La saggezza dietro le mura rosse

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Quando arrivai a Chengdu per la prima volta, quasi vent’anni fa, fui colpito, da come qui il Buddhismo e il Taoismo fossero ancora forti e vivi tra la gente, soprattutto tra gli anziani. Era estate e venivo dalla polverosa Cina del nord e, a parte il Fayuan Si a Xuanwu Men e un altro monastero a Xinjie Kou a Pechino, non avevo avuto l’impressione che il Buddhismo fosse così diffuso tra i pechinesi o i cinesi che avevo incontrato.

Mi ricordo di come nel monastero di Xinjie Kou parlai con un uomo di sessant’anni che mi disse che era la prima volta nella sua vita che metteva piede in un tempio buddhista.

Nel Sichuan rimasi stupito nel vedere come i templi buddhisti fossero vissuti, non solo come posti in cui pregare ma anche per altre attività ricreative. Nei loro cortili e giardini, infatti, ci si poteva incontrare per mangiare cibo vegetariano, bere il tè, giocare a carte o a majiang e cantare brani dell’opera locale. Questa loro tollerante accoglienza, in cui la spiritualità e la vita di tutti i giorni non erano mai così separate, faceva sì che in qualche modo ognuno, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente fosse a contatto con questo mondo. I buddha dalla penombra delle loro sale osservavano in silenzio la vita che si svolgeva all’interno di quelle mura rosse.

A Chengdu e nei dintorni ci sono tanti monasteri e templi buddhisti e taoisti, c’è la Montagna Emei, sacra al Bodhisattva Samantabhadra (cin. Puxian Pusa), la montagna taoista Qingcheng e il Grande Buddha di Leshan.

Nel centro della città ci sono il Monastero della Chiara Illuminazione, Zhaojue Si, il Monastero della Grande Compassione, Daci Si  e il Tempio della Capra Verdeil Qingyang Gong ma il mio preferito è quello che si trova tra le vie di Wenshu Fang piene di negozi, sale da tè e ristoranti a ridosso del lato nord del Primo Anello: il Monastero di Manjushri, il Wenshu Yuan.

Un altro tempio bellissimo è il Monastero della Luce dei Tre Gioielli, Baoguang Si che si trova a Xindu, un nuovo quartiere di Chengdu e che si affaccia su una grande piazza nuova. Il tempio custodisce alcune tra le poche reliquie del Buddha conservate in Cina e ha un grande giardino con uno stagno di fiori di loto, una tradizionale sala da tè all’aperto con sedie e tavolini di bambù e un padiglione dove ci sono delle statue a grandezza naturale dei Cinquecento Arhat (Wubai Luohan) e di altri bodhisattva.

Tanti anni fa Xindu era ancora una piccola cittadina a un’ora di autobus da Chengdu e al posto della piazza sulla strada che portava al Baoguang Si si affacciavano negozi con fuori esposti majiang dai mattoncini di vari colori (verde acqua, blu, fucsia, gialli, lilla ecc. ecc.). E’ stato qui che ho comprato il mio primo majiang ed è stato proprio su uno dei tavolini del giardino del tempio che ho imparato le regole di quel gioco e o iniziato a giocare, vicino ai fiori di loto, poco lontano dagli sguardi dei Cinquecento Arhat.

Il Wenshu Yuan però è sempre stato il “cuore” della città e, prima della costruzione di Wenshu Fang, si trovava in mezzo a viuzze strette, tra vecchi palazzi bassi. La sala da tè e il ristorante vegetariano del tempio erano tra i più frequentati e andavo sempre lì a mangiare o bere il tè.

In una delle mie visite avevo fatto amicizia con la coppia di anziani, marito e moglie, “custodi” del tempio che vivevano in una casetta piccolissima adiacente al muro di cinta accanto alla porta laterale. Non capivo molto quello che dicevano perché parlavano solo il dialetto locale e io ero uno studente di cinese alle prime armi ma loro sembravano capirmi abbastanza. La moglie era la più comunicativa, era lei che mi aveva adescato a uno dei tanti tavolini della sala da tè invitando me mia madre e un amico a prendere il tè nel cortiletto della sua casupola insieme al marito che aveva più di novant’anni. Ci aveva regalato delle medagliette dorate con l’immagine del Buddha della Medicina (Yaoshi Fo) e aveva tirato fuori per l’occasione, probabilmente molto rara e preziosa, dei biscotti scaduti. Quando la vidi per la prima volta muoversi tra i tavoli nel giardino vestita di nero e venirmi incontro, mi sembrò essere una maga.

Questo monastero è sempre stato per me un punto di riferimento, una culla di spiritualità, un posto dove caos e tranquillità sembravano stranamente coesistere ma dove anche il caos in fondo era permeato da una più vasta dimensione di quiete e contenuto in essa così come le nuvole sorgono e sono contenute nello spazio azzurro del cielo. In Cina è qui che sono sempre ritornato per riconnettermi con la saggezza di base della mia mente, rappresentata dal Bodhisattva Manjushri (cin. Wenshu Pusa). Con il tempo questo è diventato un rito e ancora oggi, ogni volta che arrivo a Chengdu, vado a rendere omaggio alla grande statua di Manjushri a quattro braccia che si trova nel giardino del monastero, all’ultimo piano della biblioteca.

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Questo infatti è uno dei segreti del Wenshu Yuan insieme alla reliquia del monaco Xuanzang e altre reliquie di Buddha e arhat conservate nei due lati dell’ultimo padiglione, quello del Vero Dharma (Zhen Fa), del Ruggito del Leone (Shizi Hou).

E’ così che, dopo aver ritrovato Manjushri, Il Vero Dharma e Il Ruggito del Leone, la mia mente è di nuovo forte e chiara. Sono di nuovo saggio e posso rilassarmi bevendo una tazza di tè al gelsomino in mezzo al caos dei giocatori di carte e di majiang mangiando semi di girasole.

I nove draghi prigionieri

In uno dei discorsi finali del ritiro di dieci giorni il maestro Goenka consigliava di meditare prima del sorgere del sole, verso le cinque del mattino quando ancora la gente dorme, parlava infatti di come le persone, in ogni loro azione, fossero animate dagli stati mentali negativi dell’attaccamento e dell’avversione e di come questi si riversassero nell’ambiente circostante come fattori inquinanti e avessero il potere di influenzare la nostra meditazione.

Il discorso filava, dopotutto quando entri in un ambiente dove tutti sono tristi o felici sei in qualche modo affetto da questi stati d’animo, ma il fatto che questo potesse influenzare la propria capacità di calmarsi anche stando nella propria stanza mi sembrava un po’ esagerato: “possono davvero gli stati negativi degli altri influenzare la nostra calma mentale fino a questo punto?” Mi chiedevo.

Sugli scaffali delle librerie nella sezione “spiritualità” ci sarà capitato di imbatterci in quei libri sull'”energia” spesso editi da case editrici anonime con titoli come I Vampiri Energetici, L’Energia Guaritrice della Preghiera, Gli Angeli Custodi e altri titoli strani questo genere.

Quando, perso nel magnetismo mentale del libro-shopping, mi ci cade lo sguardo, li sfoglio spesso per curiosità, ne guardo la copertina, le illustrazioni interne e tutta quella serie di schemi, diagrammi e tabelle che li costituiscono. Ora ammetto di averli sempre considerati libri di serie F1 e per questo non particolarmente rilevanti ma da un po’ di tempo ho cominciato a pensare che anche questa sia una sottile forma di orgoglio e che, come tutte le forme d’orgoglio, renda impossibile ogni vero apprendimento. Infatti ogni cosa è in un certo senso di per sé un insegnamento, sta a noi coglierlo.

Insomma, le verità di questi libri mi sono sembrate in un certo senso connesse a quello che Goenka diceva nel suo discorso, verità che mai prima d’ora ho sentito così reali e tangibili come qui a Hong Kong, dove le ansie, i desideri, le speranze e le delusioni  delle persone sono così intense e concentrate in uno  spazio così ristretto, da creare delle polarità energetiche di grande forza.

Come le acque di un torrente impetuoso che scorrono fragorosamente in una stretta gola di montagna (questa è anche l’immagine evocata dal fiume di gente che avanza freneticamente nelle strade strette tra le gole dei grattacieli) o come un cielo nuvoloso, apparentemente “calmo” ma carico dell’elettricità del fulmine.

Il fatto che il magnete trainante di questa città sia forse solo esclusivamente il denaro rende il tutto più intensificato: i soldi e il potere, infatti, attraggono facilmente il “lato oscuro della Forza” e mettono alla prova anche il più puro e forte dei cavalieri Jedi.

Mi era capitato più volte di tornare da una giornata in centro con il mal di testa ma non avevo mai pensato che questo potesse essere legato all’energia del posto. All’inizio infatti avevo pensato che fosse una coincidenza e avevo cercato le cause altrove ma poi , affinando sempre più le mie percezioni, e osservando più attentamente le circostanze in cui questi sintomi si manifestavano, fui quasi certo che queste sensazioni di malessere dipendessero dall’ambiente stretto e chiuso e dalle persone che mi giravano vorticosamente intorno.

Anche adesso, quando vado in centro (soprattutto nelle zone più affollate di Hong Kong Island come Central o Caswaybay o di Kawloon come Tsim Sha Tsui, Jordan, Mongkok e Hung Hom) noto che queste sensazioni diventano più forti e vanno attenuandosi appena mi allontano gradualmente dal caos. Una delle energie più evidenti a Hong Kong è l’aggressività, il modo in cui la maggior parte della gente si muove per strada è secco e ruvido, non c’è gentilezza nelle espressioni, nei movimenti, nei gesti e la maggior parte della gente si muove davvero veloce, troppo veloce. Inoltre penso forse di non aver mai parlato qui con una persona veramente calma, c’è una certa ansia di fondo, quasi sempre presente nelle espressioni e nel tono di voce che è sempre veloce e confuso.

In altre città forse questo è meno evidente o determinante perché la vita non è così veloce, c’è molto più spazio, piazze e giardini dove la gente si riposa e non è così ossessionata dal lavoro o dal successo (inoltre non tutto gira così esclusivamente e freneticamente intorno al denaro, almeno non ai livelli di Hong Kong) e soprattutto non ci sono più di 7 milioni di persone in molto meno di 250 kmq (infatti dei 1000 kmq di territorio meno del 25% è costruito e solo il 7% è a scopo residenziale).

È strano come Macau, con i suoi casinò e la sua fama della Las Vegas dell’Asia, sia comunque una città più dolce. Notai come la gente lì fosse più rilassata e camminasse piano e rimasi stupito nel vedere un  cinese locale leggere comodamente il giornale la mattina con tutta calma su una delle panchine di una piazzetta o la gente passassare più tempo nelle caffetterie. Forse era stata l’influenza dei portoghesi pensai o forse il fatto che lì ci vivono in pochi o che a Macau ci sia un lato oscuro latino della Forza (Lado escuro da Força) ma queste sono solo mie supposizioni. Adesso torniamo all’argomento principale, volevo solo fare un paragone.

In Cina esiste da millenni l’arte dell’individuare le energie della natura cercando di convogliarle in modo positivo, o di non ostacolarle, l’antica geomanzia cinese: il feng shui.

La teoria base del fengshui è che l’ambiente esterno influenza la nostra condizione psicofisica. Stranamente ora il fengshui delle città europee sembra essere migliore di quello di molte città cinesi.

A Hong Kong si dice che il feng shui del territorio sia estremamente positivo, quasi ideale per attirare prosperità e longevità, con il mare davanti, le verdi montagne nell’entroterra e le sue isole e coste guarnite di innumerevoli insenature e golfi. Nel feng shui infatti l’energia del Qi, rappresentata dal drago, scende dalle montagne e si ferma davanti a uno specchio d’acqua dove si raccoglie e si condensa. L’ironia però vuole che l’intervento esterno dell’uomo abbia quasi letteralmente distrutto il feng shui del posto, rendendo l’area urbana di Hong Kong una delle città con il peggiore feng shui dell’Asia.

I draghi, infatti, come gli abitanti umani di questa città, sono rimasti imprigionati nel cemento e la loro magica perla sta perdendo la sua lucentezza e con essa il suo potere. I draghi non hanno colpa, sono stati imprigionati dagli uomini ma gli uomini chi li ha imprigionati?

Esiste una prigionia mentale, quella dell’attaccamento e dell’avversione, dell’incapacità di vedere la vita sotto altri punti di vista, della resistenza al cambiamento e una prigionia fisica materiale, del luogo dove si vive. Spesso una genera e influenza l’altra.

Mi diverto a pensare come il concetto di prigionia sia relativo, infatti molti alloggi qui sono più simili a celle d’isolamento (sempre però a carissimo prezzo) mentre alcune prigioni dell’Austria o della Norvegia sembrano pensioni di villeggiatura. Con i prezzi del real estate ad una media di 10000-12000 HKD (1200-1400 euro) per “piede quadrato”, alla prigionia si aggiunge anche la schiavitù di decenni di mutuo sulla casa e il cittadino-prigioniero che dichiara con gioia la “grande notizia” di avere ottenuto il mutuo dalla banca, ora e anche schiavo.

Anche io sono prigioniero qui, prigioniero di una città, prigioniero di un’isola, prigioniero di una stanza, prigioniero di un sistema di valori che non mi piace ma spesso guardo il cielo e l’esempio da seguire, la via verso la libertà me la danno loro, le aquile che volano in quegli spicchi d’azzurro lasciandosi trasportare dalle correnti e le cui sagome si specchiano nei vetri  dei grattacieli.

E’ l’alba e dalla finestra al trentacinquesimo piano di un grattacielo guardo sotto di me una stretta strada ad alto scorrimento incurvarsi leggermente e passare in mezzo a degli anonimi palazzi altissimi poco lontano che serrano dei campi sportivi. In lontananza una linea serpeggiante di un treno sopraelevato passa dietro agli edifici e si vede anche una vecchia fabbrica messa di traverso. Inspiro ed espiro lievemente e mi viene in mente il fengshui.”A mali estremi estremi rimedi!” penso divertito ed è così infatti che dei maestri di feng shui vengono pagati a carissimo prezzo per “rimediare” ai misfatti dell’uomo (che qui mi sembra molto confuso). Io comunque ho deciso di seguire i miei maestri alati perché la vera libertà e il feng shui migliore anche i cittadini più ricchi di Hong Kong non se li possono comprare.

Questa è Hong Kong: la città dei ricchi poveri

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Il mio primo arrivo a Hong Kong è stato tutt’altro che traumatico, infatti come avevo scritto in un precedente post, ero andato a partecipare ad un ritiro di vipassana di dieci giorni nel villaggio di Hang Tau a Sheung Shui  ed ero entrato subito in una routine di ritmi lenti, scanditi da gong e silenziose pause del tè. Arrivavo dal rumore e dal disordine della Cina “Continentale” (Mainland o Da Lu come la chiamano un po’ tutti i cinesi per differenziarla da Hong Kong, Macau e Taiwan) e questa mi sembrava un’oasi di pace e libertà, almeno qui mi sentivo lontano dalla politica e dalla propaganda che ronzava dalle radio e compariva sugli schermi un po’ ovunque.

Alla fine di quel ritiro passai il resto della mattina e tutto il pomeriggio in giro nella zona di Tsim Sha Tsui, dove si trova il vecchio porto, il Victoria Harbour, e presi lo Star Ferry fino a Central  su Hong Kong Island. Venendo da dieci giorni di ritiro con una media di dieci ore giornaliere di meditazione, mi sembrava normale vedere tutto e tutti scorrere più veloce intorno a me e la cosa non mi aveva impressionato più di tanto. Passai delle ore intense come turista nella città prima di riprendere il treno verso Luohu e passare il confine per tornare a Shenzhen, nel Continente.

La seconda volta ci tornai due anni dopo sempre per qualcosa di “spirituale”: il primo insegnamento Dzogchen del mio maestro in Cina. Venivo da Chengdu e avevo prenotato una stanza economica alla Hakka’s Guesthouse, nell’Hua Feng Da Sha, in un grande e fatiscente edificio sulla via principale di Kawloon, Nathan Road, non lontano dal casino del Mirador Mansion e del Chungking Mansion, dove c’è la maggior concentrazione di guesthouse a poco prezzo della città.

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La stanza era forse la più piccola in cui io avessi mai pernottato, fatta eccezione per una di Bangkok e quella di Linxia. Comunque era sicuramente la più piccola per quel prezzo visto che pagavo 30 euro ma questo fattore non influiva più di tanto sul mio umore perché ero entusiasta di partecipare all’insegnamento e avevo tutta una città da scoprire. Rimasi in tutto una decina di giorni e, siccome l’insegnamento era la sera, il giorno andavo sempre in giro, uscivo la mattina e tornavo la sera tardi. Mi perdevo per le strade e le stradine seguendo il flusso e le sinergie di quella che per me era un’enorme Chinatown che sembrava uscita dai film di John Carpenter.

A Hong Kong avevo un vecchio amico conosciuto a Roma molti anni prima, spesso andavamo in giro insieme e lui mi mostrava la vita e la cultura locale. In quei giorni abbiamo visto una buona parte delle attrazioni turistiche e ho sperimentato in piccolo come gli Hongkonghesi vivono la loro città. Hong Kong allora mi sembrava una città molto cool.

L’anno dopo feci un biglietto Roma-Hong Kong perché non avevo ancora un visto per la Cina e quindi decisi di farlo lì. Anche questa volta presi una stanza alla Hakka’s Guesthouse fermandomi due settimane. Alla fine di quel viaggio presi l’aliscafo approdando in una terra amica e come un gesuita mi preparai per entrare a corte degli imperatori, arrivando a Zhuhai da Macau. Questa volta non rividi Tommy, il mio amico di Hong Kong perché non c’era ma girai sempre molto la città, divertito da quel ritmo veloce ed energico che mi girava intorno come un ciclone mentre sedevo in un Cha Can Ting bevendo il tè con latte locale e addentando sandwich con prosciutto e formaggio.

Sì infatti una cosa che ho capito dopo è che finché consumi, alimenti la catena e sei nel flusso, non sei estraneo a quel sistema e tutto fila liscio: come l’acqua.

Le leggi della termodinamica che regolano il movimento veloce di quei corpi nello spazio sembrano essere direttamente proporzionali a quelle che regolano la Borsa o le banche e i circuiti elettronici degli ATM. Spendi e non ti fermare! (Almeno non senza consumare). Consuma o continua a produrre, non riposare e soprattutto non pensare (perché forse se pensassi ti renderesti conto di questa grande follia, di tutto questo fumo senza arrosto).

Sì, è vero che oggi sempre più, tutto gira intorno al denaro e che questo modello è stato inventato in Occidente ma io non l’ho mai visto così moltiplicato all’ennesima potenza come l’ho visto a Hong Kong dove, se la gente nell’ora di punta ti travolge, spesso non ti chiede neanche scusa e se ti fa cadere a volte, preso così com’è dalla frenesia del correre (forse perché il tempo è denaro), neanche se ne accorge (mi è capitato almeno un paio di volte).

Vivo a Hong Kong ormai da un’anno e l’ho girata abbastanza per dire di conoscerla ma sono sempre più convinto che, al di là del particolare effetto scenografico di molti dei suoi paesaggi caratteristici, questo sia uno dei posti più infelici che io abbia mai visitato.

C’è da dire però che nelle mie analisi sono sempre soggettivo e non mi piace essere “corretto” e coerente, quindi forse questa visione potrebbe essere, come a volte accade, solo passeggera e filtrata attraverso stati d’animo che possono cambiare, o forse semplicemente ho vissuto troppo di tutto questo ma comunque per quanto possa piacere o non piacere, penso che certi elementi rimangano abbastanza oggettivi. Se volete quindi concentrarvi sui lati positivi leggete gli altri miei post che ho scritto o che scriverò su Hong Kong o altre pagine.

Come ho detto i lati positivi ci sono ma per me, soprattutto se si ha intenzione di vivere qui, la mancanza di spazio e la sproporzione esagerata del rapporto qualità-prezzo alla lunga li fa passare tutti in secondo piano.

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Sì, a Hong Kong tutto è conveniente, trovi tutto e di tutto quasi sempre a chilometro zero ma, soprattutto nelle zone centrali, questa città finisce quasi per essere un unico negozio urbano.

Nei lucidi e sterilizzati shopping centre la vita si svolge al chiuso sotto luci elettriche. Quando poi esci per strada e in pochi chilometri vedi sempre le stesse catene di negozi e conti la centesima scatola di Ferrero Rocher comincia a essere troppo.

I brand sono ovunque, anche sui vestiti della gente che attraversa di fronte a te ai semafori.

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Un altra’cosa che caratterizza Hong Kong è la varietà, infatti in poco più di 1000 kmq ci sono riserve naturali, montagne, isolette e spiagge dalla vegetazione rigogliosa. Questo è perfetto per un viaggiatore che si ferma qui pochi giorni o mesi ma dopo un po’ tutti finiscono per fare sempre le stesse cose e andare negli stessi posti e sembra un po’ di vivere in una di quelle bolle di vetro con la neve che vendono come souvenir.

La monotonia ci coglie un po’ dovunque ma a differenza di altre città dove puoi sempre prendere il treno o la macchina e allontanarti di chilometri e chilometri guardando la campagna o, quanto meno, la strada che scorre per ore fuori dal finestrino, a Hong Kong se vuoi viaggiare via terra ti devi accontentare di viaggi brevi, spesso insignificanti. Infatti Hong Kong è una città-stato, lo spazio è molto limitato e non e facile uscirne se non in aereo (infatti per andare nella “Cina Continentale” serve un visto e si deve passare il controllo passaporti).

C’è anche da dire, però, che con le montagne ricoperte di foreste incontaminate, le spiagge paradisiache e l’acqua cristallina dei paesi del Sud-Est Asiatico a poche ore di distanza  e soprattutto paesi come la Thailandia, dove il rapporto qualità-prezzo-convenienza-comodità, è tra i migliori dell’Asia, o la Malaysia, con l’ “isola cinese” dall’architettura coloniale di Penang, l’attrattiva di Hong Kong passa immediatamente in secondo piano (il mare qui infatti non è proprio pulito e le spiagge in alcuni periodi dell’anno si riempiono di rifiuti) e si riduce a quello che poi effettivamente è: un porto, uno snodo verso altri paesi. La Cina dietro la porta, con la sua storia danneggiata ma pur sempre millenaria, e Taiwan vicino sminuiscono ulteriormente la moderna Hong Kong agli occhi di un viaggiatore amante dell’Asia che infatti preferisce viaggiare altrove e passa a Hong Kong una media di 2-5 giorni.

E’ vero, ci sono le outlying islands: isole con case basse dove la gente è più umana e dove non possono circolare macchine ma Hong Kong è già di per sé una “città-isola” e vivendo lì uno finisce per vivere nell’isola dell’isola ed isolarsi ancora di più.

La visibile mancanza di spazio nelle abitazioni, i cui costi e dimensioni rasentano quasi il comico, e nelle strade, chiuse tra palazzi altissimi, alla lunga ti fa vivere in una dimensione claustrofobica e, per uno come me, che ama gli spazi ampi e i cieli azzurri è facile sentirsi prigioniero da questa realtà innaturale.

Anche se hai la fortuna di vivere in una casa “grande” infatti, accanto e di fronte al tuo edificio, a pochissima distanza (il concetto di distanza di sicurezza a Hong Kong è infatti inesistente) molto probabilmente c’è un altro alveare di cemento e la sensazione che si prova è comunque opprimente. L’unico rilassamento per l’occhio e per lo spirito è guardare il mare.

Infatti dei poco più di 1000 kmq di terreno meno del 25% è costruito e solo il 7% è destinato ad abitazioni dove vivono più di 7 milioni di persone.

Per finire la qualità e l’inquinamento sono migliori di quelle delle grandi città costiere della Cina ma non più tanto migliori.

Quando fai notare queste cose alla gente, questa ti risponde con un tono a metà tra orgoglio e rassegnazione: “This is Hong Kong!”

This is Hong Kong! Penso io, riflettendo su come la gente ripeta frasi fatte e vuote prive di significato e di quanto il brand possa servire come toppa per coprire i buchi dei vestiti vecchi.

This is Hong Kong! La “Perla dell’Asia”, una città ormai che campa sulla sua gloria passata, un porto, un crocevia affascinante e bello per una breve sosta turistica ma non per passarci degli anni.

This is Hong Kong! Una città con uno dei più alti tassi d’impiego del mondo, una città dove manca l’umanità ma non manca il lavoro e i numeri sono quelli del GDP e dell’Average Income, il lavoro è quello dei salary man e i soldi quelli delle banche. Una città ossessionata dal successo e dove chi non ce l’ha, molto spesso ha già deciso di uscire dalla scena in un gesto silenzioso è indolore.

Questa è Hong Kong, dove la gente sorride poco e le ragazze, pur spendendo fior di soldi per comprare cosmetici per i loro make-up, diventano brutte per via di quei loro visi imbronciati dalle espressioni infelici, dove si posta compulsivamente su Facebook ogni ristorante e ogni evento a cui si partecipa anche se sempre nel raggio di pochi metri o chilometri perché più in là non si può andare.

E’ qui che quando ho chiesto ad una ragazza di 19 anni qual era il suo sogno mi ha risposto comprarsi una Lamborghini, non pensando però che qui le Lamborghini e le Ferrari rombano e sfrecciano su vie quasi sempre strette e serpeggianti prima di fermarsi davanti all’ennesimo semaforo solo pochi metri più avanti.

Ci sono eccezioni? Chiederete voi. Certo ma per me non confermano la regola.

Mantra, preghiere e cantanti pop

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Nei viaggi in Asia i mantra e le preghiere insieme alle canzoni pop locali hanno sempre scandito le mie giornate. Nei templi e nei luoghi sacri, per le strade, negli alberghetti e nei negozi queste erano onnipresenti e spesso si mischiavano tra loro come il fumo dolciastro dei satay e degli altri spiedini si mischiava con l’odore dei vari curry, del latte di cocco, del durian o della frutta fresca di un chioschetto di frullati.

Capitava molto spesso infatti di mangiare in un baracchino per strada proprio vicino alle mura di un tempio e di sentire la voce di un cantante pop mischiarsi a quelle che per me erano ancora litanie e cantilene strane. Strane sì ma mi affascinavano così come mi affascinavano le melodie dei cantanti pop malesi, cinesi, thailandesi e indonesiani. Era così infatti che mi compravo gli album dei talenti locali facendomi consigliare i più belli o i più nuovi dai passanti o dai venditori.

Spesso guardavo la copertina per vedere se il cantante o la cantante mi piaceva, guardavo l’aspetto e lo stile. Qualche volta invece girando tra i negozi che vendevano cassette (sì cassette! Infatti ancora non c’erano i CD o forse ero io che ancora non avevo il lettore!) sentivo una canzone che mi catturava, un intro, un ritornello, un assolo e subito chiedevo: “chi è questo?!” “Questo!” Mi rispondevano allungandomi una cassetta ancora sigillata nella plastica che io prendevo subito in mano guardandola con entusiasmo, senso di vittoria e desiderio.

Ricordo ancora a Sibu, nel Borneo Malese, comprai quella che forse fu la mia prima cassetta di pop cinese. Tornato nel piccolo albergo sudicio dove stavamo, mi misi subito ad ascoltare il mio ultimo acquisto. Sulla copertina c’era un bel cantante alla moda con un’aria molto cool, non capivo una parola di quello che cantava ma mi piaceva così tanto che da quel giorno divenne mia colonna sonora del viaggio. Nella cassetta c’era anche un libretto di carta a soffietto con i testi delle canzoni, erano tutte in caratteri cinesi e mi sarebbe davvero piaciuto capirne il significato.

Non avrei immaginato che quattro anni più tardi avrei cominciato davvero a studiare cinese e che l’avrei imparato così bene. Nel corso del tempo ho riascoltato più volte quella cassetta e oggi ne comprendo perfettamente il significato e conosco il nome e la nazionalità del cantante. Dovrei avere ancora quella cassetta da qualche parte ma su youtube ne ho già ritrovato i brani.

Un’altra scoperta fu quella di un cantante pop/rock thailandese Andi: le sue canzoni insieme al cantante di Hong Kong Andy Lau furono la colonna sonora  dei miei giorni passati a Bangkok e del viaggio nel sud del paese verso la Malaysia.

Oltre alle cassette pop e rock varie collezionavo anche quelle della musica tradizionale, che a volte erano solo strumentali: le musiche dei batak e dei minankabau di Sumatra, quelle thailandesi, indiane e quelle taoiste cinesi che a volte potevano ridursi solo a dei ding e dong che duravano minuti.

Mi sono dimenticato di dire che come tutte le cose a scatola chiusa l’acquisto di una cassetta poteva andare bene come andare male.

Facevo anche scorta di cassette di preghiere di varie tradizioni spirituali e le ascoltavo prima di dormire, quando cercavo un po’di tranquillità o semplicemente per riconnettermi con l’Asia, quel continente che fin da quando ero piccolo è stato sempre la mia vera madre.

Di questo genere quelle dedicate alle varie divinità indiane erano le più numerose. Ero attratto dalle  figure colorate dei vari deva sulle copertine: Shiva, Durga, Ganesha, Rama, Hanuman, Krishna, ecc. ma, come per i film di Bollywood, erano lunghissime e poche erano quelle che davvero mi piacevano così mi dovevo sforzare per ascoltare tutto il lato della cassetta e spesso finivo per ascoltare solo una o due canzoni.

Le canzoni cinesi dedicate al bodhisattva Guan Yin o al Buddha della Medicina erano belle ma le mie preferite erano quelle tibetane che avevo comprato a Labrang: avevano una melodia tremolante accompagnata da un mandolino e la forte qualità di infondere la gioia e la calma.

A me infatti la musica come ogni altra cosa (e in questo rientra anche ogni forma d’arte) piace non perché è impegnata o rappresentativa o unica nel suo genere o importante (e qui potrei andare avanti all’infinito) ma semplicemente perché è bella, mi piace: è una cosa di sensazioni e non di costruzioni mentali e ragionamenti. Non è mente, è quore e lo scrivo pure con la q!