24 Agosto
Siamo partiti da Dali in una mattina grigia e piovosa e siamo arrivati a Lijiang, una città ai piedi delle Montagne del Drago di Giada.
Nella parte vecchia le case sono di legno dai tetti spioventi e le vie sono lastricate di pietre irregolari che con la pioggia diventano molto scivolose. I colori variano dalle tonalità di grigio delle strade al rosso bordeaux del legno dipinto e al verde delle piante. Anche se Lijiang sembra completamente antico, molti edifici sono stati ricostruiti perché un forte terremoto nel 1996 ha distrutto circa un terzo della città.
Sembra una versione cinese di un borgo medioevale italiano e il primo che mi è venuto in mente, non chiedetemi il perché, è quello di Spello.
Qui abitano i Naxi, gente pacifica, sorridente e gentile, i cui tratti somatici assomigliano a quelli di alcuni tibetani.
Si dice che anticamente i Naxi avessero una società di tipo matriarcale o matrilineare e questi elementi traspaiono ancora da alcuni dei loro miti più antichi. Le loro tradizioni spirituali sono la religione Dongpa, una forma di sciamanesimo profondamente influenzato dal Bön antico, e il buddhismo tibetano.
Ai margini delle strade, lungo piccoli canali, scorre gorgogliando acqua limpidissima che di tanto in tanto passa sotto dei ponticelli arcuati dove si specchiano salici piangenti.
I turisti sono sempre tanti, soprattutto cinesi, del resto questo posto è davvero bellissimo.
Ci sono tante caffetterie, bar e ristoranti, che mettono i tavolini fuori lungo i canali, dove si possono trovare cibi che in Cina sono più esotici come il formaggio fritto locale, caffè dello Yunnan, pizza, ecc., che per me che mangio sempre cose cinesi sono un desiderio particolare.
Siamo stati qui qualche giorno anche l’anno scorso. Era finalmente piacevole farsi un caffè a colazione con qualcosa di dolce seduti ai tavolini lungo i canali. Abbiamo insegnato a fare una pizza in stile italiano alla manager di Mama Fu, un ristorante che sfoggiava orgogliosamente la scritta The Best Pizza in Lijiang, ma che faceva una strana pizza alta e piena di carne.
A Baisha, abbiamo visto gli antichi affreschi naxi e ci siamo fatti visitare dal Dottor Hu, il medico erborista da cui era andato anche Bruce Chatwin e qui siamo stati ripresi dalla tv di stato, la CCTV. Al Tempio del Picco di Giada (Yufeng Si), dove era custodito un albero secolare, abbiamo incontrato l’anziano lama Nyingmapa che lo aveva protetto durante la Rivoluzione Culturale.
Infine abbiamo rincontrato il gruppo di freaks giapponesi che avevamo conosciuto a Dali e con uno di loro Eguchi, un giapponese di trent’anni con la barba e dei dread locks che gli arrivavano quasi alle ginocchia, che girava sempre con il fon in valigia e che avevamo soprannominato Bong Baba, ci siamo avventurati fino a Zhongdian, avamposto sud-est dell’altopiano tibetano, poco distante da qui. Ma questa è un’altra storia.

26 Agosto
Stamattina abbiamo preso il l’autobus nº 7 da Piazza Mao Zedong e siamo partiti per le Montagne del Drago di Giada.
Il tempo era strano: pioveva, rispuntava il sole e poi pioveva ancora, e siccome non era un tempo da maglietta a maniche corte e non avevo portato il maglione, avevo freddo.
Lungo il tragitto, l’autobus è passato su una strada asfaltata in mezzo a una vasta pianura cosparsa di fiori gialli dove in lontananza le scaglie del Drago di Giada erano avvolte dalla nebbia.1
Arrivati a destinazione, abbiamo preso una seggiovia salendo fino a una foresta ricoperta da un tappeto di muschio soffice di un colore verde brillante. Lì abbiamo cominciato la nostra passeggiata e dopo un po’ che camminavamo all’ombra degli alberi, improvvisamente davanti a noi si è aperta una grandissima radura circolare in mezzo alle cime appuntite delle conifere.
Ai margini di questa radura, in prossimità della foresta, pascolavano buoi e dzo. L’eco dei loro muggiti risuonava nell’aria umida.
Spesso nell’aria rarefatta, davanti alla vastità di alcuni paesaggi montani, ti si apre il cuore, così anch’io ho gridato, ho gridato dal profondo, come insegnava Don Juan, e ho ascoltato l’eco della mia voce perdersi nel vuoto.
Questa è la terra degli Yi, abitanti delle montagne, delle alture e delle lande ad alta quota.
Indossano dei ponchos variopinti dove i colori prevalenti sono il nero, il rosso e l’arancione e dei cappelli di pelliccia, tipo quelli di David Crockett, guarniti da una lunga piuma d’uccello colorata, forse di fagiano o di qualche uccello rapace.
Abili cavalieri di queste lande e distese fiorite, come i Naxi, anche i loro visi hanno tratti vagamente simili a quelli dei tibetani e la loro lingua appartiene al ceppo tibeto-birmano.
Nel bus di ritorno vicino a me sedeva una donna Yi con un vestito tradizionale nero e verde e un grande cappello teso a foggia quadrata che le copriva anche la nuca. Con lei c’erano anche il figlio di tredici anni e il marito.
Abbiamo scambiato qualche parola ma è stato difficile comunicare, perché parlava un cinese che non riuscivo a capire bene.
La sera in piazza a Lijiang, Naxi, Bai, tibetani e Yi hanno ballato in cerchio intorno a un grande fuoco delle danze tradizionali e al centro c’era un uomo che suonava un piffero.
La piazza era piena di gente e alla danza si sono unite anche le vecchiette delle bancarelle, dei cinesi e un paio di turisti americani che cercavano di imitare al meglio i movimenti del gruppo.
A fine serata, il fuoco andava spegnendosi, il suono del piffero era più lieve e qualche giovane del posto ballava e rideva contento.
Prosegue da Il lago e i pilastri del cielo
(Yunnan, Lijiang 2000).
1Secondo una leggenda naxi queste montagne sono i resti di una grande nāgiṇī sconfitta in combattimento dall’uccello divino dalle ali dorate, il garuḍa (cin.Da Peng Jin Chi Niao). Una delle divinità principali del Bön antico è il khyung, uccello mitico che rappresenta l’elemento fuoco, e che viene associato al garuḍa della tradizione indiana. Anche nella religione Dongba questa è una delle divinità più importanti e compare spesso al centro di molte raffigurazioni iconografiche di questa tradizione.
