di cavallo per farla sembrare di pecora; detersivo per rendere i cibi più croccanti, insomma di tutto di più.

Oltre a questo ha detto di non bere Coca Cola, ha dato dei consigli su come premunirsi prima di una giornata alcolica, infatti in Cina quasi sempre si beve pesantemente nelle cene d’affari e di lavoro e sono eventi a cui il più delle volte non ci si può sottrarre. Dopo questi e altri consigli sulla dieta e il comportamento è stata data la panacea, la ricetta per una zuppa disintossicante che ci è poi stata fatta assaggiare in un bicchierino di plastica.

C’erano il sedano e altre verdure bollite ed era esattamente uguale al minestrone. La conferenza, con tutta la sua stranezza, sarà stata anche piena di brava gente e buone intenzioni ma mi è venuto da ridere pensando che, dopo più di due ore di conferenza, con musichette spaziali e scene teatrali la semplice soluzione era: non mangiate troppe schifezze e fatevi il minestrone! Comunque sono dell’idea che si possa imparare qualcosa de tutte le situazioni che ci si presentano e che, a parte il tono ironico di quest’articolo, questi consigli possono essere molto utili. Dopo tutto Non tutto quello che è ovvio per noi è ovvio per tutti.

Il giorno dei buoni auspici

L’altro ieri è stata una giornata piena di buoni auspici. Il pomeriggio siamo andati con Donald al tempio di Wong Tai Sin, una delle divinità più importanti qui a Hong Kong. Al ritorno abbiamo preso la metro e Donald, controllando la sua carta, ha scoperto di avere più soldi di quanti avrebbe dovuto avere. ” La benedizione di Wong Tai Sin! Forse dovrei controllare la carta anch’io” Ho detto.

Avevamo  deciso di andare a Kowloon Tong ma abbiamo preso la metro nella direzione sbagliata scendendo alla stazione di Chai Hung (cin. arcobaleno) dove, per la prima volta in vita mia, ho visto una ragazza cieca che correva veloce. Sorrideva toccando il terreno davanti a lei con il bastone. Ormai vivendo in Asia da tanti anni, ho imparato a interpretare alcuni segni e la mia interpretazione è stata: “cieca che corre sull’arcobaleno” e ho detto a Donald: “segno di buon auspicio! Non dobbiamo sottovalutare la benedizione di Wong Tai Sin!” “Sì dovevamo sbagliare stazione per vedere il segno” diceva Donald.

 Alla fine abbiamo ripreso la direzione giusta e siamo scesi a Kowloon Tong. Eravamo ancora indecisi dove andare, da quale uscita uscire, così ci siamo avvicinati alle indicazioni delle varie uscite. La nostra attenzione è stata catturata dall’uscita F: “To Fuk Road” che in cinese si traduce pressappoco “la strada della molta fortuna/felicità” ma per noi la lettura più immediata e stata quella inglese.

Così contenti dell’ennesimo auspicio di Wong Tai Sin abbiamo cercato in tutti i modi di uscire dall’uscita F, chiedendo informazioni a destra e a sinistra e,  quando ci dicevano di uscire da un’altra uscita, spiegavamo che dovevamo uscire alla F e alla fine ci siamo riusciti. Buon Anno Nuovo!

Spendi e non ti fermare!


1 Febbraio 2016

Stasera  ho attraversato Nathan Road proseguendo lungo Jordan Road fino all’ingresso di Temple Street dove mi sono fermato a mangiare in un negozio una specie di porridge dolce con dei legumi. Temple Street (Miao Jie) è una via famosissima che da Austin Road taglia Jordan Road e arriva a Yao Ma Tei dove c’è il vecchio tempio di Tin Hou, l’Imperatrice del Cielo.

Mentre proseguivo lungo la via, una bella signora ben vestita mi ha rivolto la parola dandomi dei volantini e chiedendomi se sapevo che Gesù Cristo mi amava e voleva per me la salvezza eterna nel Paradiso. Ho capito subito che era una missionaria ma ho voluto ascoltarla dandole il dono dell’ascolto permettendole così di compiere la sua buona azione. Il suo inglese era quasi perfetto sembrava solo avere un lieve accento di Hongkong ma ascoltandola con più attenzione  di tanto in tanto riuscivo a cogliere anche un leggero accento coreano. Alla mia domanda se era coreana ha risposto di sì ma che viveva a Hong Kong da tanti anni dove aveva studiato il Vangelo.

Parlava con il cuore, era una grande oratrice e  l’ascoltavo con piacere, soprattutto qui nel centro di Hong Kong dove il contatto umano tra persone che non si conoscono è pressoché inesistente e, quando c’è, è quasi sempre per qualcosa di funzionale come pagare qualcosa o chiedere un informazione. Gli unici che ti parlano per strada sono gli indiani, pakistani e bangladeshi vicino alla Chungking Mansion, lungo Nathan Road che ti vogliono vendere vari tipi di droghe, sempre con la loro cortesia e gli occhi dolci come se ti stessero vendendo i dolcetti della nonna. “Sir! Where are you going? Do you want something Sir?” Oppure che ti vogliono vendere orologi o portare dal loro tailor ma forse alla fine ti chiedono anche se vuoi quel something.

Altri sono un po’ meno discreti: “Hashish? Opium?”  Alcuni fanno direttamente il gesto della sniffata ma alla fine rimangono sempre tutti d’un pezzo e ti fanno un sorriso come se fosse stato tutto uno scherzo a cui tu avevi creduto. Come gli incantatori di serpenti i loro occhi sono magnetici. Gli altri che cercano il contatto per strada, a quanto pare, sono gli evangelizzatori, mentre il resto della gente di Hong Kong si muove roboticamente sui marciapiedi, sulle strisce pedonali e nelle stazioni della metro (MTR), guardano avanti, per terra o lo schermo del cellulare, comunque cercano di evitare qualsiasi tipo di contatto.

I loro movimenti sono lineari e veloci e sono scanditi da bip e click, insomma tutto è inumanamente efficiente. Si muovono tutti senza fermarsi, sembra che fermarsi sia negativo, quasi proibito. Così quando mi fermo e mi guardo intorno senza guardare uno smartphone,  mi guardano con sospetto forse pensando che sia un tipo losco, ma qui ragionano come nei menù fissi di Mac Donald, se non è il N.1  è il N.2, quindi forse penseranno che sia un indiano o un evangelizzatore.

Ecco forse perché la sera vedi quegli stessi indiani bere birre e altri alcolici ai lati della strada o nei Seven Eleven, con faccie depresse e alienate. Loro, abituati a casa a sorseggiare lentamente il loro chai e a guardare film di Bollywood, dove tutto gira intorno ai sentimenti e alla passione, in un posto dove il contatto umano è visto con sospetto e, a volte, percepito come una minaccia. “Pyar” amore , “musti”, “pagel” pazzo, “diwana” folle, cantano le loro canzoni

Proprio a un gruppo di loro in un Seven Eleven ho cantato alcune di queste canzoni regalandogli più gioia in dieci minuti di quella indotta da i loro svariati alcolici in non so quanto tempo e per questo sono finito anche su Facebook.

A volte quello di cui la gente ha più bisogno è ascolto, uno sguardo o un sorriso sincero che li faccia sentire umani e, se non siamo in grado di darglieli, siamo noi poveri, poveri che corrono dietro al denaro, quindi siamo noi i veri mendicanti.

La stessa cosa del Seven Eleven  è accaduta ieri sera in un pub a Lan Kuai Fang, quando ho cantato le stesse canzoni ai camerieri, un indiana e due nepalesi. Abbiamo cantato insieme ed erano così contenti che ci hanno offerto da bere, dicendo che pagava la casa. A Hong Kong si trova tutto ma la felicità non sembra essere un bene di consumo, altrimenti molti ricchi l’avrebbero già comprata.


4 Febbraio 2016

A Hong Kong le panchine sono pochissime e di quelle poche che ci sono, alcune, come quelle dietro Yao Ma Tei, sono scomode della grandezza di una sedia con vicino scritto ” Area di Riposo Temporaneo” per scoraggiare ogni idea di lunga permanenza, le piazze sono praticamente inesistenti e la maggior parte della vita sociale si svolge in luoghi dove si deve spendere soldi: bar, ristoranti e shopping centres ma, per via dell’afflusso continuo di gente, ci si deve alzare e cedere il posto dopo poco tempo quindi si è costretti a rimettersi in moto o consumare nuovamente.

Gli unici luoghi dove si può stare a lungo sono le catene internazionali come Mac Donald e Starbucks (anche Starbuks però qui non  ha i soliti divanetti e poltroncine, i tavoli sono più piccoli, concede solo 30 minuti di Wi-Fi per ogni consumazione e ha pochissime prese per la corrente).

Dopo il freddo degli ultimi giorni è  uscito il sole e finalmente io e Donald, un mio amico scozzese che ha girato il mondo in bicicletta e che ora insegna inglese a Chengdu, abbiamo trovato rifugio dal caos e dallo stress cittadino in una piccolissima oasi di verde in mezzo a questa giungla di cemento: il Kowloon Park.

Qui siamo rientrati in contatto con quella che dovrebbe essere la vera casa dell’essere umano: la natura. Per la prima volta dopo tanto tempo abbiamo potuto riposare lo sguardo dagli infiniti logo, brand e pubblicità di cui la città è sommersa e che dopo un po’ ti fanno girare la testa (una specie di Sindrome di Stendhal per i Brand), abbiamo passeggiato all’ombra degli alberi, riascoltato il cinguettio degli uccelli,  rivisto la gente camminare piano e non in preda alla frenesia come al solito ma soprattutto, dopo tanto tempo ci siamo potuti sedere e rimanere seduti senza consumare o spendere niente.

Camminando lentamente ci siamo avvicinati ad una piazzetta circolare vicino ad una delle uscite del parco e ci siamo seduti al sole sul basso muretto che circonda l’aiuola al centro della piazza. Donald vi si è sdraiato sopra e io  gli ho detto scherzando che forse stavamo facendo qualcosa di illegale. “È un giorno così bello, che importa!” Mi ha risposto.

Pensando che avesse ragione è che sarebbe stato bello concedersi un riposo in questa città che non dorme e non si ferma mai, mi sono sdraiato anch’io sotto il sole come un rettile e ho chiuso gli occhi rilassandomi finalmente un attimo. Dopo neanche due minuti una donna inserviente del parco si è avvicinata: “Non si può dormire, si può solo sedere!”

“Ma come? In un giorno di sole così bello!” Le ha risposto Donald.

“Questa è la regola” Ha risposto lei ma in fondo sembrava capirci.

Siamo ancora qui e seguiamo la regola, non dormiamo ma il lato positivo è che almeno stiamo seduti senza fare  o comprare niente. Solo semplicemente seduti.