Il sole stava per tramontare quando siamo andati alla casa del lama di Danpa, Alak Chomge.1
La sua casa era in alto in direzione della montagna, vicino alla khora. La strada sterrata saliva fino ad uno spiazzo su cui si affacciava una porta. Siamo entrati nella grande porta di legno a due ante e attraversato un ampio cortile salendo delle scalette di pietra.
In una stanza di legno ad un angolo del cortile sedeva il lama con altri due monaci. Mi dissero che aveva 84 anni ed era uno dei lama più anziani del monastero. Mi hanno colpito i suoi occhi, chiari per la vecchiaia, sembrava che vedessero oltre l’apparenza delle cose. Quando sono entrato la prima cosa che ho fatto è stata inginocchiarmi davanti a lui porgendogli una sciarpa rituale bianca (katak) tenuta con entrambe le mani e lui, dopo averla presa, me l’ha appoggiata sulle spalle e toccandomi dolcemente le guance con entrambe le mani come si fa con i bambini ha detto: “o ya!”
Sedeva in un angolo della stanza, questa era tutta rivestita di legno rossastro con katak bianchi, gialli e azzurri appesi alle pareti.
I monaci che stavano nella stanza ci hanno offerto una ciotola di yogurt. Abbiamo parlato un po’ con Alak Chomge, Danpa traduceva e di tanto in tanto l’anziano rideva calorosamente.
Danpa gli stava spiegando che avevo studiato e lavorato per un po’ a Pechino e che ero poi venuto a Labrang l’estate e il lama disse che vedeva tutte le cose che avevo fatto in precedenza. Ero molto emozionato, non ho mai creduto a queste cose ma mentre il lama parlava e mi guardava non avevo alcun dubbio che quello che diceva fosse vero.
Quando Danpa gli ha raccontato la mia paura riguardo a quello che mi sarebbe successo a 36 anni, lui si è messo a ridere, dicendo che se avessi recitato dei mantra la mia vita non avrebbe avuto problemi. Prima di andare via mi ha fatto mettere di nuovo in ginocchio davanti al piano rialzato dove sedeva e, prendendo un testo buddhista avvolto in una tela gialla, lo ha appoggiato sulla mia testa, poi sulla spalla destra, poi su quella sinistra, poi ancora sulla testa e così via, recitando dei versi in sanscrito a voce bassa che non capivo.
Alla fine ha appoggiato di nuovo il tomo sulla mia testa e ha concluso la recitazione con la parola samaya detta a voce un po’ più alta. In quel momento ho sentito un’energia penetrare nella sommità della testa e propagarsi verso il basso come un brivido.
Abbiamo salutato Alak Chomge e gli altri monaci e siamo andati via.
Stavamo andando a casa di Danpa e scendevamo giù per le vie del monastero. Era buio.
Quando siamo arrivati, il fratello di Danpa, Lobsang e il piccolo monaco allievo di Danpa, stavano preparando da mangiare. La stanza di legno era riscaldata dal calore della stufa. Dopo mangiato ho studiato un po’ di tibetano con Danpa e gli ho insegnato un po’ d’inglese. S’erano fatte le dieci, era tardi e l’indomani dovevo insegnare inglese ai bambini con il mio amico Gönpa, dovevo andare.
Danpa mi ha accompagnato con una piccola torcia lungo le strade di terra che serpeggiano irregolari tra le case dei monaci dai muri d’argilla. Tutto intorno era buio, solo la luce di stelle mai viste prima. La via lattea era chiara e distinta, sopra di noi brillava la costellazione dello scorpione con la sua stella rossa: Antares.
1 Alak Chomge è il settimo in ordine d’importanza a Labrang Thashikyil (su 65 lama). Alak è un termine molto usato in queste zone dell’Amdo davanti ai nomi dei lama per indicare la reincarnazione di un maestro (in altre zone è più usato il termine tulku o rinpoche).
Le cose che ci circondano, gli eventi che ci accadono, i nostri progetti, comprese le relazioni che abbiamo con gli altri, sono tutte interdipendenti (in tibetano tendrel). C’è una parola tibetana che indica una circostanza fortunata: thashi tendrel. Alcune persone pensano che thashi tendrel sia una cosa che possiamo creare, determinare ma essa si manifesta spontaneamente: in un giorno importante alziamo lo sguardo e vediamo un arcobaleno.
Se pensiamo di poterla creare la nostra mente comincia a ragionare calcolando e molto probabilmente non si manifesterà.
Voglio raccontare una storia che comincia da una di queste circostanze fortunate e prosegue attraverso le tante situazioni interdipendenti che da essa si sono dispiegate.
Un pomeriggio ero a Roma a Prati con mio nonno, in una delle varie “spedizioni” pratiche o burocratiche, stavamo camminando sul marciapiede e improvvisamente il mio sguardo venne catturato dalla copertina di un libro in una vetrina di una libreria. Sulla copertina c’era l’immagine di un buddha: era il libro di Terzani “Un indovino mi disse” e mio nonno me lo regalò.
La storia di Terzani e dei suoi incontri con vari indovini e astrologi mi piacque molto, l’idea di conoscere il mio futuro mi incuriosiva e allo stesso tempo mi spaventava. Per tutto quell’anno ne fui fortemente influenzato e nei miei viaggi in Asia, quando sentivo di un indovino o di un astrologo, lo volevo incontrare per farmi predire il futuro.
A Labrang quell’estate ho conosciuto un monaco che veniva da Trika (cin. Guide, nella provincia del Qinghai), si chiamava Aku Danpa e viveva nel monastero di Thashikyil insieme a suo fratello Lobsang. Entrambi avevano un viso che sembrava quello delle antiche statue di legno dorate dei lama e dei buddha che si trovano ancora in alcuni vecchi monasteri.
Aku Danpa aveva studiato medicina tibetana e astrologia e subito pensai di farmi leggere il futuro. Era il primo dei miei indovini.
Gli dissi la mia data e ora di nascita e dopo qualche giorno Aku Danpa mi diede la risposta che aveva scritto su un foglio di carta.
“La tua vita andrà sempre meglio ma a 36 anni (35 in occidente)1 avrai un problema abbastanza grande che poi supererai”.
Sì, è vero l’avrei superato ma le parole “problema abbastanza grande” avevano fatto sorgere in me una certa agitazione.
Quando gli chiesi più spiegazioni, lui rispose che per dirmi con più precisione cosa sarebbe successo a 36 anni avrebbe dovuto fare un altro calcolo astrologico più specifico di quella fase della mia vita e che ora non aveva tempo ma se volevo mi avrebbe portato dal suo maestro, un lama molto anziano, e avrei potuto chiedere a lui.
1 Quando Aku Dampa mi lesse la risposta disse 36, ma molti tibetani a cui raccontai in seguito questa storia mi dissero che era 37 (In occidente 36 anni. Nell’astrologia tibetana e in quella cinese infatti si conta anche il periodo passato nel grembo materno e si aggiunge un anno). Nel 37° anno, infatti, si conclude il 3° ciclo dei 12 animali e l’elemento dell’anno è in contrasto con l’elemento del proprio segno e in genere si presentano negatività e ostacoli. Per il serpente di fuoco (1977) il 37° anno è stato il serpente d’acqua (2013).
Qualche mese fa se ne andato il grande maestro del Monastero di Yuthok nell’Amdo, Karma Sönam Rinpoche. Dopo aver annunciato che il suo momento era arrivato, è entrato in meditazione e dopo qualche giorno il suo corpo è diventato sempre più piccolo. Karma Sönam aveva 93 anni ed era un importante lama della tradizione Karma Kagyu e praticante del chöd, tra i tanti segni straordinari di realizzazione ha lasciato l’impronta della sua mano nella roccia.
Ho avuto la fortuna di incontrarlo due anni fa, Rinpoche era molto vecchio e benediceva le persone dalla finestra della sua casa nel monastero gettando del riso.
Qui sotto riporto una mia traduzione della versione cinese del testo tibetano che racconta le vicende del parinirvāṇa di Tulku Karma Sönam:
Ecco in breve come sono andate le cose:
Rinpoche quest’anno aveva annunciato che non sarebbe rimasto in vita ancora a lungo, suo nipote voleva costruirgli una nuova casa e, quando ne parlarono, Rinpoche disse che tutto era impermanente, che questo sarebbe stato il suo ultimo anno in questo mondo e che non c’era bisogno di costruire una casa, non aveva bisogno di ricchezze o cose di questo tipo. Grazie alla sua chiaroveggenza sapeva che questo sarebbe stato l’anno del suo parinirvāṇa.
All’inizio dell’autunno, Rinpoche si era molto indebolito e i monaci si erano preoccupati e lo avevano pregato di andare in un grande ospedale, per accontentarli Rinpoche si era fatto portare all’Ospedale del Popolo della Contea di Dzamthang per farsi visitare ma non ha voluto rimanere a lungo e il giorno dopo è tornato al Monastero di Yuthok.
Alle persone più vicine aveva detto: “Dopo che sarò morto avvertite Dodrupchen Rinpoche, a parte questo non c’è bisogno di fare nient’altro. Quando i monaci dagli altri monasteri verranno in visita, fategli dei regali, non fateli tornare indietro a mani vuote. Dopo che sarò morto non c’è bisogno che facciate per me delle opere buone, io non ho nemmeno i soldiper farle…”. Così aveva richiesto più volte.
“Le due statue e il dorje e la campana che ho usato nella pratica sono molto belle e preziose, lasciatele nella mia stanza come oggetti benedetti. Non fate costruire al monastero uno stūpa reliquario per me, se ce ne fosse proprio bisogno lasciate costruire uno stūpa d’ottone a mio nipote e nient’altro.”
Tra le altre cose Rinpoche aveva detto più volte che il suo trono nella terra pura di Sukāvatī era vuoto e che, una volta rinato lì, avrebbe beneficiato tutti gli esseri senzienti che avevano avuto una connessione con lui. Prima di andarsene Rinpoche aveva chiesto a suo nipote Tulku Sangye Tenzin se fosse l’ottavo giorno del mese del calendario tibetano e aveva risposto da solo che era il sette e che l’indomani sarebbe stato l’otto.
Il giorno dopo Tulku Sangye Tenzin guidò la pratica, Rinpoche alzò il pollice in segno di ringraziamento e entrò in meditazione, nel perfetto stato di Mahāmudrā e per la felicità dei discepoli che avrebbero voluto vederlo ancora per tanto tempo, mantenne la posizione del nirvāṇa come una persona ancora in vita.
Alle dieci passate dell’8° giorno le persone del monastero hanno chiamato in India Sua Santità Gyalwa Karmapa, Tai Situ Rinpoche e Dodrupchen Rinpoche e gli hanno riferito la notizia del trapasso di Karma Sonam e, seguendo le loro istruzioni, il consiglio del monastero ha mandato il maestro vajra Lama Karma Loyak e Khenpo Tulnam a svolgere gli ultimi rituali vicino ai resti del corpo di Rinpoche.
Il 18° giorno del calendario tibetano ( il 10 novembre 2014) è cominciata ogni giorno a venire una folla di circa 6-7 mila monaci e laici a rendere omaggio ai resti del corpo di Rinpoche.
Quelli che sono venuti a rendere omaggio dovranno recitare 100.000 volte il nome di Amitābha, quelli che hanno preso il sale che avvolgeva i resti dovranno recitare 100.000 volte il mantra di Avalokiteśvara e quelli che hanno preso dei pezzi del vestito dovranno recitare 100.000 volte il mantra di Vajrasattva.
I monaci del nostro monastero dovranno promettere di impegnarsi nelle dieci azioni virtuose e di contribuire all’unione delle Tre Regioni (Ü-Tsang, Do Kham, Do Me) e fare il possibile per smettere di mangiare la carne. I monaci giovani dovranno promettere di mantenere i voti in modo puro e di ascoltare e riflettere bene sugli insegnamenti e i monaci anziani dovranno promettere di praticare i Sei Yoga di Nāropā e di praticare sempre gli insegnamenti di Rinpoche.
Il corpo di Karma Sonam Rinpoche dopo sette giorni di meditazioneImpronta della mano di Rinpoche nella roccia.
Nella credenza popolare dei tibetani il ngakpa1è visto spesso come un mago che, con i suoi ngak2o “formule magiche”, è in grado di manipolare a suo piacimento i fenomeni del mondo materiale e che può anche provocare sciagure e malanni. Per questo il popolo spesso ne ha timore.
Questa figura appare in più di un racconto. Nella vita del grande yogi3 Milarepa, ad esempio, si racconta che egli da giovane abbia studiato la magia nera presso uno di questi maghi per vendicarsi degli zii che avevano privato lui e la madre di tutte le ricchezze, riducendoli a dei miserabili. Milarepa fece crollare la loro casa durante il matrimonio del cugino, causando la morte di trentacinque persone. Fece poi cadere una violenta grandine sui campi del villaggio, rovinando i raccolti di coloro che non avevano sostenuto la madre nei momenti difficili.4Ma ngak significa anche mantra e quindi il ngakpa è “colui che recita i mantra”, il praticante del Mantra Segreto, degli yoga del Tantra e dello “yoga primordiale” Ati Yoga o Dzogchen. Qui per yoga non si intende semplicemente una serie di esercizi fisici e respirazioni come nell’Hatha Yoga della tradizione indiana, ma qualcosa di molto più profondo.
Yoga, che a volte è tradotto come “unione”, in tibetano si traduce con naljor:5 Nal o nalma6 è la nostra condizione reale così come è, senza nulla da cambiare o modificare e jor significa avere questa conoscenza.
Il vero yogi, il naljorpa, è appunto chi possiede questa conoscenza concretamente e non solo a livello intellettuale.
Anche se ai termini ngakpa e yogi è spesso dato lo stesso significato penso sia opportuno delinearne una differenza: lo yogi è un ngakpa realizzato, quindi si può dire che uno yogi è anche un ngakpa ma non necessariamente un ngakpa è anche uno yogi.
L’insegnamento del Tantra è chiamato anche la “via della trasformazione” e ha un approccio completamente diverso da quello dei Sūtra che è chiamato la “via della rinuncia”. Infatti, mentre quest’ultimo vede le emozioni affliggenti (scr. kleśa) come qualcosa di negativo a cui rinunciare per mezzo di voti e allenamenti mentali (tib. lojong)7 impiegati come antidoti, il primo ne vede la potenzialità intrinseca e utilizza queste emozioni sul sentiero della liberazione trasformandole in saggezza.
Nel III sec. d.C. il Tantra era già diffuso in India e in Asia Centrale, i suoi praticanti erano soprattutto laici e la loro comunità era distinta da quella dei monaci che studiavano e praticavano gli insegnamenti dei Sūtra seguendo le regole del Vinaya.8
Nella sua forma fisica o nirmanakāya, il Buddha Śākyamuni si limitò a rivelare l’insegnamento dei Sūtra e solamente molti secoli dopo trasmise insegnamenti del Tantra, apparendo nella forma di Vajradhāra, Ghuyasamāja, Hevajra e altre manifestazioni del sambhogakāya a grandi realizzati o mahāsiddha.9
La tradizione indo-tibetana riporta le storie di ottantaquattro mahāsiddha famosi per i diversi metodi usati per raggiungere l’illuminazione e per i loro straordinari poteri.
Infatti, attraverso i numerosi mezzi abili (scr. upāya) della tradizione tantrica, seppero usare la loro situazione particolare come via per raggiungere l’illuminazione. Il loro comportamento, i loro attaccamenti e talvolta i loro difetti fisici erano il loro oggetto di meditazione, il loro sadāna (tib. drubthab):10 il mezzo per ottenere la realizzazione suprema e quelle ordinarie.
Tilopa raggiunse l’illuminazione macinando semi di sesamo per fare l’olio; Salipa che aveva il terrore dei lupi ricevette l’istruzione di considerare tutti i suoni come uguali all’ululato del lupo; Kotali il montanaro imparò a praticare le pāramitā scalando la montagna della mente; Tandhepa, che era un giocatore inveterato perse tutti i suoi beni ai dadi e si illuminò quando realizzò che tutto il mondo era vuoto come la sua borsa.11
Saraha, “il Grande Brahmino” (tib. Bramze Chenpo), incontrò la figlia di un artigiano che fabbricava frecce che lo istruì su come superare la dualità usando come simbolo la freccia che stava preparando in quel momento e, poiché si guadagnò da vivere fabbricando frecce, fu conosciuto con il nome di Saraha “Colui che ha tirato la freccia” o il “Sagittante”.
Mahāsiddha Tilopa
I mahāsiddha appartenevano a tutte le classi sociali: tra loro vi erano re e ministri, brahmini, poeti e musici, madri di famiglia e prostitute, ecc. Molti di loro erano mendicanti senza una fissa dimora, mercanti e artigiani che svolgevano i lavori considerati piùdegradanti, mescolati alla gente delle caste più basse. Allo stesso modo dei kāpālika hindu, mistici folli che conducevano una vita libera da tutte le convenzioni sociali dell’India dell’epoca,passavano la notte nei luoghi dove venivano cremati o fatti a pezzi i cadaveri, mangiavano carne, interiora crude e altre sostanze putride, bevevano alcol e avevano rapporti sessuali con prostitute, donne di umili origini e fuori casta.12
Tutti questi elementi avevano la funzione di portare l’individuo al di là dei propri limiti ed erano considerati dei potenti mezzi per realizzarsi. Questi yogi davano più importanza all’esperienza diretta degli insegnamenti che alla speculazione filosofica studiata nelle grandi università buddhiste indiane di Nālandā e Vikramaśīla.
Molti dei loro insegnamenti non erano espressi a parole e concetti ma con dei gesti o in forma di canzoni (tib. nyam gur),13che sorgevano spontaneamente dal loro stato ‘risvegliato’.14
Nāropa studiò molti anni all’università di Nālandā ed era molto abile nei dibattiti filosofici ma fu solo Tilopa a risvegliarlo alla sua ‘condizione reale’, colpendolo improvvisamente in testa con un sandalo.15
Guru Padmasambhava
In particolare nell’VIII sec. è stato Padmasambhava a portare per primo in Tibet gli insegnamenti del Mantra Segreto, sotto invito del re Trisong Deutsen (742-797), e a dare inizio al lignaggio16che poi prenderà il nome di Nyingmapa, o degli “antichi”.
Questi era nato in Oddiyāna,17 un regno a nord-ovest dell’India che molti identificano con la valle dello Swat in Pakistan, al confine con l’Afghanistan18 ma che avrebbe potuto essere anche molto più vasto e comprendere altri paesi centro-asiatici di religione buddhista.
Nella tradizione tibetana l’Oddiyāna è la terra delle dākinī,19 entità femminili di saggezza, detentrici degli insegnamenti segreti trasmessi poi ai mahāsiddha e a Padmasambhava.20
Dākinī Kārmeśvarī
Quando Guru Padmasambhava si trovava in Tibet, diede per la prima volta l’iniziazione delle “Otto Grandi Sādhana” o Kabgye21 ai suoi venticinque discepoli nelle grotte di Chimphu nei pressi del monastero di Samye. Tra gli iniziati c’erano la sua principale consorte Yeshe Tsogyal, il re Trisong Deutsen e il ngakpa Nupchen Sangye Yeshe. Poiché queste pratiche costituiscono l’essenza degli insegnamenti tantrici da lui trasmessi in questa terra, i venticinque discepoli di Padmasambhava si possono considerare i primi praticanti del Tantra o Mantra Segreto (tib. Sangngak) del Tibet: i suoi primi ngakpa.
Nonostante esistano varie classificazioni del ngakpa a seconda della scuola o del lignaggio a cui appartiene, possiamo essenzialmente parlare di tre differenti tipi di praticante tantrico rappresentati chiaramente nel lignaggio Kagyu:
1) il ngakpa che conduce una vita familiare (tib. kyimngak),come Marpa il traduttore che aveva moglie e figli.
2) il ngakpa che ha rinunciato alla vita nella società e mantiene il voto di celibato (tib. serngak).In questa categoria rientra il ngakpa asceta itinerante come Milarepa, che passò molti anni in ritiro in grotte sulle montagne ed altri luoghi isolati, vagando senza fissa dimora o come il famoso yogi di Rebkong Shabkar Tsokdruk Rangdröl.
3) il ngakpa monaco (il monaco che pratica il Mantrayāna), il “detentore del vajra dai tre voti” (tib. sumden dorje zinpa): quello esterno del Prātimokṣa, quello interno del Bodhisattva e quello segreto del Mantra Segreto.
Il ngakpa monaco studia e pratica una combinazione degli insegnamenti dei Sūtra e dei Tantra: un esempio è quello di Gampopa (1074-1155), discepolo del grande yogi Milarepa.
Gampopa era un monaco ordinato e deteneva sia il lignaggio tantrico della Mahāmudra e degli yoga di Nāropā sia i lignaggi Sūtra di Atīśa. Un altro esempio e quello di uno dei venticinque discepoli di Padmasambhava: Vairocana il Traduttore.
Anche se il monaco che pratica il Tantra costituisce un tipo di ngakpa, generalmente oggi, quando si parla di ngakpa, si intende nella maggior parte dei casi il praticante tantrico laico non legato alla vita monastica e che , nella maggior parte dei casi, conduce una vita familiare, per lo più la figura del kyimngak.
Questi ngakpa, infatti, possono formarsi una famiglia e svolgere un lavoro che permetta loro di mantenersi e, accanto alle attività principali che sono l’agricoltura e l’allevamento del bestiame, si possono dedicare a molti altri lavori come ad esempio quello di medico, insegnante, scrittore, commerciante, ecc. e, nei piccoli centri rurali, rappresentano ancora oggi un importante punto di riferimento per la popolazione locale.
Essi vivono infatti nella società laica con tutte le sue difficoltà e sofferenze con le sue gioie e le sue contraddizioni, terreno fertile per i‘tre veleni’22a cui non rinunciano ma che invece utilizzano come mezzi lungo il sentiero spirituale.Questo stile di vita è completamente opposto a quello dei monaci che vivono lontani dalle città e la cui vita è espressione della loro rinuncia: quella esteriore della vita sociale e quella interiore delle emozioni affliggenti.
Un insegnamento ngakpa essenziale è: “vivi così come è” ed è rappresentato dalla loro usanza di non tagliarsi i capelli e dal colore bianco del loro abito che rappresenta la purezza originaria della mente, fondamentalmente libera dall’illusione e dalle emozioni negative che ne derivano.
Yeshe Tsogyel
Le donne che praticano il Tantra sono chiamate ngakma23ed hanno un ruolo molto importante.
In passato in India, in Tibet e nello Shang Shung hanno vissuto grandi yoginī24 come Yeshe Tsogyal (VIII sec.),25 Mandarava (VIII sec.), Niguma (X-XI sec.), Sukhasiddhi (X-XII sec.) Machik Labdrön (1031-1129),26 Jomo Menmo (1248-1283), Sera Khandro (1892-1940), Ayu Khandro (1839-1953) e Öden Barma nella tradizione dello Yungdrung Bön e altre ancora.
Oltre ai primi discepoli di Padmasambhava, alcuni famosi yogi tibetani del passato furono Jigme Lingpa (1729-1798) nella tradizione Nyingmapa, i Khön Könchok Gyalpo (1033-1102) e Sachen Kunga Nyingpo (1092-1158) in quella Sakyapa, Marpa (1012-1097) e Milarepa (1040-1123) nella tradizione Kagyupa, Drom Tönpa (1005-1064) in quella dei Khadampa, il famoso costruttore di ponti Thangtong Gyalpo (1361-1485) detentore di vari lignaggi, Drenpa Namkha, Tapihritsa (VII-VIII sec.) e Shardza Tashi Gyaltsen (1859-1935) nella tradizione dello Yungdrung Bön e molti altri ancora.
JñānakumāraNamkhai NyingpoNupchen Sanggye Yeshe
Maestri vissuti in tempi più recenti sono stati anche Dudjom Rinpoche (1904-1987), Dilgo Khyentse Rinpoche (1910-1991), Chögyam Trungpa (1939-1987) e Chagdud Tulku (1930-2002) e Chimed Rigdzin (1922-2002) che negli ultimi decenni hanno dato molti insegnamenti in occidente.
Chögyal Namkhai Norbu, Dzongsar Khyentse Rinpoche, Sakya Tridzin e i suoi figli sono solo alcuni esempi di yogi contemporanei che continuano a diffondere molti insegnamenti in tutto il mondo, in particolare quelli del Tantra e dello Dzogchen.
Una delle zone in cui più si è concentrata la tradizione degli yogi è Rebkong nell’Amdo (Tibet nord-orientale), appena a sud del Fiume Giallo. Gli abitanti del luogo sono per lo più agricoltori ma le aree più alte e lontane sono abitate anche da alcune comunità di nomadi come nel caso di Tsekok
Rebkong è un importante centro culturale, famoso per i suoi santi, artisti e studiosi, terra di Gendun Chöphel (1903-1951),27 autore di molte opere di grandissimo valore spirituale e letterario tuttora studiate dai tibetani, e dello yogi Shabkar Tsokdruk Rangdröl (1781-1851),28 da molti considerato una manifestazione di Milarepa.
A Rebkong i gruppi di ngakpa vengono chiamati ngakmang e accanto al più numeroso gruppo della tradizione Nyingmapa ne esiste anche uno dello Yungdrung Bön che per distinguersi dai ngakpa Nyingmapa hanno preso il nome di bönmang.29Questi gruppi si dividono a loro volta in vari sottogruppi: ngakmang di differenti lignaggi all’interno della stessa tradizione religiosa, ngakmang di una zona, o di un villaggio.
Lo yogi Palchen Namkha Jigme, dicepolo di Alak Gyawo, dopo aver conferito nei pressi del villaggio di Changlung30 un’iniziazione dei Kabgye a molti ngakpa, diede ad ognuno di loro un phurba di legno.31
Si narra che ne furono consegnati mille e novecento e, per questo, da quel giorno i ngakpa di Rebkong vennero chiamati la comunità de’ “I Mille e Novecento Detentori di Phurba”.
Villaggio di Chanlung, RebkongNgakpa di Jangkhya e di Changlung
In passato i ngakpa di Rebkong erano conosciuti e temuti in tutto il Tibet. Vi erano ngakpa capaci di volare, di invertire il corso di un fiume, di fermare il sole affondando il proprio phurba nel terreno e non erano pochi quelli che hanno avuto la realizzazione in una sola vita manifestando il ‘corpo di arcobaleno’.
Oggi a Rebkong, nonostante i ngakpa siano sempre numerosi e sono sempre di più quelli che considerano l’essere ngakpa alla stregua di un lavoro e “praticano solo per riempire le loro ciotole” come dicono con sarcasmo alcuni tibetani.
Ma, nonostante le vicende storiche passate, la progressiva modernizzazione e i problemi di quest’epoca oscura, oggi in Tibet e a Rebkong vivono ancora dei maestri altamente realizzati, la maggior parte dei quali, ha raggiunto più di settanta o ottant’anni e rappresenta una guida rara e preziosa per le generazioni future di praticanti del Dharma, nella speranza che questa preziosa tradizione continui ad essere preservata.
Oggi infatti in un mondo globalizzato che va sempre di più verso la modernizzazione, le persone sono sempre più prese dalle vicissitudini della vita, sono impegnate a perseguire i propri obbiettivi materiali e pratici ma allo stesso modo sentono che tutto questo non è sufficiente a dare un senso alla loro esistenza.
C’è quindi la necessità di conciliare la dimensione materiale con quella spirituale e, per realizzare questo scopo, non è necessario abbandonare la vita mondana e ritirarsi in solitudine, questo infatti potrebbe semplicemente essere un altro modo per astrarsi dalla realtà e non porterebbe a nessuna vera comprensione di noi stessi.
La vita del ngakpa, quindi, ci mostra come sia possibile vivere nel mondo seguendo un cammino spirituale senza troppe rinunce, confrontandosi con la situazione in cui ci si trova al momento, qualunque essa sia.
Da secoli i ngakpa hanno vissuto e continuano a vivere in questo modo, come direbbe Trungpa Rinpoche : “unendo il Cielo con la Terra”.
12 “i kāpālika buddhisti e quelli hindu si ritrovarono così a frequentare i medesimi luoghi e, per un periodo, crebbero insieme, scambiandosi conoscenze e pratiche”. Baroetto G. , Hevajra Tantra, Roma: Astrolabio Ubaldini 2004, p. 8; vedi anche Reynolds J. M., “The Mahasiddha Tradition in Tibet”, www.vajranatha.com;
13nyams mgur. Per esempi di nyam gur cfr. Donatoni R. 2002, op. cit.; Riggs N., Like an Illusion, Lives of the Shangpa Kagyu Masters, Oregon : Dharma Cloud Press 2001, pp. 288-289; Ricard M. 1994. op. cit.
14 Reynolds J. M., “The Mahasiddha Tradition in Tibet”, www.vajranatha.com ; Cornu P. ,2003, pp. 353-355.
Per le vite degli ottantaquattro mahāsiddha vedi anche Dowman K., Masters of Mahamudra, Songs and Histories of the Eightyfour Buddhist Siddhas, Albany, State University of New York Press 1985.
15Cornu P., 2003, op. cit. pp.405-407, 681-683; Patrul Rinpoche 1994, op cit. pp.145-146; Kalu Rinpoche 2000, op. cit., pp. 200-202.
16In questa accezione ilil termine identifica una successione ininterrotta di maestri che detengono un certo tipo di insegnamenti.
19Le dākinī sono delle entità femminili molto potenti. In Tibet sono chiamate khandro (mkha’ ‘gro ma): “coloro che percorrono lo spazio”. Ci sono le dākinī di saggezza (yeshe khandroma/ye shes mkha ‘gro ma), esseri illuminati che hanno realizzato il profondo significato degli insegnamenti segreti e li proteggono. Possono trasmettere la conoscenza ai praticanti per aiutarli sulla via.
Ci sono poi le dākinī mondane (jikrten khandroma/‘jigs rten mkha’ ‘gro ma), esseri ancora vincolati dall’esistenza condizionata o saṃsāra, i cui poteri possono influenzare, spesso anche negativamente, solo eventi mondani. Vajrayoginī, Mandāravā, Simhamukhā, Ekajatī e Śridevī sono tutte dākinī di saggezza. Quando lo yogi Khyungpo Naljor incontra la dākinī Simhamukha dal volto di leone, ella gli dice: “L’istruzione suprema è riconoscere la dākinī come la tua propria mente.”
Reynolds J. M., “Wisdom Dakinis, Passionate and Wrathful” www.vajranatha.com; De Falco C., La biografia del grande Maestro Padmasambhava di Taranatha, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 2002, p.18. Cornu P. , 2003, ivi, pp.149-150. Cfr. Riggs N. 2001,op. cit. ,pp.10-13, 34-43; Kalu Rinpoche 2000, op. cit. , pp. 190-191, 233-237; Simmer-Brown J. , Dakini’s Warm Breath, The Feminine Principle in Tibetan Buddhism, Boston: Shambala 2001. Per una raccolta di biografie su Padmasambhava vedi Ngawang Zangpo, Guru Rinpoche, His Life and Times, Ithaca, New York, Boulder Colorado: Snow Lion Publication 2002.
20De Falco C. 2002, ivi, pp. 17-20; Cornu P. , 2003, ivi, pp. 432-433, 445-450.
21 bKa’ brgyad. Le Otto Grandi Sādhana (Drup De Chenpo Gye/sGrub sde Chen po brGyad). Le Sādana degli Otto Heruka. Guru Padmasambhava ricevette queste trasmissioni dagli Otto Vidyādhara (rigdzin/rig ‘dzin) negli Otto Grandi Carnai Indiani. Gli Otto Heruka: 1) Yangdak Heruka (yang dag he ru ka) di colore bianco a est , 2) Jampel Ku (’jam dpal sku- Yamāntaka) di colore giallo a sud, 3) Pema Sung (pad ma gsung– Hayagrīva) di colore rosso a ovest, 4) Phurba Thrinle (phurpa ‘phrin las-Vajrakīla) di colore blu a nord, 5) Dudtsi Yontan (bdud rtsi yon tan) a sud-ovest , 6) Mamo Pötong (ma mo rbod gtong) a sud-est, 7) Jikrten Chötö (’jig rten mchod bstod) a nord-ovest e 8) Möpa Drak Ngak (dmod pa drag sngags) a nord-est. Al centro si trova Chemchok Heruka, (che mchog he ru ka) “ il Grande Heruka Glorioso” di colore blu scuro, emanazione terrifica del Dharmakāya Samantabhadra, oppure Lama Rigdzin (bla ma rig ‘dzin– Guru Vidyādhara), divinità che sintetizza in sé il principio degli otto vidyādhara o l’essenza di Padmasambhava. Cornu P. , 2003, op. cit. , pp. 283-285. Ricard 1994, op. cit. , p. 602.
22 I “tre veleni” (dug sum/ dug gsum) sono le tre principali emozioni che affliggono la mente.
25 Per la vita e gli insegnamenti di questa yoginī vedi Dowman K., La Danzatrice del Cielo, La Vita Segreta e i Canti di Yeshe Tsogyal, Roma: Astrolabio Ubaldini 1985.
26Viene riportata anche quest’ altra data (1055-1145). Cfr Cornu P. 2003, op. cit., p. 335
29 Secondo Hungchen Chenagtsang infatti un gruppo di ngakpa in tibetano si dice ngakmang e bönmang è un nome scelto dai ngakpa Bönpo esclusivamente per distinguersi dal più numeroso e antico gruppo Nyingmapa. Il Bönmang e più unitario e non esistono bönmang di differenti lignaggi. Vedi il capitolo 3.
30 Nel dialetto di Amdo viene pronunciato Shyanglung.
31 Scr. kīla. “Pugnale rituale di forma piramidale a tre lame unite in una sola punta, usato nel Vajrayāna tibetano e nepalese. L’estremità dell’impugnatura è solitamente ornata da una testa (che simboleggia Guru Drakpo) o da tre teste di deità irata (che simboleggiano Vajrakīla), oppure una o tre teste sormontata/e da una testa di cavallo a simboleggiare Hayagrīva). La lama emerge dalle fauci di un makara.” Il makara è un animale leggendario che in Tibet e raffigurato come una sorta di drago con la proboscide. Cornu P., 2003, ivi, pp. 364-365, 480.