La saggezza dietro le mura rosse

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Quando arrivai a Chengdu per la prima volta, quasi vent’anni fa, fui colpito, da come qui il Buddhismo e il Taoismo fossero ancora forti e vivi tra la gente, soprattutto tra gli anziani. Era estate e venivo dalla polverosa Cina del nord e, a parte il Fayuan Si a Xuanwu Men e un altro monastero a Xinjie Kou a Pechino, non avevo avuto l’impressione che il Buddhismo fosse così diffuso tra i pechinesi o i cinesi che avevo incontrato.

Mi ricordo di come nel monastero di Xinjie Kou parlai con un uomo di sessant’anni che mi disse che era la prima volta nella sua vita che metteva piede in un tempio buddhista.

Nel Sichuan rimasi stupito nel vedere come i templi buddhisti fossero vissuti, non solo come posti in cui pregare ma anche per altre attività ricreative. Nei loro cortili e giardini, infatti, ci si poteva incontrare per mangiare cibo vegetariano, bere il tè, giocare a carte o a majiang e cantare brani dell’opera locale. Questa loro tollerante accoglienza, in cui la spiritualità e la vita di tutti i giorni non erano mai così separate, faceva sì che in qualche modo ognuno, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente fosse a contatto con questo mondo. I buddha dalla penombra delle loro sale osservavano in silenzio la vita che si svolgeva all’interno di quelle mura rosse.

A Chengdu e nei dintorni ci sono tanti monasteri e templi buddhisti e taoisti, c’è la Montagna Emei, sacra al Bodhisattva Samantabhadra (cin. Puxian Pusa), la montagna taoista Qingcheng e il Grande Buddha di Leshan.

Nel centro della città ci sono il Monastero della Chiara Illuminazione, Zhaojue Si, il Monastero della Grande Compassione, Daci Si  e il Tempio della Capra Verdeil Qingyang Gong ma il mio preferito è quello che si trova tra le vie di Wenshu Fang piene di negozi, sale da tè e ristoranti a ridosso del lato nord del Primo Anello: il Monastero di Manjushri, il Wenshu Yuan.

Un altro tempio bellissimo è il Monastero della Luce dei Tre Gioielli, Baoguang Si che si trova a Xindu, un nuovo quartiere di Chengdu e che si affaccia su una grande piazza nuova. Il tempio custodisce alcune tra le poche reliquie del Buddha conservate in Cina e ha un grande giardino con uno stagno di fiori di loto, una tradizionale sala da tè all’aperto con sedie e tavolini di bambù e un padiglione dove ci sono delle statue a grandezza naturale dei Cinquecento Arhat (Wubai Luohan) e di altri bodhisattva.

Tanti anni fa Xindu era ancora una piccola cittadina a un’ora di autobus da Chengdu e al posto della piazza sulla strada che portava al Baoguang Si si affacciavano negozi con fuori esposti majiang dai mattoncini di vari colori (verde acqua, blu, fucsia, gialli, lilla ecc. ecc.). E’ stato qui che ho comprato il mio primo majiang ed è stato proprio su uno dei tavolini del giardino del tempio che ho imparato le regole di quel gioco e o iniziato a giocare, vicino ai fiori di loto, poco lontano dagli sguardi dei Cinquecento Arhat.

Il Wenshu Yuan però è sempre stato il “cuore” della città e, prima della costruzione di Wenshu Fang, si trovava in mezzo a viuzze strette, tra vecchi palazzi bassi. La sala da tè e il ristorante vegetariano del tempio erano tra i più frequentati e andavo sempre lì a mangiare o bere il tè.

In una delle mie visite avevo fatto amicizia con la coppia di anziani, marito e moglie, “custodi” del tempio che vivevano in una casetta piccolissima adiacente al muro di cinta accanto alla porta laterale. Non capivo molto quello che dicevano perché parlavano solo il dialetto locale e io ero uno studente di cinese alle prime armi ma loro sembravano capirmi abbastanza. La moglie era la più comunicativa, era lei che mi aveva adescato a uno dei tanti tavolini della sala da tè invitando me mia madre e un amico a prendere il tè nel cortiletto della sua casupola insieme al marito che aveva più di novant’anni. Ci aveva regalato delle medagliette dorate con l’immagine del Buddha della Medicina (Yaoshi Fo) e aveva tirato fuori per l’occasione, probabilmente molto rara e preziosa, dei biscotti scaduti. Quando la vidi per la prima volta muoversi tra i tavoli nel giardino vestita di nero e venirmi incontro, mi sembrò essere una maga.

Questo monastero è sempre stato per me un punto di riferimento, una culla di spiritualità, un posto dove caos e tranquillità sembravano stranamente coesistere ma dove anche il caos in fondo era permeato da una più vasta dimensione di quiete e contenuto in essa così come le nuvole sorgono e sono contenute nello spazio azzurro del cielo. In Cina è qui che sono sempre ritornato per riconnettermi con la saggezza di base della mia mente, rappresentata dal Bodhisattva Manjushri (cin. Wenshu Pusa). Con il tempo questo è diventato un rito e ancora oggi, ogni volta che arrivo a Chengdu, vado a rendere omaggio alla grande statua di Manjushri a quattro braccia che si trova nel giardino del monastero, all’ultimo piano della biblioteca.

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Questo infatti è uno dei segreti del Wenshu Yuan insieme alla reliquia del monaco Xuanzang e altre reliquie di Buddha e arhat conservate nei due lati dell’ultimo padiglione, quello del Vero Dharma (Zhen Fa), del Ruggito del Leone (Shizi Hou).

E’ così che, dopo aver ritrovato Manjushri, Il Vero Dharma e Il Ruggito del Leone, la mia mente è di nuovo forte e chiara. Sono di nuovo saggio e posso rilassarmi bevendo una tazza di tè al gelsomino in mezzo al caos dei giocatori di carte e di majiang mangiando semi di girasole.

Case, strade e genti di Mukrong

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La casa nel villaggio. Nyinko

La macchina si ferma davanti al monastero ed entriamo.

L’unico  edificio è un piccolo padiglione buio dal pavimento in assi di legno. Le decorazioni che vediamo sembrano molto antiche.

Targye infatti ci spiega che durante la Rivoluzione Culturale il monastero non è stato distrutto come è successo altrove ma trasformato in granaio e per questo ha più o meno conservato il suo aspetto originale.

Molte delle statue originali sono state portate via ma rimangono ancora delle bellissime statue di argilla dipinta raffiguranti Shakyamuni, Padmasambhava e altri buddha e bodhisattva.

Il Karchö Gönpa è di tradizione Nyingma e ha circa ottanta monaci, cinquanta dei quali studiano nelle varie scuole (shedra) dei più importanti monasteri Nyingma del Kham, il Tibet Orentale (Serta Larung, Kathok, Minyak Gönchen, ecc.).

Ora ne rimangono solo una trentina e solo nelle cerimonie più importanti (che si tengono cinque volte l’anno) i monaci sono tutti al completo.

Chiedo a Targye se qui  ci sono  dei tulku o “lama reincarnati” e lui mi responde che non ce ne sono ma che il khenpo1 più anziano, che ha più di ottant’anni, vive da trent’anni in ritiro su una montagna.

Usciamo e proseguiamo verso la casa di Targye ma dopo pochi metri la macchina si impantana su un lato della strada.

Delle donne del villaggio  vengono subito per cercare di tirarci fuori ma, dopo ripetuti tentativi, continuiamo a sentire il rumore sordo del motore e le ruote continuano a girare a vuoto, così Targye ci dice di aspettare in una delle case lì vicino: quella di suo zio.

Come tutte le case dei contadini tibetani, anche questa al piano terra ha il deposito dei viveri e la stalla e al piano di sopra le stanze tutte rivestite in legno ma la cosa che mi ha sorpreso è che qui gli spazi sono grandissimi e le travi e i pilastri sono costituiti da tronchi enormi.

Dopo essere saliti su per una scala veniamo accolti nella cucina e come accade sempre quando si è ospiti dai tibetani a prescindere dal momento della giornata2, ci offrono del tè e qualcosa da mangiare.

Come al solito, devo insistere che non vogliamo altro altrimenti quel qualcosa potrebbe diventare molto più sostanzioso.

Dopo un po’ che eravamo lì seduti, arriva lo zio di Targye, Nyinko,  un uomo alto con i capelli corti, dal volto scuro e un’espressione dura che ci sollecita a mangiare ancora e ci offre delle piccole patate arrostite.

Intorno a noi c’erano altri famigliari  tra cui una bambina silenziosa e il suo fratellino, un bambino dagli occhi vispi.

La cucina è l’ambiente più importante della casa tibetana: è qui infatti che di solito si mangia e ci si riscalda ed è qui che vengono accolti gli ospiti.

La grande stufa di ghisa rettangolare, piatta come un tavolo di metallo non solo è il fuoco dove si prepara da mangiare e si mette l’acqua o il tè a bollire ma, specialmente d’inverno, è il fulcro attorno a cui ruota tutto il mondo famigliare, il cuore della casa, dove risiede la divinità tutelare.

Prima della diffusione delle televisioni dei dei tablet e degli smartphones (che ormai stanno invadendo il Tibet) era qui che vertevano gli sguardi delle persone.

Sono rimasto tante volte accanto alla stufa a sorseggiare il tè ascoltando il gorgoglio dell’acqua e lo scoppiettio del fuoco o semplicemente il silenzio.

Passavo così giornate intere, sorseggiando il tè, immerso in quel   silenzio.

Un affettuoso silenzio in cui quelle persone erano semplicemente lì, finalmente vicine, con la stessa tolleranza ed empatia che hanno gli anziani con i bambini.

Molto spesso infatti il silenzio unisce e le parole dividono.

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La casa nella radura. Apa e Ama3

Mentre stavamo ancora lì seduti è tornato a prenderci Targye e siamo saliti su due moto: mio cugino dietro a lui e io dietro a uno dei ragazzi che era in cucina.

Abbiamo proseguito a fatica per un breve tratto di strada, le ruote delle moto scivolavano nel fango e abbiamo rischiato più volte di cadere.

Arrivati vicino ad una distesa erbosa, sotto una piccola collina, abbiamo proseguito a piedi. La luce era quasi quella del tramonto e un uomo magro dal volto rugoso e i capelli grigi lunghi raccolti in una treccia ci aspettava sul versante della collina.

L’uomo ci è venuto incontro e insieme agli altri mi ha aiutato a salire oltre una fila d’alberi, in una piccola radura dove c’erano una vecchia casa di legno che sembrava inabitata e, più in alto, una casa di pietra.

Sulla soglia di quella di pietra ci aspettavano una donna anziana con i capelli raccolti nell’acconciatura tradizionale delle donne del Minyak4  e due bambini.

L’uomo dai capelli grigi e la donna, che erano il padre e la madre di Targye, ci hanno invitato ad entrare facendoci sedere su dei sottili cuscini di lana di pecora e pelo di yak intorno alla stufa e ci hanno offerto subito del tè e del cibo: pezzi di carne magra da tagliare con il coltello e mangiare con le mani.

“Siamo nomadi, ci sediamo per terra. Le nostre case non sono come quelle dei contadini.” Diceva il padre.

La casa era costituita di un unico spazio grande diviso da tende variopinte con dei motivi floreali e colori molto vivaci. Tranne un piccolo spazio vicino alla porta d’ingresso, le pareti e il pavimento della stanza erano totalmente rivestiti di legno.

L’atmosfera era accogliente e, a parte alcuni scaffali dietro la stufa e il chökhang, l’altare delle offerte in un angolo, l’unica mobilia erano dei letti di ferro su cui erano ammassati vestiti e vari oggetti e due ciocchi di legno che i genitori di Targye usavano come sgabelli.

Non avevo mai visto una casa così: in effetti lo spazio e la mobilia ricordavano più quelli di una tenda.

Nella stanza oltre a noi c’erano anche i nipotini: Norbu Lhamo, una bambina di dodici anni molto calma e responsabile, Pema Lodrö, un bambino che non stava mai fermo e Yeshe Tondak, il più piccolo, a cui piaceva cavalcare un cervo rotondo di gomma verde.

Abbiamo parlato un po’. Fuori dalla finestra gli alberi e le montagne erano avvolte dalla nebbia e cominciava a calare l’oscurità .

Il posto era proprio isolato, il telefono non prendeva e ho pensato che sarebbe stato perfetto per dei ritiri.

Verso le dieci e mezza Targye ci ha preparato due letti con dei cuscini tibetani sul pavimento nell’angolo del chökhang, tirando una delle tende a fiori per separarci dall’ambiente principale e siamo andati a dormire.

Era stata una giornata proprio lunga ed eravamo stanchi.

Continua da Ta’u, la via verso casa.

(Ta’u 17 agosto 2015)

1 Titolo più o meno equivalente a dottore in studi buddhisti che viene conferito dopo circa 13 di studio.

2 Dico “momento della giornata” perché come ho già detto qui le ore non esistono o almeno non come le intendiamo noi.

3 In tibetano “padre” e “madre”.

4 Una treccia “intrecciata” con un nastro rosso avvolta intorno alla testa.

Ta’u, la via verso casa

Questa mattina ci siamo alzati alle quattro e da Serta siamo partiti per Ta’u (cin. Daofu). L’autista era un tibetano dalla faccia rotonda di piccola statura con un taglio di capelli con la riga che mi  ricordava quello di un mio amico turkmeno.

In macchina c’erano alcuni cinesi: un uomo di mezza età con gli occhiali e l’accento del nord, due sorelle di Ziyang, un tipo del Guangxi molto entusiasta che faceva agli altri discorsi sul buddhismo, sulle vite precedenti e future e sul sedile davanti era seduta una ragazza alta dai capelli lunghi, silenziosa e pallida che soffriva il mal di macchina.

Ci siamo fermati a Luhuo (tib. Dranggo) per una breve colazione in uno dei tanti mian guan, negozi di noodles ai lati della strada. Il tipo del Guangxi sgranocchiava contento del pane fritto tibetano durissimo cercando di offrirlo a chi gli stava intorno. Dopo un po’ siamo ripartiti arrivando a Ta’u verso le nove.

Ta’u è una piccola cittadina dell’altopiano tibetano ma la bassa altitudine, i campi coltivati, il verde e gli alberi che la circondano non gli fanno avere quel aspetto di polverosa città del far west come se ne vedono tante soprattutto nel Qinghai e nel Gansu. L’aria è più umida e la temperatura più mite e questo è di per sé già più riposante.

Appena scesi dalla macchina veniamo fermati da un gruppo di autisti che ci vogliono portare in destinazioni diverse e, come spesso accade, nel posto da cui siamo appena venuti. Prendo il numero di un’autista massiccio dai capelli mossi e dai lobi prominenti che mi dice di chiamarsi Orgyan ma che non sa scrivere il suo nome in tibetano.

Attraverso la strada e vado in un negozio a comprare due katak e chiamo il mio amico Targye che si presenta poco dopo in una macchina nera con un altro monaco del Karchö Gönpa.1  Targye ci chiede per prima cosa se abbiamo mangiato, io dico di no e così finiamo tutti in una sala da tè in quella che sembra la via principale, dove al centro, sotto un ponticello sormontato da un gazebo cinese (ting zi), scorre un torrente.

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La sala da té, come altre in cui mi era già capitato di andare, è in “stile vittoriano” con lampadari a finte gocce di cristallo (probabilmente plastica). Tutto intorno scintillano oro e specchi che riflettono la luce che entra dalle grandi finestre. Accanto alle finestre sono sistemati dei tavoli con divani di finto velluto scuro con incastonati tanti grossi diamanti di plastica.

Ci sediamo sui divani e ordiniamo del tè e dei noodles che ci vengono portati da uno dei ristorantini lì vicino. Targye e il suo amico scompaiono di nuovo lasciandoci per un tempo lungo e indeterminato a sorseggiare le nostre bevande.

In Tibet vivi veramente il fatto che il tempo come lo intendiamo noi, con i secondi, i minuti e le ore, non esiste e che sia solo un artificio, una costruzione mentale ma la buona notizia è che, dopo aver scoperto di non avere niente sotto controllo, puoi finalmente farti due risate e rilassarti.

A questo proposito mi viene in mente una storia divertente accadutami tanti anni fa in India…

Eravamo in Kerala, forse proprio a Kovalam, io mia madre e una sua amica e stavamo seduti in uno dei tanti ristoranti “per turisti” che hanno nei menù anche il caffè, i toast e altre cose dei western breakfast. Avevo ordinato dei toast con la marmellata e un chai, il tè con il latte e altre spezie indiano e, dopo tanto tempo che aspettavo, di tanto in tanto facevo dei cenni al cameriere, un ragazzo giovane dalla pelle scura, ricordandogli della mia ordinazione, lui sorrideva e mi guardava con uno sguardo rassicurante facendo dei movimenti ondulatori con la testa come fanno gli indiani del sud quando affermano qualcosa. Intanto il tempo passava e alla mia crescente impazienza lui continuava a reagire con estrema calma, senza il minimo imbarazzo, come se quell’attesa fosse la cosa più normale del mondo, senza scomporsi di un millimetro. Dopo circa quaranta minuti si presenta al tavolo portando in mano solo una tazza, ancora nessun toast e poggiando la tazza davanti a me dice: “your coffee sir!” io rimango sorpreso, mi coglie completamente alla sprovvista, “coffee?” penso tra me e me “ma io avevo ordinato un chai!” per un momento ho pensato di dirglielo ma poi, un po’ per la fame, un po’ per paura di aspettare altri quaranta minuti e un po’ perché mi ero, appunto, arreso, mi sono messo a ridere e ho cominciato a sorseggiare il caffè ed era buono anche quello. Ora non mi ricordo bene cosa ne è stato dei toast ma a quel punto non era più importante perché era quasi ora di pranzo e abbiamo ordinato del pesce.

Ok, torniamo alla sala da tè. Dopo un paio d’ore Targye e l’amico tornano a prenderci, risaliamo in macchina e ci fermiamo a comprare delle cose in un negozio per poi uscire dalla città.

La macchina comincia a salire su una strada sterrata che serpeggia sopra dei pendii scoscesi a ridosso di alte montagne coperte di alberi. In basso nella valle scorre un grande fiume, nei campi le spighe dell’orzo hanno già assunto il loro aspetto dorato  e  qua e là si vedono dei piccoli villaggi dalle colorate case tradizionali di pietra e legno. Siamo diretti a Mukrong, il paese di Targye.

Comincia a cadere una pioggia leggera, Targye ci dice che è un segno di buon auspicio e la macchina prosegue sobbalzando a ritmo di musica disco di artisti occidentali semi sconosciuti.

La natura sembra incontaminata. Ci fermiamo per una sosta.

Nell’aria si sente un profumo di alberi e fiori. Anche qui ci sono le stelle alpine, ne vediamo tante crescere proprio sul ciglio della strada.

Passiamo vicino ad una grande roccia con sopra scolpiti dei mantra bön, quello di Matri e di Shenlha Ökar. 2

“Qui vicino c’è un monastero bön e quella è la montagna sacra Drakkar.”

Finalmente arriviamo ad un villaggio con un piccolo monastero.

“Quello e il Karchö Gönpa.”

Siamo arrivati a casa.

(Ta’u, 17 Agosto 2016)

1 Monastero di Karchö.

2 Nomi di due divinità bön.

Video

Lungta

In questo video, dedicato ai miei amici e compagni di viaggio, ho messo il cuore e quella che per me è l’essenza dello spirito del Tibet. Possa la gioia e i buoni auspici del Cavallo di Vento (Lungta) crescere sempre di più per tutti noi.

Viaggio In Tibet: la Compagnia

Come viandanti andavamo in cerca di ospitalità in villaggi assolati e lande desolate, tra amici, monaci ed eremiti e abbiamo conosciuto  la magia di antiche tradizioni spirituali.

Dall’alto delle montagne sacre bodhisattva e divinità del luogo hanno vigilato sul nostro cammino e, sotto una miriade di stelle, vicino al calore del fuoco, ci siamo addormentati sopra i guanciali della terra.

Viaggio in Tibet Amdo e Kham con mio cugino, estate 2015.

Nagwa e Golok

Primo viaggio a Jamda e Kalachackra a Tsinang, Ngawa e Golok 2005-2006.

Ngakpa

Momenti di vita tra i ngakpa, Amdo 2005-2006.

 

Lo spirito nella camera da letto

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Una mattina Gönpa, un mio amico di Dzoge che vive a Labrang, mi ha detto che stava andando da Alak Chomge, il lama anziano dove ero andato con Danpa qualche giorno prima.

Voleva chiedergli di scacciare uno spirito maligno che causava problemi e litigi fra lui e la moglie. Abbiamo preso un sanlunche1, siamo partiti per la strada principale e poi abbiamo continuato salendo per le vie laterali passando tra le  case dei monaci fino alla residenza del lama.

Entrati nella sua stanza, Gönpa si è inginocchiato davanti a lui tre volte, gli ha offerto un katak e ha cominciato a parlare con lui in tibetano. Dopo averlo ascoltato in silenzio, Alak si è messo a ridere e ha continuato a guardarlo con quel suo sguardo vitreo e misterioso  lasciando Gönpa senza parole, con un’espressione imbarazzata.

Io non capivo niente di quello che dicevano e uscendo ho chiesto al mio amico cosa avesse detto il lama.

“Ha letto la mia mente” mi ha risposto lui intimorito.

“Perché? Cosa è successo?”

“Alak ha detto: come posso aiutarti se non hai fiducia in me? Questa mattina volevi andare da un altro lama.”

“Ed è vero, questa mattina ero indeciso se andare da lui o da un altro lama importante del monastero e lui lo ha visto. Altrimenti come poteva saperlo?

“Incredibile! Ha letto la mia mente.” continuava a dire in inglese mentre ci allontanavamo.

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Protezione contro le influenze negative degli spiriti gyalpo.

10 agosto

Questa mattina c’era il sole, poi dopo pranzo si è messo a piovere e adesso, le 4 del pomeriggio, è rispuntato il sole.

Anche ieri mentre pioveva da una parte della città, dall’altra c’era il sole. Un versante della montagna era ombroso, mentre l’altro era soleggiato. Qui il tempo è strano.

Ieri con Danpa e Gönpa siamo tornati da Alak Chomge per chiedergli la trasmissione (lung) di alcuni mantra

Alak è un lama che vede chiaramente nel cuore delle persone, sembra vedere il passato e un probabile futuro e temevo che vedesse anche le mie paure, le mie contraddizioni interne, la mia inquietudine.

Il nervosismo e l’esitazione nel varcare la porta si sono dissolti in un istante quando ho udito la sua risata dolce e confortante. “Se riesce a vedere la mia mente allora è inutile essere nervoso.” “Sono come sono.”

“Chö demo”2 ho detto e Alak, con la stessa voce di un nonno che si rivolge a un nipote, ha risposto lentamente: “ya ya demo”.

Stava seduto sempre nella parte rialzata della stanza, mi sono inginocchiato davanti a lui per tre volte e gli ho porto un katak bianco con un’offerta in denaro. Sono rimasto in ginocchio davanti a lui a testa bassa e occhi chiusi mentre Alak pronunciava dei mantra e alcuni versi per me incomprensibili. Questo era un lung.

Alla fine della trasmissione mi ha detto che se avessi recitato questi mantra ogni giorno, avrei facilmente superato il problema in cui mi sarei imbattuto a 36 anni.

Alak mi ha dato anche un cordino rosso da mettere al collo e una sua foto sulla quale aveva sparso dei semi d’orzo sussurrando delle preghiere.

Avevo detto che il tempo oggi era strano? Si è rimesso a piovere.

Continua da La benedizione del lama sotto un mare di stelle

(Labrang, estate 2000)

1Una moto con dietro un rimorchio dove si possono sedere più persone (una specie di ape scoperto).

2 Un saluto comune in questa parte del Tibet .

La benedizione del lama sotto un mare di stelle

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Il sole stava per tramontare quando siamo andati alla casa del lama di Danpa, Alak Chomge.1

La sua casa era in alto in direzione della montagna, vicino alla khora. La strada sterrata saliva fino ad uno spiazzo su cui si affacciava una porta. Siamo entrati nella grande porta di legno a due ante e attraversato un ampio cortile salendo delle scalette di pietra.

In una stanza di legno ad un angolo del cortile  sedeva il lama  con altri due monaci. Mi dissero che aveva 84 anni ed era uno dei lama più anziani del monastero. Mi hanno colpito i suoi occhi, chiari per la vecchiaia, sembrava che vedessero oltre l’apparenza delle cose. Quando sono entrato la prima cosa che ho fatto è stata inginocchiarmi davanti a lui  porgendogli una sciarpa rituale  bianca (katak) tenuta con entrambe le mani e lui, dopo averla presa, me l’ha appoggiata sulle spalle e  toccandomi dolcemente le guance con entrambe le mani come si fa con i bambini  ha detto: “o ya!”

Sedeva in un angolo della stanza, questa era tutta rivestita di legno rossastro con katak bianchi, gialli e azzurri appesi alle pareti.

I monaci che stavano nella stanza ci hanno offerto una ciotola di yogurt. Abbiamo parlato un po’ con Alak Chomge, Danpa traduceva e di tanto in tanto l’anziano rideva calorosamente.

Danpa gli stava spiegando che avevo studiato e lavorato per un po’ a Pechino e che ero poi venuto a Labrang l’estate e il lama disse che vedeva tutte le cose che avevo fatto in precedenza. Ero molto emozionato, non ho mai creduto a queste cose ma mentre il lama parlava e mi guardava non avevo alcun dubbio che quello che diceva fosse vero.

Quando Danpa gli ha raccontato la mia paura riguardo a quello che mi sarebbe successo a 36 anni, lui si è messo a ridere, dicendo che se avessi recitato dei mantra la mia vita non avrebbe avuto problemi. Prima di andare via mi ha fatto mettere di nuovo in ginocchio davanti al piano rialzato dove sedeva e, prendendo un testo buddhista avvolto in una tela gialla, lo ha appoggiato sulla mia testa, poi sulla spalla destra, poi su quella sinistra, poi ancora sulla testa e così via, recitando dei versi in sanscrito a voce bassa che non capivo.

Alla fine ha appoggiato di nuovo il tomo sulla mia testa e ha concluso la recitazione con la parola samaya detta a voce un po’ più alta. In quel momento ho sentito un’energia penetrare nella sommità della testa e propagarsi verso il basso come un brivido.

Abbiamo salutato Alak Chomge e gli altri monaci e siamo andati via.

Stavamo andando a casa di Danpa e scendevamo giù per le vie del monastero. Era buio.

Quando siamo arrivati, il fratello di Danpa, Lobsang e il piccolo monaco allievo di Danpa, stavano preparando da mangiare. La stanza di legno era riscaldata dal calore della stufa. Dopo mangiato ho studiato un po’ di tibetano con Danpa e gli ho insegnato un po’ d’inglese. S’erano fatte le dieci, era tardi e l’indomani dovevo insegnare inglese ai bambini con il mio amico Gönpa, dovevo andare.

Danpa mi ha accompagnato con una piccola torcia lungo le strade di terra che serpeggiano irregolari tra le case dei monaci dai muri d’argilla. Tutto intorno era buio, solo la luce di stelle mai viste prima. La via lattea era chiara e distinta, sopra di noi brillava la costellazione dello scorpione con la sua stella rossa: Antares.

Continua da Aku Danpa

(Labrang, 3 Agosto 2000)

1 Alak Chomge è il settimo in ordine d’importanza a Labrang Thashikyil (su 65 lama). Alak è un termine molto usato in queste zone dell’Amdo davanti ai nomi dei lama per indicare la reincarnazione di un maestro (in altre zone è più usato il termine tulku  o rinpoche).

Aku Danpa

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Le cose che ci circondano, gli eventi che ci accadono, i nostri progetti, comprese le relazioni che abbiamo con gli altri, sono tutte interdipendenti (in tibetano tendrel). C’è una parola tibetana che indica una circostanza fortunata: thashi tendrel. Alcune persone pensano che thashi tendrel sia una cosa che possiamo creare, determinare ma essa si manifesta spontaneamente: in un giorno importante alziamo lo sguardo e vediamo un arcobaleno.

Se pensiamo di poterla creare la nostra mente comincia a ragionare calcolando e molto probabilmente non si manifesterà.

Voglio raccontare una storia che comincia da una di queste circostanze fortunate e  prosegue attraverso le tante  situazioni interdipendenti che da essa si sono dispiegate.

Un pomeriggio ero a Roma a Prati con mio nonno, in una delle varie “spedizioni” pratiche o burocratiche, stavamo  camminando sul marciapiede e improvvisamente il mio sguardo venne catturato dalla copertina di un libro in una vetrina di una libreria. Sulla copertina c’era l’immagine di un buddha: era il libro di Terzani “Un indovino mi disse” e mio nonno me lo regalò.

La storia di Terzani e dei suoi incontri con vari indovini e astrologi mi piacque molto, l’idea di conoscere  il mio futuro mi incuriosiva e allo stesso tempo mi spaventava. Per tutto quell’anno ne fui fortemente influenzato e nei miei viaggi in Asia, quando sentivo di un indovino o di un astrologo, lo volevo incontrare per farmi predire il futuro.

A Labrang quell’estate ho conosciuto un monaco che veniva da Trika (cin. Guide, nella provincia del Qinghai), si chiamava Aku Danpa e viveva nel monastero di Thashikyil insieme a suo fratello Lobsang. Entrambi avevano un viso che sembrava quello delle antiche statue di legno dorate  dei lama e dei buddha che si trovano ancora in alcuni vecchi monasteri.

Aku Danpa aveva studiato medicina tibetana e astrologia e subito pensai di farmi leggere il futuro. Era il primo dei miei indovini.

Gli dissi la mia data e ora di nascita e dopo qualche giorno Aku Danpa mi diede la risposta che aveva scritto su un foglio di carta.

“La tua vita andrà  sempre meglio ma a 36 anni (35 in occidente)1 avrai un  problema abbastanza grande che poi supererai”.

Sì, è vero l’avrei superato ma le parole “problema abbastanza grande” avevano fatto sorgere in me una certa agitazione.

Quando gli chiesi più spiegazioni, lui rispose che per dirmi con più precisione cosa sarebbe successo a 36 anni avrebbe dovuto fare un altro calcolo astrologico più specifico di quella fase della mia vita e che ora non aveva tempo ma  se volevo mi avrebbe portato dal suo maestro, un lama molto anziano, e  avrei potuto chiedere a lui.

1 Quando Aku Dampa mi lesse la risposta disse 36, ma molti tibetani a cui raccontai in seguito questa storia mi dissero che era 37 (In occidente 36 anni. Nell’astrologia tibetana e in quella cinese infatti si conta anche il periodo passato nel grembo materno e si aggiunge un anno). Nel 37° anno, infatti, si conclude il 3° ciclo dei 12 animali e l’elemento dell’anno è in contrasto con l’elemento del proprio segno e in genere si presentano negatività e ostacoli.  Per il serpente di fuoco (1977) il 37° anno è stato il serpente d’acqua (2013).

La khora di Labrang

拉卜楞寺的转经筒长廊

20 luglio

Finalmente mi sono elevato dagli abissi di Lanzhou, una delle città più inquinate del mondo, alle montagne del Amdo, la Lamaseria di Labrang dove ho rincontrato i miei amici Gönpo e Sebastiano.

Erano due anni che non vedevo Sebastiano e sono stato contentissimo di parlare ancora con lui. Parlavamo sempre di tante cose: la visione della vita, il significato e il valore dei rituali e della spiritualità in genere e lui aveva sempre un grande senso dell’umorismo e di tanto in tanto faceva battute per sdrammatizzare il tutto.

Nel tardo pomeriggio siamo andati insieme ad un bambino olandese e ai suoi genitori a trovare un giovane tulku nella sua residenza poco lontano dalla Guesthouse del monastero.

Il tulku ha undici anni ed è la reincarnazione di un lama che nella vita precedente aveva raggiunto un alto livello di realizzazione.

Sono rimasto stupito dal suo inglese, decisamente inusuale per un bambino della sua età. Monaci, tutori, suo padre e sua madre gli stavano sempre vicino.

Tra loro c’era anche un ragazzo di Pechino, un tipo molto magro con un po’ di barba e baffi.

Era buddhista, aveva incontrato il piccolo lama alla montagna sacra Wutai in Cina ed era tornato qui con lui per insegnargli il cinese ed approfondire il suo studio e la sua pratica.

Questo fatto è decisamente inusuale infatti in Cina, a parte i monaci, qualche anziano e qualche curioso, finora non ho incontrato molti cinesi buddhisti e quelli che seguono il buddhismo tibetano sembrano essere ancora meno.

Sul piazzale del monastero vedo spesso pullman di turisti cinesi ma nessuno che preghi o che abbia una mālā in mano o al collo, si limitano a girare per i vari padiglioni seguendo goffamente una guida e a fare foto invadenti lungo la khora ai pellegrini suscitando reazioni di sdegno. I tibetani infatti non amano essere fotografati da loro o comunque non sembrano dargli il benvenuto.

Bempa, così si chiama il piccolo lama, ha un’energia e una voglia di giocare uguali a quelle di tutti i bambini. Abbiamo fatto qualche passaggio a pallone con lui fuori nel cortile ed era molto contento. Dopo un po’ siamo andati via.

La sera nella cameretta di Sebastiano, dietro al ristorante, abbiamo mangiato ancora tofu in salsa piccante, patatine fritte e dei funghi tibetani infarinati con l’orzo dal gusto burroso. Dopo una lunga chiacchierata sono andato a dormire, ero esausto.

Le stelle si stagliavano nitide e luminose su cielo nero….le stelle di sempre.

21 Luglio

Oggi dopo tanto tempo ho seguito la khora intorno a Labrang Thashikyil. Qui il sole è molto forte e le ore migliori per circoambulare il monastero sono quelle del primo mattino o del pomeriggio dopo le cinque, così io e Sebastiano ci siamo incamminati nel tardo pomeriggio, dopo aver comprato del pane, e preso del ketchup e della marmellata. E venuto anche con noi Asang un bambino tibetano molto vivace e ci seguiva con in mano un sacchetto d’uva fragola che gli aveva dato sua madre. Camminavo come tutti gli altri facendo girare le grandi ruote di preghiera (mani khorlo) colorate con una mano e tenevo la mālā (una sorta di rosario) nell’altra.

Alla fine di una fila di ruote e all’inizio di un’altra spesso c’erano delle piccole stanze scure, le pareti ricoperte di dipinti raffiguranti i buddha e i bodhisattva erano illuminate solo dalla luce fioca di lumini ad olio e al centro c’erano delle ruote dalle dimensioni enormi. Ruota dopo ruota, le lettere dorate dei mantra che giravano scintillando alla luce del sole mi facevano quasi perdere l’equilibrio.

Il nostro cammino era accompagnato da file di vecchiette rugose e sdentate, pastori sporchi dalle facce bruciate dal sole e sorrisi dorati, ragazze sorridenti e curiose e monaci dal passo spedito. Il bisbigliare di mantra ondeggiava nell’aria, come i cerchi provocati da un sasso in uno stagno.

Arrivati al Gungthang Chörten ho incontrato Kagya, il monaco custode che avevo conosciuto l’anno scorso e con cui mi fermavo spesso a parlare quando arrivavo in quel punto.

Le montagne ondulate, i falchi, il fiume, il ponte di legno con le bandierine di preghiera.

Passato un secondo e più piccolo chörten bianco in muratura siamo saliti lungo il sentiero che sovrasta gli ampi piazzali e i tetti d’oro del monastero e che costeggia la montagna, ci siamo fermati su dei gradini e alla rosea luce del tramonto abbiamo pasteggiato a base di pane, ketchup, marmellata e uva.

Demo” dicevano i monaci che passavano lungo la via. Eravamo rimasti lì seduti da un po’ a parlare e a goderci il panorama e quell’atmosfera di pace, quando è arrivato un uomo sporco e stracciato e rivolgendosi a noi, ha detto qualcosa per me incomprensibile. Sebastiano mi ha detto che l’uomo ci aveva invitato ad avviarci verso casa e che lui ascoltava sempre i consigli di uomini così.

“Hanno un sesto senso è meglio ascoltarlo.”

Così ci siamo incamminati, il sole era quasi tramontato del tutto. Le casette di meditazione sul fianco della montagna….due padiglioni con ruote enormi e lumini ad olio….un giro intorno ad un altro chörten….un ultima lunga fila di ruote ed eravamo al ristorante di Dorje.

Il giro era finito ed eravamo molto stanchi: due momo di yak fritti e a letto.

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28 luglio

Questa mattina come al solito ho fatto colazione al ristorante della famiglia di Dorje: il Labrang Monastery Restaurant con tsangpa e tè con latte. Finalmente, dopo tanti tentativi, l’impasto dello tsangpa mi riesce bene e non faccio più il solito pasticcio che fa ridere tanto i tibetani.

Dopo colazione sono andato a fare la khora, il tempo era brutto e lo è stato fino a sera, ha piovuto e tirava un vento freddo. A cena ho mangiato dei mian e sono tornato alla guesthouse del monastero.

Questa guesthouse si trova in una piccola traversa della via principale più sù poco lontano dal ristorante ed è una delle più economiche (un posto letto costa 5 kuai). Attraversando un cancello di ferro, si entra in un cortile di terra battuta intorno a cui si aprono delle porte di legno arancioni ognuna con accanto una finestra.  Dalle porte arancioni si accede direttamente nelle stanze che si trovano tutte al piano terra.

La mia stanza ha due letti, una stufa (di solito alimentata con sterco di yak essiccato) e un bollitore d’alluminio per l’acqua calda, la porta si chiude puntellando un asse di legno alla stufa. Come la maggior parte delle  abitazioni in Tibet e non c’è l’acqua corrente l’acqua si prende da un pozzo o dal bidone nella stanza di Kalsang, il gestore della guesthouse, e ci si lava in una bacinella nella stanza e il bagno è una latrina comune fuori.

Gli altri ospiti della guesthouse sono principalmente pellegrini tibetani o mongoli, che vengono a visitare il monastero e a fare la khora.

Di tanto in tanto per il cortile passeggia qualche vecchietta rugosa e sdentata.

Una vecchietta con i vestiti colorati e i capelli legati in piccolissime treccine divise in tre fasce, che arrivano quasi a terra, sorride ogni mattina.

Accanto al cancello c’è la stanza di Kalsang, un amico di Lama.

Kalsang è un uomo di bell’aspetto, magro con i capelli corti, ha vissuto in India per molti anni e parla bene inglese. La sera ho parlato con lui, è un tipo strano, di poche parole, un po’ enigmatico.

A Labrang girano tante storie su di lui e su alcuni dei suoi amici. Ogni tanto lo incontri sulla strada o lo vedi uscire  da dietro un angolo. Con quel suo sguardo furbo e furtivo sembra sempre essere in cerca di qualcosa o di qualcuno. Sembra saperne una più del Diavolo.

29 luglio

Oggi io e Dom, un ragazzo belga che avevo conosciuto la sera prima, ci siamo incamminati verso una delle montagne di fronte al Gungthang Chörten, abbiamo passato il ponte di legno ricoperto di bandierine di preghiera, siamo arrivati dall’altra parte del fiume, siamo saliti sulla montagna e ci siamo seduti sull’erba al sole ammirando il panorama: i tetti dorati del monastero e del chörten e le basse case d’argilla dei monaci. Vicino a noi c’erano un uomo e una donna che sedevano in silenzio con i rosari in mano e abbiamo parlato un po’.

Dopo un po’ è arrivato un ragazzo e insieme a lui siamo saliti più in alto fino ad un boschetto di pini alti e sottili che s’innalzavano sopra un soffice tappeto di muschio. Siamo rimasti lì per un po’ in silenzio ad ascoltare il suono del vento, un sibilo dolce che faceva muovere le cime degli alberi.

“Prima qui non c’erano alberi.” Ha detto il ragazzo.

“Qui un giorno il lama di Labrang  si e rasato e ha sparso i suoi capelli che sono diventati alberi di pino.”

“Quest’anno se ne è andato, quindi ci sono meno fiori.”

“Perché non ci sono i falchi?” Ho chiesto.

“Perché ieri è morto uno del paese e i falchi stanno dall’altra parte della montagna, dove hanno portato il corpo.”

“Hanno già finito?” Ho detto io alludendo al funerale celeste.

“Non ancora, adesso i lama stanno recitando le scritture e impiegheranno ancora qualche giorno.”

Dopo un po’ siamo riscesi e la sera ho giocato a xiangqi (scacchi cinesi) con il padre di Dorje, il padrone del Labrang Monastery Resaurant.

(Labrang, estate 2000)

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Il Tibet

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Molte persone mi chiedono come sono finito in Tibet e le ragioni del mio interesse per questa terra e per le sue tradizioni. Noi occidentali amiamo chiederci infiniti perché e pretendiamo sempre di avere una risposta precisa per ogni domanda. Una volta mi trovavo a casa di Sangye Öser, un lama anziano di tradizione Jonangpa. Avevamo appena finito di mangiare e come al solito sedevo vicino a lui a parlare bevendo il tè. “Rinpoche, se io oggi sono qui a parlare con te cosa vuol dire? Chi ero nella mia vita precedente?” gli chiesi preso da quella curiosità e voglia di fare domande che gli occidentali e i cinesi spesso hanno quando non riescono a rilassarsi nella situazione così com’è. Lui mi rispose con la sua voce affettuosa e gentile: “Eri uno che seguiva l’insegnamento del Buddha” e poi disse: “Noi staremo insieme tutta la vita”.

Nel ’97 studiavo alla facoltà di Lingue Orientali, quello era il mio primo anno e al corso di lingua cinese non avevo ottenuto grandi risultati, ero sul punto di mollare quando decisi di partire per la Cina. Ero da solo e andavo a trovare degli amici che avevano appena terminato il corso estivo di cinese per poi viaggiare insieme. Questo paese mi piacque moltissimo e pochi mesi dopo ci tornai per studiare la lingua all’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Alla fine del corso, nel mese di luglio, i miei amici avevano progettato di fare un viaggio nello Xinjiang, e in Tibet, la terra dalle montagne più alte del mondo ma non ero tanto attratto, non mi piaceva viaggiare con tante persone e quei luoghi erano in quel momento lontani dalla mia idea di Cina, un paese che per me era ancora tutto da scoprire, preferivo viaggiare da solo e vedere altri posti. Avevo con me una guida della Cina che mi aveva regalato mia madre, la sfogliavo ripetutamente in cerca di mete da raggiungere, quando la mia attenzione fu catturata da poche righe stampate:

Da Lanzhou prendete un autobus di primo mattino e preparatevi a uno scomodo viaggio di 10 ore (260 km di strade di montagna). Xiahe si trova a un’altitudine di circa 3000 metri. Ma vale la pena di affrontare qualche fatica perché è un posto davvero stupendo! Vi sembrerà di essere in Tibet o, meglio ancora, nel paradiso della Cina!

La città di Lanzhou era il capoluogo del Gansu e a quell’epoca per arrivarci ci volevano circa 30 ore di treno da Pechino. Partii con un piccolo zaino sulle spalle, nel cuore provavo un sentimento di eccitazione e allo stesso tempo un senso di timore, timore per ciò che non conoscevo, a cui non ero preparato.

Partii non sapendo che Xiahe, quel “piccolo paradiso” che per me si trovava nel bel mezzo della Cina, era la città di Labrang. Labrang si trova nell’area dei pascoli intorno all’alto corso del fiume Sangchu nel Tibet nord-orientale, l’Amdo ed è qui che sorge il più grande monastero di quelle terre, Labrang Tashikyil. Quel viaggio avrebbe segnato per me un cambiamento profondo.

Attraversai una zona piuttosto arida: pianure punteggiate da filari di pioppi, montagne color ocra, dove crescevano solo pochi ciuffi d’erba. Quello che mi colpì di più fu la scarsa vegetazione e la mancanza d’acqua che caratterizzava quelle zone, dove l’agricoltura sembrava essere davvero difficile. Di tanto in tanto il treno si fermava in un villaggio dalle casette di mattoni, oppure in una città dai palazzi di cemento dove una o più ciminiere sputavano fumo nero. Fuori dal grigiore delle città, tutte dall’aspetto trasandato e squallido, i colori prevalenti erano l’azzurro del cielo e il giallo ocra della terra.

Arrivai a Lanzhou e poi a Xining e mi ritrovai immerso in quel mare di etnie che caratterizza l’attuale Cina dell’ovest: cinesi (han), dungani (hui), tibetani, salar, dongxiang, uighur, ecc. Lì, dopo gli han, la popolazione è costituita soprattutto dagli hui (in quegli anni i tibetani erano ancora pochi) e tra gli edifici religiosi prevalgono le moschee.

A Xining andai a visitare il monastero di Kumbum che sorge in una valle vicino alla città e dove nacque Lama Tsonkhapa, il grande maestro che fondò la scuola dei Gelugpa, “i virtuosi”. Quello fu il mio primo contatto con un monastero tibetano in Tibet. Per Pechino quello era il “far west”, quello che oggi sta tentando di sviluppare con slogan che echeggiano da tutti i media nazionali.

Tornato a Lanzhou presi un autobus per Labrang. All’epoca le strade erano molto più dissestate e il viaggio durava circa dieci ore (oggi con la nuova strada si impiegano tre ore e mezzo). Ad ogni centro abitato o villaggio continuavano a salire persone con grossi sacchi sporchi e pecore e molta gente sedeva su sgabellini di plastica bassissimi in mezzo al corridoio. C’erano parecchi hui con i loro copricapi bianchi. Passata Linxia, oltre il Chörten Karpo1 di Tumen Guan cominciarono a vedersi tibetani con il loro lunghi vestiti tradizionali.

Gli uomini portavano grandi cappelli a falda larga e le donne i capelli lunghi pettinati in una o due trecce. Man mano che si saliva lungo i tornanti delle montagne queste diventavano più verdi, il caldo afoso diventava fresca aria di montagna e il cielo grigio pieno di foschia di Lanzhou diventava un limpido cielo azzurro. Avevo l’impressione di salire verso il paradiso.

Labrang era diversa dalla Cina che avevo visto fino a quel momento: in effetti di cinese sembrava avere solo gli ideogrammi sui cartelli e la burocrazia. Alloggiavo nella parte alta della città alla Tara Guesthouse, di fronte alla khora2 del monastero e qui vedevo quasi esclusivamente tibetani. L’atmosfera era leggera, tutt’intorno si vedevano i profili ondulati delle montagne, nell’aria si sentiva il profumo del sang3 e si udiva un tintinnio di campanelli. Il sole brillava sui vestiti rossi dei monaci e su quelli variopinti dei pellegrini, dando anima a quei colori come per incanto.

Al ristorante del monastero incontrai Sebastiano, un ragazzo italiano che aveva passato lì molto tempo. Sebastiano era fidanzato con una ragazza del posto e parlava il cinese e il dialetto tibetano dell’Amdo. Inoltre aveva cominciato a studiare il Buddhismo e, per me, sapeva già molte cose. I racconti di Sebastiano, il fascino di quel luogo e della sua gente fecero nascere in me il desiderio di conoscere quella cultura, di comunicare con quelle persone usando la loro lingua. Il primo giorno avevo già imparato a salutare: “demo” e a ringraziare: “shata”.

Nei giorni successivi cominciai a studiare quella lingua con Lama4, un tibetano amico di Seba che parlava un po’ d’inglese. Mi annotavo le frasi su un block notes usando una traslitterazione fonetica improvvisata. Lama mi fece comprare un libro di lingua tibetana per bambini continuò a insegnarmi: mi assegnava dei compiti che controllava il giorno dopo e facevamo un po’ di conversazione.

Ogni giorno, facevo colazione al ristorante del monastero e studiavo. Dopo lo studio seguivo i pellegrini lungo la khora, la via che gira intorno al monastero. La khora di Labrang è di circa tre chilometri e perciò lungo la strada molti pellegrini mi facevano cenno di fermarsi a riposare. Ci sedevamo sulle pietre a ridosso della strada o, passato il vecchio ponte di legno sul Sangchu, salivamo sulla collina davanti al Gungthang Chörten e sedevamo sull’erba. Mi offrivano pane e frutta facendo dei grandi sorrisi. La nostra comunicazione avveniva a gesti, sguardi e sorrisi e ogni tanto qualche parola: “nyima tsage” (Il sole scotta) o “chö shage” (Sei bravo). Quando indicavano la mālā che avevo in mano, io recitavo prontamente: “Om Mani Padme Hum” e loro mi sorridevano e i loro occhi brillavano.

Volevo comunicare con quella gente cercando di avere un rapporto diverso da quello che ha di solito un turista. Molti di loro erano nomadi e pastori, le nostre vite erano così diverse e l’unica cosa che avevamo in comune era il percorrere quella via, la khora, che per me fu il primo giro della Ruota del Dharma.

Così mi avvicinai al Buddhismo ingenuamente, come per gioco, non conoscevo l’insegnamento e passavo molto tempo a circo-ambulare il monastero con i monaci e i pellegrini. Spesso venivo invitato dai monaci a prendere il tè e facevo delle piacevoli deviazioni lungo il percorso. La khora era un luogo di incontri e aveva un valore sociale oltre che religioso: qui si incontrava tutto il paese e si incontravano i pastori nomadi dei pascoli vicini e di quelli lontani.

Sono stati proprio quei pastori ad aprirmi il cuore…. a loro andrà sempre la mia riconoscenza.

Negli anni successivi sono tornato nuovamente a Pechino per perfezionare lo studio del cinese e ho compiuto molte altre escursioni in Tibet: nel Kham (Gyeltang e Dartsedo*) e soprattutto nell’Amdo (Mewa; Ngawa; Golok; Machu; Labrang e la zona del Sangchu; Rebkong*). Nell’inverno del 2000-2001 festeggiai a Labrang il primo capodanno, il più freddo che abbia mai trascorso. Quell’anno, l’anno del Serpente di Metallo, il losar cadde il 24 Gennaio e il primo giorno dell’anno fece una gran nevicata.

* A parte Labrang, gli altri sono nomi di aree più vaste e non di singoli centri abitati.

1Un chörten, “supporto per le offerte”, è un monumento che al suo interno conserva delle reliquie di esseri realizzati o/e testi buddhisti. Il suo nome sanscrito è stūpa. Il Chörten Karpo (lett. chorten bianco) si trova sulla strada che da Linxia porta a Labrang. Si pensa che questo fosse l’antico confine tra Cina e Tibet. Un anziano di Labrang mi ha riferito che qui i tibetani, tra tutte le altre merci, scambiavano i loro cavalli con il tè proveniente dalla Cina. I cinesi chiamano questo luogo Tu Men Guan, poco lontano dal chörten infatti si trova una porta con questo nome di recente costruzione (Labrang, 2005).

2 La khora è la strada percorsa dalla gente durante la circoambulazione rituale di un monastero, santuario o luogo sacro.

3 Il sang, offerta di fumo profumato effettuata bruciando ramoscelli di ginepro e altre sostanze. Cfr. Stein R. A. La Civiltà Tibetana , Torino: Einaudi 1986, p.178. Per una descrizione più dettagliata del culto del sang vedi Namkhai Norbu, Drung, Deu e Bön, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 1996, pp 193-197.

4 In questo caso Lama è un nome proprio.

Il Maestro del monastero nella valle di turchese

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Qualche mese fa se ne andato il grande maestro del Monastero di Yuthok nell’Amdo, Karma Sönam Rinpoche. Dopo aver annunciato che il suo momento era arrivato, è entrato in meditazione e dopo qualche giorno il suo corpo è diventato sempre più piccolo. Karma Sönam aveva 93 anni ed era un importante lama della tradizione Karma Kagyu e praticante del chöd, tra i tanti segni straordinari di realizzazione ha lasciato l’impronta della sua mano nella roccia.

Ho avuto la fortuna di incontrarlo due anni fa, Rinpoche era molto vecchio e benediceva le persone dalla finestra della sua casa nel monastero gettando del riso.

Qui sotto riporto una mia traduzione della versione cinese del testo tibetano che racconta le vicende del parinirvāṇa di Tulku Karma Sönam:

Ecco in breve come sono andate le cose:

Rinpoche quest’anno aveva annunciato che non sarebbe rimasto in vita ancora a lungo, suo nipote voleva costruirgli una nuova casa e, quando ne parlarono, Rinpoche disse che tutto era impermanente, che questo sarebbe stato il suo ultimo anno in questo mondo e che non c’era bisogno di costruire una casa, non aveva bisogno di ricchezze o cose di questo tipo. Grazie alla sua chiaroveggenza sapeva che questo sarebbe stato l’anno del suo parinirvāṇa.

All’inizio dell’autunno, Rinpoche si era molto indebolito e i monaci si erano preoccupati e lo avevano pregato di andare in un grande ospedale, per accontentarli Rinpoche si era fatto portare all’Ospedale del Popolo della Contea di Dzamthang per farsi visitare ma non ha voluto rimanere a lungo e il giorno dopo è tornato al Monastero di Yuthok.

Alle persone più vicine aveva detto: “Dopo che sarò morto avvertite Dodrupchen Rinpoche, a parte questo non c’è bisogno di fare nient’altro. Quando i monaci dagli altri monasteri verranno in visita, fategli dei regali, non fateli tornare indietro a mani vuote. Dopo che sarò morto non c’è bisogno che facciate per me delle opere buone, io non ho nemmeno i soldi per farle…”. Così aveva richiesto più volte. 

“Le due statue e il dorje e la campana che ho usato nella pratica sono molto belle e preziose, lasciatele nella mia stanza come oggetti benedetti. Non fate costruire al monastero uno stūpa reliquario per me, se ce ne fosse proprio bisogno lasciate costruire uno stūpa d’ottone a mio nipote e nient’altro.”

Tra le altre cose Rinpoche aveva detto più volte che il suo trono nella terra pura di Sukāvatī  era vuoto e che, una volta rinato lì, avrebbe beneficiato tutti gli esseri senzienti che avevano avuto una connessione con lui. Prima di andarsene Rinpoche aveva chiesto a suo nipote Tulku Sangye Tenzin se fosse l’ottavo giorno del mese del calendario tibetano e aveva risposto da solo che era il sette e che l’indomani sarebbe stato l’otto.

Il giorno dopo Tulku Sangye Tenzin guidò la pratica, Rinpoche alzò il pollice in segno di ringraziamento e entrò in meditazione, nel perfetto stato di Mahāmudrā e per la felicità dei discepoli che avrebbero voluto vederlo ancora per tanto tempo, mantenne la posizione del nirvāṇa come una persona ancora in vita.

Alle dieci passate dell’8° giorno le persone del monastero hanno chiamato in India Sua Santità Gyalwa Karmapa, Tai Situ Rinpoche e Dodrupchen Rinpoche e gli hanno riferito la notizia del trapasso di Karma Sonam e, seguendo le loro istruzioni, il consiglio del monastero ha mandato il maestro vajra Lama Karma Loyak e Khenpo Tulnam a svolgere gli ultimi rituali vicino ai resti del corpo di Rinpoche.

Il 18° giorno del calendario tibetano ( il 10 novembre 2014) è cominciata ogni giorno a venire una folla di circa 6-7 mila monaci e laici a rendere omaggio ai resti del corpo di Rinpoche.

Quelli che sono venuti a rendere omaggio dovranno recitare 100.000 volte il nome di Amitābha, quelli che hanno preso il sale che avvolgeva i resti dovranno recitare 100.000 volte il mantra di Avalokiteśvara e quelli che hanno preso dei pezzi del vestito dovranno recitare 100.000 volte il mantra di Vajrasattva.

I monaci del nostro monastero dovranno promettere di impegnarsi nelle dieci azioni virtuose e di contribuire all’unione delle Tre Regioni (Ü-Tsang, Do Kham, Do Me) e fare il possibile per smettere di mangiare la carne. I monaci giovani dovranno promettere di mantenere i voti in modo puro e di ascoltare e riflettere bene sugli insegnamenti e i monaci anziani dovranno promettere di praticare i Sei Yoga di Nāropā e di praticare sempre gli insegnamenti di Rinpoche.

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Il corpo di Karma Sonam Rinpoche dopo sette giorni di meditazione
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Impronta della mano di Rinpoche nella roccia.