Jakarta, completa vittoria! 

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Dopo un po’ di mesi di silenzio, mi trovo finalmente a scrivere qualcosa. Di solito quando scrivo qualcosa comincio da una idea generale, da una frase e lascio che le parole sorgano spontaneamente seguendo il loro flusso naturale. Queste a volte scorrono lentamente come un fiume e a volte fluttuano leggere come nuvole. Tra una nuvola e l’altra c’è sempre l’azzurro del cielo, lo spazio. Lo spazio è molto importante, in tutte le nostre azioni, parole e pensieri. Questo spazio, la leggerezza e la giocosità (senza un obbiettivo rigido da raggiungere) sono quello che per me è l’ispirazione.

Quando viaggio non sempre ho voglia di mettermi lì a scrivere e , quando mi sento ispirato, spesso non ho la penna e il quaderno a portata di mano.

Del resto credo che anche Sinbad il marinaio non si mettesse a scrivere durante le sue avventure o che almeno lo facesse nei momenti più tranquilli, quando riapprodava a terra.

Da qualche giorno siamo riapprodati, vicino alle coste meridionali di Suvarnadvipa, sull’isola di Giava, nella città della “completa vittoria” Jaya Karta meglio conosciuta come Jakarta.

Mi piace divertirmi cercando nel significato dei nomi, delle immagini e degli oggetti, dei buoni auspici. Per me questo è un po’ un gioco ed è importante che rimanga un gioco e che non diventi una cosa troppo seria. Infatti  la serietà, almeno come la intendono molti in Occidente, ha una qualità rigida, poco flessibile e fredda, un “tocco pesante” spesso accompagnato dalla necessità di intellettualizzare ogni cosa e ogni esperienza. Ma ogni cosa che studiamo e impariamo, se la  consideriamo troppo seriamente , diventa un’ostacolo.

Jaya Karta “completa vittoria”, come dicevo, ha un significato molto importante per me, specialmente alla fine o all’inizio di un viaggio (almeno è quello simbolico che ho voluto dargli io): Jaya Karta è la completa vittoria su tutti i nostri ostacoli, su tutti i nostri nemici, quelli esterni e quelli interni.

Ma a parte il significato del nome e la sua posizione geografica vicino a Suvarnadvipa (l’odierna isola di Sumatra) a darle un fascino particolare, Jakarta oggi è la capitale di un paese, l’Indonesia, di più di duecento milioni di persone1 che si estende su più di 17.000 isole (di cui solo circa settemila sono abitate), un gigantesco agglomerato di grattacieli e palazzoni attraverso cui scorrono stradone piene di macchine.

Fatta eccezione degli edifici coloniali costruiti dagli olandesi nella zona centrale di Menteng e quella nord sul mare vicino al vecchio porto, come altre città dell’Asia, Jakarta si è sviluppata quasi dal nulla, senza nessun piano urbanistico. A poca distanza dai mall e dagli uffici di cemento, ferro e vetro, tra strade e corsi d’acqua pieni di rifiuti, sorgono ancora case fatiscenti dal tetto di bandone e le casette basse di cemento dal tetto spiovente color mattone dei kampung più nuovi.

La città con la sua promessa di sviluppo, oltre ai capitali stranieri, continua ad attrarre masse di gente un po’ da tutto il paese, è sovrappopolata, mancano le infrastrutture e anche su brevi distanze si devono fare lunghi giri e inversioni. La macchina è il simbolo della ricchezza e della classe sociale più alta. A Jakarta non si cammina: i ricchi vanno in macchina anche per poche centinaia di metri e ognuno ne possiede una.

Tra le macchine sfrecciano serpeggiando la seconda e terza “casta”: l’esercito dei motociclisti con le marmitte modificate, mentre quelli che camminano sui marciapiedi sono la casta degli “intoccabili”. Sui marciapiedi infatti non cammina quasi mai nessuno, la gente ci parcheggia la moto, ci dorme per terra o ci si ferma a mangiare e a bere nei warung, i baracchini che a Jakarta sono, appunto, sui marciapiedi. Insomma se per l’automobilista è già difficile muoversi in città, per via del traffico continuo (in certe ore per percorrere circa due chilometri ci vuole più di mezz’ora), per il pedone è una missione molto difficile, se non impossibile.

I parchi e gli spazi all’aperto sono pochi e le persone si incontrano nei mall dove comprano, mangiano e vanno al cinema e spesso passano da un mall all’altro.

Kota Kasablanka, Kuningan City, Mega KuninganSetiabudi One, Grand Indonesia sono solo pochi di quelli che esistono in città e ci si trova più o meno tutto.

Jakarta è piena di mall, i mall sono un po’ ovunque, sono belli e moderni,  pieni di locali, café e ristoranti di tutti i tipi. Delle oasi piacevoli dove passare il pomeriggio a riparo dal caldo tropicale e dal rumore delle moto ma soprattutto dal traffico.

A parte tutto, Jakarta rimane una grande metropoli, sempre viva di giorno e di notte e capitale di quello che per me rimane uno dei paesi più interessanti dell’Asia, con tutte le sue follie e contraddizioni.

Di “vittorie complete” a Jakarta ce ne sono state tante, molte sono state dell’oscurità sulla luce ma in fondo basta mangiarsi un nasi goreng e bersi un cocco fresco all’ombra per dimenticarsi di tutto. Ada makan ada minum, tidak ada masalah! (C’è da mangiare, c’è da bere, non c’è problema!). Forse anche per gli integralisti islamici che stanno cercando di prendere piede nel paese e tra la gente (e che hanno già costruito tantissime scuole religiose), non sarà un’impresa facile, almeno finché ci saranno riso, pollo fritto e noci di cocco.

Per ora mi accontenterei solo in un’altra vittoria completa: quella sul traffico!

Jaya Karta! Jaya Karta! Jaya, Jaya Karta!

 L’Indonesia è la quarta nazione più popolata del mondo, dopo la Cina, l’India e gli Stati Uniti. E’ il paese con la più grande popolazione di mussulmani del mondo. Infatti solo gli indonesiani ne costituiscono circa il 13%.

La saggezza dietro le mura rosse

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Quando arrivai a Chengdu per la prima volta, quasi vent’anni fa, fui colpito, da come qui il Buddhismo e il Taoismo fossero ancora forti e vivi tra la gente, soprattutto tra gli anziani. Era estate e venivo dalla polverosa Cina del nord e, a parte il Fayuan Si a Xuanwu Men e un altro monastero a Xinjie Kou a Pechino, non avevo avuto l’impressione che il Buddhismo fosse così diffuso tra i pechinesi o i cinesi che avevo incontrato.

Mi ricordo di come nel monastero di Xinjie Kou parlai con un uomo di sessant’anni che mi disse che era la prima volta nella sua vita che metteva piede in un tempio buddhista.

Nel Sichuan rimasi stupito nel vedere come i templi buddhisti fossero vissuti, non solo come posti in cui pregare ma anche per altre attività ricreative. Nei loro cortili e giardini, infatti, ci si poteva incontrare per mangiare cibo vegetariano, bere il tè, giocare a carte o a majiang e cantare brani dell’opera locale. Questa loro tollerante accoglienza, in cui la spiritualità e la vita di tutti i giorni non erano mai così separate, faceva sì che in qualche modo ognuno, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente fosse a contatto con questo mondo. I buddha dalla penombra delle loro sale osservavano in silenzio la vita che si svolgeva all’interno di quelle mura rosse.

A Chengdu e nei dintorni ci sono tanti monasteri e templi buddhisti e taoisti, c’è la Montagna Emei, sacra al Bodhisattva Samantabhadra (cin. Puxian Pusa), la montagna taoista Qingcheng e il Grande Buddha di Leshan.

Nel centro della città ci sono il Monastero della Chiara Illuminazione, Zhaojue Si, il Monastero della Grande Compassione, Daci Si  e il Tempio della Capra Verdeil Qingyang Gong ma il mio preferito è quello che si trova tra le vie di Wenshu Fang piene di negozi, sale da tè e ristoranti a ridosso del lato nord del Primo Anello: il Monastero di Manjushri, il Wenshu Yuan.

Un altro tempio bellissimo è il Monastero della Luce dei Tre Gioielli, Baoguang Si che si trova a Xindu, un nuovo quartiere di Chengdu e che si affaccia su una grande piazza nuova. Il tempio custodisce alcune tra le poche reliquie del Buddha conservate in Cina e ha un grande giardino con uno stagno di fiori di loto, una tradizionale sala da tè all’aperto con sedie e tavolini di bambù e un padiglione dove ci sono delle statue a grandezza naturale dei Cinquecento Arhat (Wubai Luohan) e di altri bodhisattva.

Tanti anni fa Xindu era ancora una piccola cittadina a un’ora di autobus da Chengdu e al posto della piazza sulla strada che portava al Baoguang Si si affacciavano negozi con fuori esposti majiang dai mattoncini di vari colori (verde acqua, blu, fucsia, gialli, lilla ecc. ecc.). E’ stato qui che ho comprato il mio primo majiang ed è stato proprio su uno dei tavolini del giardino del tempio che ho imparato le regole di quel gioco e o iniziato a giocare, vicino ai fiori di loto, poco lontano dagli sguardi dei Cinquecento Arhat.

Il Wenshu Yuan però è sempre stato il “cuore” della città e, prima della costruzione di Wenshu Fang, si trovava in mezzo a viuzze strette, tra vecchi palazzi bassi. La sala da tè e il ristorante vegetariano del tempio erano tra i più frequentati e andavo sempre lì a mangiare o bere il tè.

In una delle mie visite avevo fatto amicizia con la coppia di anziani, marito e moglie, “custodi” del tempio che vivevano in una casetta piccolissima adiacente al muro di cinta accanto alla porta laterale. Non capivo molto quello che dicevano perché parlavano solo il dialetto locale e io ero uno studente di cinese alle prime armi ma loro sembravano capirmi abbastanza. La moglie era la più comunicativa, era lei che mi aveva adescato a uno dei tanti tavolini della sala da tè invitando me mia madre e un amico a prendere il tè nel cortiletto della sua casupola insieme al marito che aveva più di novant’anni. Ci aveva regalato delle medagliette dorate con l’immagine del Buddha della Medicina (Yaoshi Fo) e aveva tirato fuori per l’occasione, probabilmente molto rara e preziosa, dei biscotti scaduti. Quando la vidi per la prima volta muoversi tra i tavoli nel giardino vestita di nero e venirmi incontro, mi sembrò essere una maga.

Questo monastero è sempre stato per me un punto di riferimento, una culla di spiritualità, un posto dove caos e tranquillità sembravano stranamente coesistere ma dove anche il caos in fondo era permeato da una più vasta dimensione di quiete e contenuto in essa così come le nuvole sorgono e sono contenute nello spazio azzurro del cielo. In Cina è qui che sono sempre ritornato per riconnettermi con la saggezza di base della mia mente, rappresentata dal Bodhisattva Manjushri (cin. Wenshu Pusa). Con il tempo questo è diventato un rito e ancora oggi, ogni volta che arrivo a Chengdu, vado a rendere omaggio alla grande statua di Manjushri a quattro braccia che si trova nel giardino del monastero, all’ultimo piano della biblioteca.

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Questo infatti è uno dei segreti del Wenshu Yuan insieme alla reliquia del monaco Xuanzang e altre reliquie di Buddha e arhat conservate nei due lati dell’ultimo padiglione, quello del Vero Dharma (Zhen Fa), del Ruggito del Leone (Shizi Hou).

E’ così che, dopo aver ritrovato Manjushri, Il Vero Dharma e Il Ruggito del Leone, la mia mente è di nuovo forte e chiara. Sono di nuovo saggio e posso rilassarmi bevendo una tazza di tè al gelsomino in mezzo al caos dei giocatori di carte e di majiang mangiando semi di girasole.

Mantra, preghiere e cantanti pop

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Nei viaggi in Asia i mantra e le preghiere insieme alle canzoni pop locali hanno sempre scandito le mie giornate. Nei templi e nei luoghi sacri, per le strade, negli alberghetti e nei negozi queste erano onnipresenti e spesso si mischiavano tra loro come il fumo dolciastro dei satay e degli altri spiedini si mischiava con l’odore dei vari curry, del latte di cocco, del durian o della frutta fresca di un chioschetto di frullati.

Capitava molto spesso infatti di mangiare in un baracchino per strada proprio vicino alle mura di un tempio e di sentire la voce di un cantante pop mischiarsi a quelle che per me erano ancora litanie e cantilene strane. Strane sì ma mi affascinavano così come mi affascinavano le melodie dei cantanti pop malesi, cinesi, thailandesi e indonesiani. Era così infatti che mi compravo gli album dei talenti locali facendomi consigliare i più belli o i più nuovi dai passanti o dai venditori.

Spesso guardavo la copertina per vedere se il cantante o la cantante mi piaceva, guardavo l’aspetto e lo stile. Qualche volta invece girando tra i negozi che vendevano cassette (sì cassette! Infatti ancora non c’erano i CD o forse ero io che ancora non avevo il lettore!) sentivo una canzone che mi catturava, un intro, un ritornello, un assolo e subito chiedevo: “chi è questo?!” “Questo!” Mi rispondevano allungandomi una cassetta ancora sigillata nella plastica che io prendevo subito in mano guardandola con entusiasmo, senso di vittoria e desiderio.

Ricordo ancora a Sibu, nel Borneo Malese, comprai quella che forse fu la mia prima cassetta di pop cinese. Tornato nel piccolo albergo sudicio dove stavamo, mi misi subito ad ascoltare il mio ultimo acquisto. Sulla copertina c’era un bel cantante alla moda con un’aria molto cool, non capivo una parola di quello che cantava ma mi piaceva così tanto che da quel giorno divenne mia colonna sonora del viaggio. Nella cassetta c’era anche un libretto di carta a soffietto con i testi delle canzoni, erano tutte in caratteri cinesi e mi sarebbe davvero piaciuto capirne il significato.

Non avrei immaginato che quattro anni più tardi avrei cominciato davvero a studiare cinese e che l’avrei imparato così bene. Nel corso del tempo ho riascoltato più volte quella cassetta e oggi ne comprendo perfettamente il significato e conosco il nome e la nazionalità del cantante. Dovrei avere ancora quella cassetta da qualche parte ma su youtube ne ho già ritrovato i brani.

Un’altra scoperta fu quella di un cantante pop/rock thailandese Andi: le sue canzoni insieme al cantante di Hong Kong Andy Lau furono la colonna sonora  dei miei giorni passati a Bangkok e del viaggio nel sud del paese verso la Malaysia.

Oltre alle cassette pop e rock varie collezionavo anche quelle della musica tradizionale, che a volte erano solo strumentali: le musiche dei batak e dei minankabau di Sumatra, quelle thailandesi, indiane e quelle taoiste cinesi che a volte potevano ridursi solo a dei ding e dong che duravano minuti.

Mi sono dimenticato di dire che come tutte le cose a scatola chiusa l’acquisto di una cassetta poteva andare bene come andare male.

Facevo anche scorta di cassette di preghiere di varie tradizioni spirituali e le ascoltavo prima di dormire, quando cercavo un po’di tranquillità o semplicemente per riconnettermi con l’Asia, quel continente che fin da quando ero piccolo è stato sempre la mia vera madre.

Di questo genere quelle dedicate alle varie divinità indiane erano le più numerose. Ero attratto dalle  figure colorate dei vari deva sulle copertine: Shiva, Durga, Ganesha, Rama, Hanuman, Krishna, ecc. ma, come per i film di Bollywood, erano lunghissime e poche erano quelle che davvero mi piacevano così mi dovevo sforzare per ascoltare tutto il lato della cassetta e spesso finivo per ascoltare solo una o due canzoni.

Le canzoni cinesi dedicate al bodhisattva Guan Yin o al Buddha della Medicina erano belle ma le mie preferite erano quelle tibetane che avevo comprato a Labrang: avevano una melodia tremolante accompagnata da un mandolino e la forte qualità di infondere la gioia e la calma.

A me infatti la musica come ogni altra cosa (e in questo rientra anche ogni forma d’arte) piace non perché è impegnata o rappresentativa o unica nel suo genere o importante (e qui potrei andare avanti all’infinito) ma semplicemente perché è bella, mi piace: è una cosa di sensazioni e non di costruzioni mentali e ragionamenti. Non è mente, è quore e lo scrivo pure con la q!

Case, strade e genti di Mukrong

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La casa nel villaggio. Nyinko

La macchina si ferma davanti al monastero ed entriamo.

L’unico  edificio è un piccolo padiglione buio dal pavimento in assi di legno. Le decorazioni che vediamo sembrano molto antiche.

Targye infatti ci spiega che durante la Rivoluzione Culturale il monastero non è stato distrutto come è successo altrove ma trasformato in granaio e per questo ha più o meno conservato il suo aspetto originale.

Molte delle statue originali sono state portate via ma rimangono ancora delle bellissime statue di argilla dipinta raffiguranti Shakyamuni, Padmasambhava e altri buddha e bodhisattva.

Il Karchö Gönpa è di tradizione Nyingma e ha circa ottanta monaci, cinquanta dei quali studiano nelle varie scuole (shedra) dei più importanti monasteri Nyingma del Kham, il Tibet Orentale (Serta Larung, Kathok, Minyak Gönchen, ecc.).

Ora ne rimangono solo una trentina e solo nelle cerimonie più importanti (che si tengono cinque volte l’anno) i monaci sono tutti al completo.

Chiedo a Targye se qui  ci sono  dei tulku o “lama reincarnati” e lui mi responde che non ce ne sono ma che il khenpo1 più anziano, che ha più di ottant’anni, vive da trent’anni in ritiro su una montagna.

Usciamo e proseguiamo verso la casa di Targye ma dopo pochi metri la macchina si impantana su un lato della strada.

Delle donne del villaggio  vengono subito per cercare di tirarci fuori ma, dopo ripetuti tentativi, continuiamo a sentire il rumore sordo del motore e le ruote continuano a girare a vuoto, così Targye ci dice di aspettare in una delle case lì vicino: quella di suo zio.

Come tutte le case dei contadini tibetani, anche questa al piano terra ha il deposito dei viveri e la stalla e al piano di sopra le stanze tutte rivestite in legno ma la cosa che mi ha sorpreso è che qui gli spazi sono grandissimi e le travi e i pilastri sono costituiti da tronchi enormi.

Dopo essere saliti su per una scala veniamo accolti nella cucina e come accade sempre quando si è ospiti dai tibetani a prescindere dal momento della giornata2, ci offrono del tè e qualcosa da mangiare.

Come al solito, devo insistere che non vogliamo altro altrimenti quel qualcosa potrebbe diventare molto più sostanzioso.

Dopo un po’ che eravamo lì seduti, arriva lo zio di Targye, Nyinko,  un uomo alto con i capelli corti, dal volto scuro e un’espressione dura che ci sollecita a mangiare ancora e ci offre delle piccole patate arrostite.

Intorno a noi c’erano altri famigliari  tra cui una bambina silenziosa e il suo fratellino, un bambino dagli occhi vispi.

La cucina è l’ambiente più importante della casa tibetana: è qui infatti che di solito si mangia e ci si riscalda ed è qui che vengono accolti gli ospiti.

La grande stufa di ghisa rettangolare, piatta come un tavolo di metallo non solo è il fuoco dove si prepara da mangiare e si mette l’acqua o il tè a bollire ma, specialmente d’inverno, è il fulcro attorno a cui ruota tutto il mondo famigliare, il cuore della casa, dove risiede la divinità tutelare.

Prima della diffusione delle televisioni dei dei tablet e degli smartphones (che ormai stanno invadendo il Tibet) era qui che vertevano gli sguardi delle persone.

Sono rimasto tante volte accanto alla stufa a sorseggiare il tè ascoltando il gorgoglio dell’acqua e lo scoppiettio del fuoco o semplicemente il silenzio.

Passavo così giornate intere, sorseggiando il tè, immerso in quel   silenzio.

Un affettuoso silenzio in cui quelle persone erano semplicemente lì, finalmente vicine, con la stessa tolleranza ed empatia che hanno gli anziani con i bambini.

Molto spesso infatti il silenzio unisce e le parole dividono.

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La casa nella radura. Apa e Ama3

Mentre stavamo ancora lì seduti è tornato a prenderci Targye e siamo saliti su due moto: mio cugino dietro a lui e io dietro a uno dei ragazzi che era in cucina.

Abbiamo proseguito a fatica per un breve tratto di strada, le ruote delle moto scivolavano nel fango e abbiamo rischiato più volte di cadere.

Arrivati vicino ad una distesa erbosa, sotto una piccola collina, abbiamo proseguito a piedi. La luce era quasi quella del tramonto e un uomo magro dal volto rugoso e i capelli grigi lunghi raccolti in una treccia ci aspettava sul versante della collina.

L’uomo ci è venuto incontro e insieme agli altri mi ha aiutato a salire oltre una fila d’alberi, in una piccola radura dove c’erano una vecchia casa di legno che sembrava inabitata e, più in alto, una casa di pietra.

Sulla soglia di quella di pietra ci aspettavano una donna anziana con i capelli raccolti nell’acconciatura tradizionale delle donne del Minyak4  e due bambini.

L’uomo dai capelli grigi e la donna, che erano il padre e la madre di Targye, ci hanno invitato ad entrare facendoci sedere su dei sottili cuscini di lana di pecora e pelo di yak intorno alla stufa e ci hanno offerto subito del tè e del cibo: pezzi di carne magra da tagliare con il coltello e mangiare con le mani.

“Siamo nomadi, ci sediamo per terra. Le nostre case non sono come quelle dei contadini.” Diceva il padre.

La casa era costituita di un unico spazio grande diviso da tende variopinte con dei motivi floreali e colori molto vivaci. Tranne un piccolo spazio vicino alla porta d’ingresso, le pareti e il pavimento della stanza erano totalmente rivestiti di legno.

L’atmosfera era accogliente e, a parte alcuni scaffali dietro la stufa e il chökhang, l’altare delle offerte in un angolo, l’unica mobilia erano dei letti di ferro su cui erano ammassati vestiti e vari oggetti e due ciocchi di legno che i genitori di Targye usavano come sgabelli.

Non avevo mai visto una casa così: in effetti lo spazio e la mobilia ricordavano più quelli di una tenda.

Nella stanza oltre a noi c’erano anche i nipotini: Norbu Lhamo, una bambina di dodici anni molto calma e responsabile, Pema Lodrö, un bambino che non stava mai fermo e Yeshe Tondak, il più piccolo, a cui piaceva cavalcare un cervo rotondo di gomma verde.

Abbiamo parlato un po’. Fuori dalla finestra gli alberi e le montagne erano avvolte dalla nebbia e cominciava a calare l’oscurità .

Il posto era proprio isolato, il telefono non prendeva e ho pensato che sarebbe stato perfetto per dei ritiri.

Verso le dieci e mezza Targye ci ha preparato due letti con dei cuscini tibetani sul pavimento nell’angolo del chökhang, tirando una delle tende a fiori per separarci dall’ambiente principale e siamo andati a dormire.

Era stata una giornata proprio lunga ed eravamo stanchi.

Continua da Ta’u, la via verso casa.

(Ta’u 17 agosto 2015)

1 Titolo più o meno equivalente a dottore in studi buddhisti che viene conferito dopo circa 13 di studio.

2 Dico “momento della giornata” perché come ho già detto qui le ore non esistono o almeno non come le intendiamo noi.

3 In tibetano “padre” e “madre”.

4 Una treccia “intrecciata” con un nastro rosso avvolta intorno alla testa.

Ta’u, la via verso casa

Questa mattina ci siamo alzati alle quattro e da Serta siamo partiti per Ta’u (cin. Daofu). L’autista era un tibetano dalla faccia rotonda di piccola statura con un taglio di capelli con la riga che mi  ricordava quello di un mio amico turkmeno.

In macchina c’erano alcuni cinesi: un uomo di mezza età con gli occhiali e l’accento del nord, due sorelle di Ziyang, un tipo del Guangxi molto entusiasta che faceva agli altri discorsi sul buddhismo, sulle vite precedenti e future e sul sedile davanti era seduta una ragazza alta dai capelli lunghi, silenziosa e pallida che soffriva il mal di macchina.

Ci siamo fermati a Luhuo (tib. Dranggo) per una breve colazione in uno dei tanti mian guan, negozi di noodles ai lati della strada. Il tipo del Guangxi sgranocchiava contento del pane fritto tibetano durissimo cercando di offrirlo a chi gli stava intorno. Dopo un po’ siamo ripartiti arrivando a Ta’u verso le nove.

Ta’u è una piccola cittadina dell’altopiano tibetano ma la bassa altitudine, i campi coltivati, il verde e gli alberi che la circondano non gli fanno avere quel aspetto di polverosa città del far west come se ne vedono tante soprattutto nel Qinghai e nel Gansu. L’aria è più umida e la temperatura più mite e questo è di per sé già più riposante.

Appena scesi dalla macchina veniamo fermati da un gruppo di autisti che ci vogliono portare in destinazioni diverse e, come spesso accade, nel posto da cui siamo appena venuti. Prendo il numero di un’autista massiccio dai capelli mossi e dai lobi prominenti che mi dice di chiamarsi Orgyan ma che non sa scrivere il suo nome in tibetano.

Attraverso la strada e vado in un negozio a comprare due katak e chiamo il mio amico Targye che si presenta poco dopo in una macchina nera con un altro monaco del Karchö Gönpa.1  Targye ci chiede per prima cosa se abbiamo mangiato, io dico di no e così finiamo tutti in una sala da tè in quella che sembra la via principale, dove al centro, sotto un ponticello sormontato da un gazebo cinese (ting zi), scorre un torrente.

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La sala da té, come altre in cui mi era già capitato di andare, è in “stile vittoriano” con lampadari a finte gocce di cristallo (probabilmente plastica). Tutto intorno scintillano oro e specchi che riflettono la luce che entra dalle grandi finestre. Accanto alle finestre sono sistemati dei tavoli con divani di finto velluto scuro con incastonati tanti grossi diamanti di plastica.

Ci sediamo sui divani e ordiniamo del tè e dei noodles che ci vengono portati da uno dei ristorantini lì vicino. Targye e il suo amico scompaiono di nuovo lasciandoci per un tempo lungo e indeterminato a sorseggiare le nostre bevande.

In Tibet vivi veramente il fatto che il tempo come lo intendiamo noi, con i secondi, i minuti e le ore, non esiste e che sia solo un artificio, una costruzione mentale ma la buona notizia è che, dopo aver scoperto di non avere niente sotto controllo, puoi finalmente farti due risate e rilassarti.

A questo proposito mi viene in mente una storia divertente accadutami tanti anni fa in India…

Eravamo in Kerala, forse proprio a Kovalam, io mia madre e una sua amica e stavamo seduti in uno dei tanti ristoranti “per turisti” che hanno nei menù anche il caffè, i toast e altre cose dei western breakfast. Avevo ordinato dei toast con la marmellata e un chai, il tè con il latte e altre spezie indiano e, dopo tanto tempo che aspettavo, di tanto in tanto facevo dei cenni al cameriere, un ragazzo giovane dalla pelle scura, ricordandogli della mia ordinazione, lui sorrideva e mi guardava con uno sguardo rassicurante facendo dei movimenti ondulatori con la testa come fanno gli indiani del sud quando affermano qualcosa. Intanto il tempo passava e alla mia crescente impazienza lui continuava a reagire con estrema calma, senza il minimo imbarazzo, come se quell’attesa fosse la cosa più normale del mondo, senza scomporsi di un millimetro. Dopo circa quaranta minuti si presenta al tavolo portando in mano solo una tazza, ancora nessun toast e poggiando la tazza davanti a me dice: “your coffee sir!” io rimango sorpreso, mi coglie completamente alla sprovvista, “coffee?” penso tra me e me “ma io avevo ordinato un chai!” per un momento ho pensato di dirglielo ma poi, un po’ per la fame, un po’ per paura di aspettare altri quaranta minuti e un po’ perché mi ero, appunto, arreso, mi sono messo a ridere e ho cominciato a sorseggiare il caffè ed era buono anche quello. Ora non mi ricordo bene cosa ne è stato dei toast ma a quel punto non era più importante perché era quasi ora di pranzo e abbiamo ordinato del pesce.

Ok, torniamo alla sala da tè. Dopo un paio d’ore Targye e l’amico tornano a prenderci, risaliamo in macchina e ci fermiamo a comprare delle cose in un negozio per poi uscire dalla città.

La macchina comincia a salire su una strada sterrata che serpeggia sopra dei pendii scoscesi a ridosso di alte montagne coperte di alberi. In basso nella valle scorre un grande fiume, nei campi le spighe dell’orzo hanno già assunto il loro aspetto dorato  e  qua e là si vedono dei piccoli villaggi dalle colorate case tradizionali di pietra e legno. Siamo diretti a Mukrong, il paese di Targye.

Comincia a cadere una pioggia leggera, Targye ci dice che è un segno di buon auspicio e la macchina prosegue sobbalzando a ritmo di musica disco di artisti occidentali semi sconosciuti.

La natura sembra incontaminata. Ci fermiamo per una sosta.

Nell’aria si sente un profumo di alberi e fiori. Anche qui ci sono le stelle alpine, ne vediamo tante crescere proprio sul ciglio della strada.

Passiamo vicino ad una grande roccia con sopra scolpiti dei mantra bön, quello di Matri e di Shenlha Ökar. 2

“Qui vicino c’è un monastero bön e quella è la montagna sacra Drakkar.”

Finalmente arriviamo ad un villaggio con un piccolo monastero.

“Quello e il Karchö Gönpa.”

Siamo arrivati a casa.

(Ta’u, 17 Agosto 2016)

1 Monastero di Karchö.

2 Nomi di due divinità bön.

Video

Lungta

In questo video, dedicato ai miei amici e compagni di viaggio, ho messo il cuore e quella che per me è l’essenza dello spirito del Tibet. Possa la gioia e i buoni auspici del Cavallo di Vento (Lungta) crescere sempre di più per tutti noi.

Viaggio In Tibet: la Compagnia

Come viandanti andavamo in cerca di ospitalità in villaggi assolati e lande desolate, tra amici, monaci ed eremiti e abbiamo conosciuto  la magia di antiche tradizioni spirituali.

Dall’alto delle montagne sacre bodhisattva e divinità del luogo hanno vigilato sul nostro cammino e, sotto una miriade di stelle, vicino al calore del fuoco, ci siamo addormentati sopra i guanciali della terra.

Viaggio in Tibet Amdo e Kham con mio cugino, estate 2015.

Nagwa e Golok

Primo viaggio a Jamda e Kalachackra a Tsinang, Ngawa e Golok 2005-2006.

Ngakpa

Momenti di vita tra i ngakpa, Amdo 2005-2006.

 

Gli indovini della città della primavera

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Il 4 settembre alle sei di pomeriggio abbiamo preso un express bus per Kunming che ci avrebbe impiegato diciotto ore.

Siamo partiti a tutta velocità su strade tortuose tra montagne, gole e fitta vegetazione tropicale offuscata qua e là da banchi di nebbia che fluttuavano dilatandosi nell’aria umida, passando attraverso torrenti dalle acque rosso ocra e piccoli villaggi con casette quadrate dai tetti spioventi.

Verso il tramonto siamo rimasti fermi dietro una fila di camion e pulmini che, dietro la curva, si perdeva nel verde. Una parete di roccia era franata sulla strada e abbiamo aspettato circa un’ora prima di ripartire.

La strada era dissestata e in pessime condizioni e la velocità era davvero esagerata, l’autobus saltava lungo il percorso e sembrava di stare sulle montagne russe. Era impossibile dormire bene e mi faceva male lo stomaco.

Durante la notte sono stato svegliato da due guardie dell’APL (Armata Popolare di Liberazione), eravamo al confine della Regione Autonoma dello Xishuangbanna e gli stranieri (io, mia madre, Paula e un cinese birmano) dovevano registrare i loro nomi e mostrare i loro passaporti. Tutto questo nella più completa oscurità, le uniche luci erano i fari del bus e una torcia elettrica.

Siamo arrivati a Kunming la mattina. Un detto cinese dice a proposito di Kunming: “le quattro stagioni sono come la primavera” (si jie ru chun), infatti qui il clima non è molto caldo d’estate e non è molto freddo d’inverno.

La città è piccola, moderna, tranquilla, pulita e molto attiva, insomma forse è una delle città-capoluogo cinesi che mi piacciono di più e anche Marco Polo ne Il Milione scrive di essere stato qui.

Nel pomeriggio, sempre attratto dalla mia ricerca e ispirato da Terzani, ho consultato un indovino.

Era un uomo sulla sessantina con il cappello, vestito in abiti normali, ma che aveva l’aspetto di un vecchio con la barba. Stava seduto su uno sgabello sul marciapiede e davanti a sé, per terra, aveva una carta con i segni del Ba Guagli otto trigrammi dell’Yi JingDopo aver gettato sei volte tre monete forate al centro che teneva infilate in un portachiavi a moschettone appeso al passante dei pantaloni, mi ha dato il responso ma ne riassumerò solo i punti principali da me compresi.

Gli ostacoli alla comprensione sono stati: la mia scarsa conoscenza di molti termini specifici del cinese non usati nella lingua quotidiana (almeno non di frequente); la sua parlata con accento locale a cui non sono ancora completamente abituato e l’arrivo improvviso della polizia in conseguenza del quale, tutti i venditori ambulanti e gli indovini, tra cui il mio, hanno sbaraccato. La nostra conversazione è stata quindi interrotta.

Il vecchio con la barba è tornato poco dopo e ha continuato la sua spiegazione in incognito facendo sembrare il nostro dialogo una conversazione informale, come quella tra due conoscenti.

Ecco i punti più importanti del responso:

1) A ottobre dovrò diffidare di una persona che tenterà d’imbrogliarmi. 2) L’anno prossimo e quello dopo  (il 2001 e il 2002) saranno così così. 3) Il 2004 e il 2005 non saranno buoni per il guadagno ma saranno buoni per la mia cultura personale. Il 2007 sarà buonissimo. 4) Il 2010, il 2011 e il 2012 saranno anni in cui dovrò stare attento a imbrogli e curare particolarmente la mia salute (questi anni coincidono presso a poco con il mio anno critico predetto da Aku Danpa).

Secondo l’anziano i miei anni fortunati e sfortunati si alternano a due a due ma non sarò mai ricco (una delle cose peggiori che si può dire a un cinese).

Ha anche detto che devo stare sempre in viaggio, che non è buono per me tornare nel mio paese e che devo trovare un modo per far girare la mia fortuna in positivo (ma come?).

Insomma l’esperienza è stata bella ma confusa e alla fine gli ho dato la somma stabilita, 10 kuai.

Un ragazzo con una malformazione ad una gamba che si reggeva su due stampelle, vedendo che ero anche  io un invalido, mi ha voluto leggere la mano gratuitamente e ha detto in poche parole:

“Tu hai questo problema fin da piccolo e allora hai rischiato di morire.” (vero).

“Che peccato! Vali molto ma non brillerai” (Me lo diceva sempre anche la maestra!).

“Vivrò a lungo?” “Sì, a giudicare dalle tue orecchie lunghe e sopracciglia folte.” (Bene! Almeno questo).

“Tre cose buone per te”: 1) “non mangiare carne di cane!” (Peccato! Era il mio piatto preferito!); 2) qualcosa che non ho capito; 3) “vai in un tempio a farti recitare le scritture!”

Poi mi ha dato un libricino con la copertina del Ba Gua e dopo aver recitato qualche formula strana mi ha detto di tenerlo tra i due palmi delle mani ed aprirlo ad una pagina a caso. Le pagine avevano pochi ideogrammi neri e rossi scritti in forma arcaica su cui lui basava il responso.

Ho capito solo che il primo responso era negativo e che il secondo era positivo (1-1. Bisogna sapersi accontentare).

Mia madre si era stufata di aspettare e sbraitava alle sue spalle così ho salutato tutti di fretta e sono andato appresso a mamma che intanto era partita in avanti e già non la vedevo più. “Xie xie!” “Zai jian!” (“Grazie!” “Arrivederci!”).

Mi devo ricordare di scrivere della Pagoda Bianca. Ora sono stanco e vado a dormire, domani voliamo per Bangkok.

Prima bevo un’altra tazza di tè al gelsomino.

Prosegue da Tante onde di uno stesso fiume

(Kunming, settembre 2000)

Tante onde di uno stesso fiume

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Oggi mia madre e Paula sono andate a fare una passeggiata e io, come avevo promesso, sono tornato al tempio portando le carte piacentine.

I bambini non erano ancora arrivati, così nell’attesa ho pregato davanti al Grande Saggio1 e ho detto qualche mantra nel porticato mangiando qualche strano frutto datomi da una bambina cicciottella, Hongli, anche lei tai.

Verso il primo pomeriggio sono arrivati gli altri e abbiamo subito cominciato a giocare a Uomo Nero.

Ero sicuro che questo gioco sarebbe piaciuto tantissimo, hanno partecipato anche due monaci che si sono divertiti come dei pazzi.

Le nostre risate riecheggiavano da sotto al porticato del tempio ogni volta che qualcuno riusciva a mollare l’asso di bastoni ad un avversario.

Mi sono esibito anche in un gioco di prestigio, che però non è piaciuto moltissimo (era meglio Uomo Nero).

Verso le quattro ho salutato tutti e mi sono avviato verso il bus per Jinghong.

Piccoli villaggi, donne tai in vestiti colorati con i capelli oliati raccolti sopra la testa attendevano il bus sotto la pioggia ai lati della strada fangosa.

Sulla via del ritorno, tutto questo mi passava davanti agli occhi mentre ero assorto a guardare fuori dal finestrino.

Il finestrino non si chiudeva bene e una goccia mi bagnava la coscia ad un ritmo più o meno costante.

Ancora bufali d’acqua, mercati colorati di frutta, etnie diverse e, infine, Jinghong.

Tornato in città sono andato al fiume a mangiare e ho rincontrato Zhang Ge, un uomo sulla trentina di corporatura tozza e di bassa statura, sempre vestito in pantaloncini e maglietta con braccia e gambe corte.

Zhang viene da Xian nello Shaanxi  e lavora in uno dei tanti ristorantini lungo il Mekong, sembra un brav’uomo ma, parlando, mi ha confessato di non essere stato un brav’uomo in passato.

Anni prima infatti, in una rissa da ubriaco, aveva reso un’uomo invalido privandolo dell’uso del braccio e per questo aveva dovuto scontare sei anni di galera.

Adesso Zhang è qui, a migliaia di chilometri da casa, cercando di rifarsi una nuova vita.

Questi anni lo hanno cambiato. Ora è molto sensibile nei confronti degli invalidi e io certamente l’ho colpito.

Sapendo che sarei partito mi ha regalato una giada che portava al collo come portafortuna per augurarmi buon viaggio.

Non so se lo rivedrò. Spero di sì.

La sua confessione sincera, il suo pentimento, la sua umanità mi hanno profondamente commosso e gli auguro di essere felice con tutto il cuore.

Miduo, la ragazza akha mi ha fatto l’ultimo massaggio, dicendomi di cercarla quando tornerò così potremo passare più tempo insieme, anche io lo voglio ma tornerò veramente?

I suoi occhi e il suo sorriso mi hanno conquistato, mi piace e credo di piacerle.

Le sue amiche ridevano: “Lui sceglie sempre te”. Anche Zhang Ge scherzava: “strano! Tra tutte le ragazze che ci sono chiami sempre lei, forse ti piace?”

Siamo arrivati al momento dei saluti e, come sempre,  provo una certa malinconia.

Salutato Zhang Ge e il suo amico Wang Ben, un ragazzo grassoccio con gli occhiali e i capelli di media lunghezza, saluto il Grande Fiume.

Ho promesso a me e a Zhang che sarei ritornato a Jinghong, forse per insegnare inglese nel monastero tai di Mantinglu come mi aveva proposto il monaco e forse sarei tornato proprio attraverso quel fiume, il Lancang….il Mekong.2

Prosegue da Pagoda nera pagoda bianca

(Jinghong, 3 Settembre 2000)

1Mahāmuni, il “Grande Saggio”, il Buddha.

2 In lingua thai o lao “fiume” mae nam, significa “madre delle acque”. Mekong sarebbe la forma abbreviata di Mae Nam Khong, il “Fiume Khong”. In cinese questo fiume è chiamato Lancang.

Pagoda nera, pagoda bianca

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Questa mattina, dopo una colazione non cinese da Mei Mei’s Cafe, abbiamo preso un bus in direzione sud per Damenglong (o Menglong).

Lungo la strada si vedevano piccoli villaggi tai, risaie, foreste, stagni, alberi della gomma e bufali d’acqua. Due monaci in tunica arancione sono passati sfrecciando su una moto e il pilota aveva degli occhiali da sole specchiati.

Arrivati alla stazione del bus, in un ristorantino gestito da una signora tai ho preso degli spiedini di doufu, uno xifan dolciastro e dei liangfen in brodo col pomodoro e verdure.

Damenglong è una cittadina tra montagne ricoperte da una fitta vegetazione tropicale a pochi chilometri dal confine con la Birmania e non molto lontano dal Laos.

Le strade sono alquanto deserte e sembra essere un posto abbastanza sperduto. Non si vedono turisti in giro. Al centro di un incrocio c’era una strana scultura e dei maialini neri camminavano per strada.

Siamo vicino al Triangolo d’Oro, allo stato Shan, ex-regno di uno dei più grandi narcotrafficanti del mondo: Khun Sa, il Re dell’Oppio.

Qui l’unico posto dove possono stare gli stranieri è una guesthouse (zhaodaisuo) dentro il recinto del governo locale: pavimento di cemento, soliti letti pulciosi con lenzuola rosa e trapunta, soffitto con ragnatele e macchie di muffa. Il bagno è fuori a due minuti a piedi e di notte ci si arriva con una torcia.

L’edificio è in mezzo alla natura e dal ballatoio si gode una vista bellissima: montagne ricoperte di verde, tetti di case tradizionali lungo una strada sterrata. Su una delle montagnesi vede uno stūpa bianco.

Sono circa le undici di sera. Ho scritto per più di un’ora a lume di candela. Spengo la candela e mi sdraio.

(Damenglong, 1 settembre 2000)

E’ mattina, piove ininterrottamente da stanotte e tutto è fangoso e umido.

Sono uscito per andare al bagno, una latrina situata dietro il padiglione della guesthouse sulla riva di uno stagno artificiale. Intorno alla guesthouse era pieno di polli e galline starnazzanti e vicino al bagno mi sono imbattuto in un maiale nero e un gallo che mangiavano lungo il sentiero.

Mi sono lavato la faccia ai rubinetti nel cortile, e ora mi farò una tazza di tè sul ballatoio godendomi la vista nebbiosa delle montagne e ascoltando il rumore della pioggia.

Più tardi siamo andati in un tempio non lontano dove dei signori tai anziani ci hanno invitato a sedere accanto a loro e uno di loro, in un cinese con un forte accento tai, ha cominciato a farmi domande su di noi e sul nostro paese.

“Voi avete le statue di Buddha?” “Avete le banane?” “Avete l’ananas?” “Avete….?” Ecc.,ecc.

Questo vecchietto era nonno di tre bambine e una di queste parlava bene cinese così abbiamo cominciato a chiacchierare.

Sono accorsi altri bambini che giocavano a carte nel cortile del tempio, hanno cominciato con le loro domande e ci hanno chiesto di cantare, ho cantato qualche canzone italiana e cinese, poi loro hanno voluto che anche mia madre cantasse e si sono avvicinati a lei per ascoltarla con molto interesse.

Tutto questo avveniva dentro il tempio dove un monaco recitava le scritture. Forse abbiamo esagerato? Comunque i bambini sono bambini.

Una cosa che mi ha colpito è l’aria di tolleranza che regna nei templi buddhisti tai.

I bambini ridono, schiamazzano e giocano, gli uomini e le donne, di solito seduti su lati differenti della sala, chiacchierano fra loro sorseggiando tè o acqua calda e mangiano della frutta (piccole banane, pere e mele). Gli uomini fumano sigarette.

Tutto avviene su stuoie o materassini disposti lungo le pareti della sala dove la gente può anche dormire.

Al centro della sala, sotto un altissimo tetto di legno si stagliano le statue di uno o più Buddha Śākyamuni, verniciati d’oro .

I monaci siedono su un piano rialzato che corre lungo la parete, si solito dietro o al lato dei buddha.  Posseggono sono una tunica arancione e una ciotola per la questua del cibo, ora anche in ferro.

Questo almeno in teoria, il monaco con cui ho parlato a Jinghong aveva un cellulare ma d’altronde nel duemila certe cose sono utili.

Spesso gli occidentali proiettano i loro sogni in posti lontani, dove vorrebbero che la gente rimanesse cristallizzata a qualche secolo indietro per ammirarla da dietro un vetro immaginario scattando fotografie da fare vedere agli amici al loro ritorno.

Un posto e la sua gente non dovrebbero essere visti da fuori ma da dentro e per fare questo la migliore macchina fotografica  è il cuore.

Quanto siamo disposti noi a rinunciare alle nostre comodità?

Un inglese in un posto così bello si lamentava perché non riusciva a trovare la ricarica del suo telefonino.

Dopo un po’ i bambini ci hanno accompagnato lungo la strada che portava alla Pagoda Nera (Heita) e che dal tempio s’inerpicava sulla cima della montagna.

La strada era cementata e liscia e saliva in mezzo alla vegetazione. Mia madre e  Paula erano avanti, io invece ero dietro con i bambini chiacchierando e mangiando delle aspre foglie e frutti che dicevano di essere ottime per combattere la stanchezza.

I lati della stradina ne erano pieni. Il frutto era di colore verde e sembrava quasi un sottile e lungo chili appuntito e dal suo interno usciva un lattice bianco che inizialmente mi avevano indicato di sputare. Era asprissimo con un retrogusto limonoso, le foglie, invece, avevano un sapore un po’ meno aspro ma abbastanza simile.

Lo stūpa era costituito da un grande pinnacolo centrale attorniato da altri pinnacoli più piccoli. Tutti erano a sezione circolare e avevano la forma di una guglia.

Sulla loro cima tintinnavano tante campanelle argentate intorno a dei piccoli parasoli, anche  essi d’argento.

Draghi (nāga) bianchi dalle creste verdi serpeggiavano tutto intorno stringendo lo stūpa nelle loro spire e, in alcuni punti, si fronteggiavano.

I nāga e i pinnacoli poggiavano su una bassa piattaforma piastrellata e a gradini che la gente circoambula in senso orario.

Quello che chiamano Stūpa Nero in realtà è bianco leggermente tendente al giallo. Intorno allo spiazzo dove è situato, sotto una tettoia, c’è un buddha bianco sdraiato chiuso dietro un cancelletto con a fianco un altro buddha e altre raffigurazioni pittoriche.

Mi sono seduto a guardare il panorama e  a mangiare qualche altro frutto duro e aspro colto dai bambini che me ne hanno fatto una larga offerta.

Tutto questo dopo aver reso omaggio ai vari buddha.

Dietro lo stūpa dopo aver sceso alcuni gradini c’era una bassa costruzione di pietra di piccole dimensioni, mi sono affacciato all’interno e ho visto che c’era un grande fiore di loto piatto anch’esso di pietra. Ho pensato che fosse una casetta per la meditazione, il fiore infatti sembrava fatto a posta per sedervisi sopra. I bambini dopo mi hanno detto che c’era una sorgente ma non ho capito bene.

Siamo riscesi e loro hanno continuato la raccolta di quelle foglie e di quei frutti aspri.

Tornati al tempio ci siamo seduti fuori e c’era della gente che preparava da mangiare, non c’era del cibo per tutti e così i bambini mi hanno offerto dei biscotti che ricordavano un po’ il gusto di quelli Montebovi.

Una di loro si e messa a pestare le foglie aspre in una ciotola di porcellana, io e un’altra bambina l’aiutavamo a staccare le foglie e gliele porgevamo. Alla fine la bambina mi ha dato da mangiare l’impasto misto a un po’ di peperoncino, aveva un sapore agro-piccante, era buono.

Ho salutato i bambini e gli ho promesso di tornare il giorno dopo con le carte piacentine per insegnargli a giocare a Scopa ma sto pensando che forse è meglio Uomo Nero.

Dopo pranzo abbiamo preso un moto rickshaw, tipo un mini apetto, e ci siamo diretti alla Pagoda Bianca (Bai Ta).

Mi è venuto da pensare: “se la Pagoda Nera era bianca, come sarà la Pagoda Bianca?”

Prosegue da Manting Lu e il Mekong

(Damenglong, 2 settembre 2000)

Manting lu e il Mekong

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Abbiamo lasciato Lijiang e siamo volati a Jinghong, città principale dello Xishuangbanna.

Lo Xishuangbanna1 è una regione autonoma dai che si trova nella parte meridionale dello Yunnan al confine con la Birmania e il Laos. Qui oltre ai tai2, che sono l’etnia prevalente, ci sono più di dieci etnie diverse tra cui hani (o akha), gli yi i lahu, i blang, i jino, gli yao, i miao, i va, i bai, i zhuang, ecc.

Come la molte etnie del sud-est asiatico questi popoli sono stati spinti qui da altre zone dell’Asia meridionale molto tempo fa.

La zona è molto fertile, l’atmosfera è quella del tropico, accanto alle risaie ci sono banani, ananas, canne da zucchero, alberi della gomma e in questa stagione piove spesso.

Accanto alle scritte in ideogrammi cinesi compaiono le scritte in tai.

Jinghong è una cittadina carina dall’aspetto moderno, casette piastrellate con i tetti in stile dai, banani ai cigli della strada e gente dalla pelle abbronzata che gira a torso nudo. Tutti hanno un aria rilassata. Vedo delle persone che giocano a biliardo fuori, lungo Manting Lu, la via principale.

Nella città, qua e là compaiono le case dai tetti spioventi in legno dei vecchi villaggi tai.

Con il mio amico Giulio spesso scherzavamo su l’atmosfera losca e promiscua che regna in Cina e in certe parti dell’Asia, soprattutto dove ci sono delle comunità cinesi, e parlavamo dei bordellanti, bordelli-ristoranti. Ebbene l’altra sera a Mangting Lu abbiamo cenato in un bordellante.

Erano circa le otto di sera, un’ora normale per la cena in Italia, ma non in Cina dove si cena verso le sei e dopo le otto è difficilissimo trovare un ristorante aperto. Avevamo fame e stavamo camminando in cerca di un posto dove mangiare e riposarci in attimo, quando ecco che la mia attenzione viene attirata da un ristorante. Ma niente è come sembra.

Ho chiesto da mangiare e ho notato nel mio interlocutore un espressione sorpresa, seccata e preoccupata. Ho intuitivamente capito che qualcosa non andava e ho ordinato un riso fritto all’uovo pensando che non ci sarebbero state molte altre scelte.

Sedevamo sui tavoli fuori e dentro, illuminate da una fievole luce rosata si intravedevano facce loschissime. “Bordello o ristorante?” Penso e mi viene la risposta: “bordellante”. “Padroni del ristorante o magnaccia?” “padronaccia”.

E’ questo vedere le cose nel loro continuo divenire al di là del dualismo del pensiero orientale? E’ la via di mezzo? Mah.

Dietro il nostro tavolo aloneggiava la scritta cinese “centro dell’amore”, “taglio di capelli, lavaggio testa e massaggi.” La cameriera era troppo carina e dalla finestra della cucina era affacciata una ragazza dai bellissima con una borsetta e un vestito da sera bianchi. Forse una prosticuoca? Vedo che comincio a imparare la filosofia locale.

Manting Lu al calar del sole non solo è piena di prostitute ma anche di indiani birmani musulmani con i loro longhi che…gestiscono gioiellerie? Non so comunque sono quasi più loschi dei padroni dei bordellanti o barber shops (cin. lifadian).

Di giorno Mangting Lu ha tutto un altro aspetto: monaci buddhisti, in tuniche arancioni, bambini che escono da scuola e “parrucchiere” annoiate che leggono il giornale o guardano la televisione sedute su divanetti di finta pelle o su panchetti lungo la strada e il centro dell’amore era un normalissimo ristorante ma manteneva sempre l’insegna equivoca.

Più avanti c’è anche un piccolo tempio buddhista dove mi sono fermato a pregare e fatto la divinazione con i bastoncini e dove il giorno dopo abbiamo assistito ad una cerimonia.

Sul pavimento di legno erano sedute molte donne e uomini dai di una certa età che ascoltavano un monaco che recitava le scritture in pali.

Ci siamo seduti in mezzo a loro e gente sorridente ci ha offerto della frutta tagliata.

Hanno acceso tante candele sottili e la loro luce si rifrangeva su sculture di carta dorata a forma d’albero, creando un incantesimo. Il profumo di olio di cocco mi ha riportato alla mente piacevoli ricordi, ho chiuso gli occhi lasciandomi cullare un po’.

Mamma e Paula sono andate via e io sono rimasto a guardare ed ascoltare.

Sono uscito salutando le signore tai mi sono seduto fuori a parlare con un monaco che mi ha chiesto d’insegnare l’inglese nel monastero.

Mi sono dimenticato di dire che Jinghong è lambita dalle acque rosse del Mekong.

Lungo il corso di questo grande fiume (cin. Lancang Jiang) c’è una lunga via piastrellata, deserta di giorno e animatissima di notte.

Dalle sette di sera alle quattro del mattino ci sono ristorantini con tavoli fuori, spiedini e cibarie di ogni genere, balere, piste di pattinaggio, videogiochi, giostre, biliardi, tutto a cielo aperto o coperto da tendoni e ombrelloni nelle giornate di pioggia.

Un’atmosfera di fumi speziati, echeggi di canzoni e un lontano bip bip di giochi elettronici.

La vita della città la notte è più animata, di giorno infatti fa troppo caldo.

Tra i tavoli girano belle ragazze che promuovono la loro birra in costumi tradizionali e ragazze akha, per lo più adolescenti, che offrono dei massaggi alla schiena alla gente seduta all’aperto per 10 yuan, mi sono fatto fare un massaggio anche io.

Una di loro con dei lunghissimi capelli raccolti, Miduo, mi ha raccontato che le donne akha imparano a fare i massaggi dalle loro madri all’età di due anni e che le ragazze che lavorano qui vengono da un villaggio vicino e lavorano per un lao ban alquanto sfruttatore che trattiene il 70% dei loro guadagni dandogli almeno il vitto e l’alloggio.

Queste ragazze solitamente vestono “costumi han” , vale a dire vestiti normali.

Prosegue dal Paese del Garuda

(Xishuangbanna, 30 Agosto 2000)

1 Traslitterazione cinese del nome sipsongpanna che lingua dai vuol dire “12.000 campi di riso.”

2 I popoli tai sono una famiglia di etnie che vivono nel sud-est asiatico, nella Cina meridionale e nell’India nord-orientale. Parlano lingue appartenenti alla famiglia tai kadai e sono quasi tutte di religione buddhista theravada.

Il paese del garuda

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24 Agosto

Siamo partiti da Dali in una mattina grigia e piovosa e siamo arrivati a Lijiang, una città ai piedi delle Montagne del Drago di Giada.

Nella parte vecchia le case sono di legno dai tetti spioventi e le vie sono lastricate di pietre irregolari che con la pioggia diventano molto scivolose. I colori variano dalle tonalità di grigio delle strade al rosso bordeaux del legno dipinto e al verde delle piante. Anche se Lijiang sembra completamente antico, molti edifici sono stati ricostruiti perché un forte terremoto nel 1996 ha distrutto circa un terzo della città.

Sembra una versione cinese di un borgo medioevale italiano e il primo che mi è venuto in mente, non chiedetemi il perché, è quello di Spello.

Qui abitano i Naxi, gente pacifica, sorridente e gentile, i cui tratti somatici assomigliano a quelli di alcuni tibetani.

Si dice che anticamente i Naxi avessero una società di tipo matriarcale o matrilineare e questi elementi traspaiono ancora da alcuni dei loro miti più antichi. Le loro tradizioni spirituali sono la religione Dongpa, una forma di sciamanesimo profondamente influenzato dal Bön antico, e il buddhismo tibetano.

Ai margini delle strade, lungo piccoli canali, scorre gorgogliando acqua limpidissima che di tanto in tanto passa sotto dei ponticelli arcuati dove si specchiano salici piangenti.

I turisti sono sempre tanti, soprattutto cinesi, del resto questo posto è davvero bellissimo.

Ci sono tante caffetterie, bar e ristoranti, che mettono i tavolini fuori lungo i canali, dove si possono trovare cibi che in Cina sono più esotici come il formaggio fritto locale, caffè dello Yunnan, pizza, ecc., che per me che mangio sempre cose cinesi sono un desiderio particolare.

Siamo stati qui qualche giorno anche l’anno scorso. Era finalmente piacevole farsi un caffè a colazione con qualcosa di dolce seduti ai tavolini lungo i canali. Abbiamo insegnato a fare una pizza  in stile italiano alla manager di Mama Fu, un ristorante che sfoggiava orgogliosamente la scritta The Best Pizza in Lijiang, ma che faceva una strana pizza alta e piena di carne.

A Baisha, abbiamo visto gli antichi affreschi naxi e ci siamo fatti visitare dal Dottor Hu, il medico erborista da cui era andato  anche Bruce Chatwin e qui siamo stati ripresi dalla tv di stato, la CCTV. Al Tempio del Picco di Giada (Yufeng Si), dove era custodito un albero secolare, abbiamo incontrato l’anziano lama Nyingmapa che lo aveva protetto durante la Rivoluzione Culturale.

Infine abbiamo rincontrato il gruppo di freaks giapponesi che avevamo conosciuto a Dali e con uno di loro Eguchi, un giapponese di trent’anni con la barba e dei dread locks che gli arrivavano quasi alle ginocchia, che girava sempre con il fon in valigia e che avevamo soprannominato Bong Baba, ci siamo avventurati fino a Zhongdian, avamposto sud-est dell’altopiano tibetano, poco distante da qui. Ma questa è un’altra storia.

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26 Agosto

Stamattina abbiamo preso il l’autobus nº 7 da Piazza Mao Zedong e siamo partiti per le Montagne del Drago di Giada.

Il tempo era strano: pioveva, rispuntava il sole e poi pioveva ancora, e siccome non era un tempo da maglietta a maniche corte e non avevo portato il maglione, avevo freddo.

Lungo il tragitto, l’autobus è passato su una strada asfaltata in mezzo a una vasta pianura cosparsa di fiori gialli dove in lontananza le scaglie del Drago di Giada erano avvolte dalla nebbia.1

Arrivati a destinazione, abbiamo preso una seggiovia salendo fino a una foresta ricoperta da un tappeto di muschio soffice di un colore verde brillante. Lì abbiamo cominciato la nostra passeggiata e dopo un po’ che camminavamo all’ombra degli alberi, improvvisamente davanti a noi si è aperta una grandissima radura circolare in mezzo alle cime appuntite delle conifere.

Ai margini di questa radura, in prossimità della foresta, pascolavano buoi e dzo. L’eco dei loro muggiti risuonava nell’aria umida.

Spesso nell’aria rarefatta, davanti alla vastità di alcuni paesaggi montani, ti si apre il cuore, così anch’io ho gridato, ho gridato dal profondo, come insegnava Don Juan, e ho ascoltato l’eco della mia voce perdersi nel vuoto.

Questa è la terra degli Yi, abitanti delle montagne, delle alture e delle lande ad alta quota.

Indossano dei ponchos variopinti dove i colori prevalenti sono il nero, il rosso e l’arancione e dei cappelli di pelliccia, tipo quelli di David Crockett, guarniti da una lunga piuma d’uccello colorata,  forse di fagiano o di qualche uccello rapace.

Abili cavalieri di queste lande e distese fiorite, come i Naxi, anche i loro visi hanno tratti vagamente simili a quelli dei tibetani e la loro lingua appartiene al ceppo tibeto-birmano.

Nel bus di ritorno vicino a me sedeva una donna Yi con un vestito tradizionale nero e verde e un grande cappello teso a foggia quadrata che le copriva anche la nuca. Con lei c’erano anche il figlio di tredici anni e il marito.

Abbiamo scambiato qualche parola ma è stato difficile comunicare, perché parlava un cinese che non riuscivo a capire bene.

La sera in piazza a Lijiang, Naxi, Bai, tibetani e Yi hanno ballato in cerchio intorno a un grande fuoco delle danze tradizionali e al centro c’era un uomo che suonava un piffero.

La piazza era piena di gente e alla danza si sono unite anche le vecchiette delle bancarelle, dei cinesi e un paio di turisti americani che cercavano di imitare al meglio i movimenti del gruppo.

A fine serata, il fuoco andava spegnendosi, il suono del piffero era più lieve e qualche giovane del posto ballava e rideva contento.

Prosegue da Il lago e i pilastri del cielo

(Yunnan, Lijiang 2000).

1Secondo una leggenda naxi queste montagne sono i resti di una grande nāgiṇī sconfitta in combattimento dall’uccello divino dalle ali dorate, il garuḍa (cin.Da Peng Jin Chi Niao). Una delle divinità principali del Bön antico è il khyung, uccello mitico che rappresenta l’elemento fuoco, e che viene associato al  garuḍa della tradizione indiana. Anche nella religione Dongba questa è una delle divinità più importanti e compare spesso al centro di molte raffigurazioni iconografiche di questa tradizione.

Il lago e i pilastri del cielo

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Sono arrivato a Kunming, dove al Camelia hotel (il Chahua Bingguan) mia madre e una sua amica inglese mi aspettavano molto preoccupate perché, non immaginando che il treno dal Gansu al Sichuan sarebbe passato per lo Shanxi, ero arrivato con più di un giorno di ritardo. Paula, così si chiama l’amica di mia madre aveva letto su una guida della Lonely Planet che c’erano stati casi di turisti occidentali rapinati sui treni con dei coltelli e aveva condiviso la sua lettura con mia madre che, non vedendomi arrivare e non avendo avuto mie notizie, se prima era preoccupata, dopo essere venuta a conoscenza di questo, si era allarmata ancora di più.

Alla fine sono arrivato e insomma tutto bene quello che finisce bene, ora siamo a Kunming e ci godiamo un po’ la vita di questa piacevole città e tra poco partiremo per Dali. […]

Qualche giorno fa abbiamo preso un sudicio autobus con le cuccette e siamo arrivati qui a Dali l’altro ieri sera.

Dali è una cittadina con casette chiare dai tetti spioventi di tegole grigie, cinta da mura merlate su cui troneggiano due  grandi porte in stile orientale. Da un lato ci sono le montagne e dall’altro il lago Erhai, un lago enorme punteggiato qua e là da tanti piccoli villaggi. A guardarlo sembra un deposito infinito di ricchezze, il tesoro di un drago nel suo palazzo, di un prospero re dei nāga con le sue preziose gemme.

Tra le tante gemme una particolare è certamente quella del villaggio di Xi Zhou a poca distanza da Dali. Immerso nel verde smeraldo dei campi, questo villaggio silenzioso dalle case bianche e grigie, rende un’idea dell’atmosfera che probabilmente regnava in questi luoghi una decina di anni fa.

Questa è la terra dei Bai.

Li incontri per le vie della città. Le donne con fazzoletti in testa, turbanti azzurri o neri, vestiti scuri ricamati con motivi di vari colori, anelli e bracciali d’argento. Gli uomini con il renmin mao, il cappello del popolo, in vestiti comuni o la giacca zhongshan, quella che indossava sempre Mao, in tinte blu o grigie. A volte si vedono donne Bai con i copricapi ornati da tanti colori e i vestiti chiari: bianco e rosa, celeste e blu, bianco e celeste.  Mi sembra che vestano così soprattutto nelle zone più turistiche.

Sono di piccola statura e hanno dei volti simili a quelli delle popolazioni delle colline in alcune  zone del sud est asiatico.

Il lago e la città erano il centro dell’antico Regno di Nan Zhao e del Regno di Dali1, regno che fu conquistato definitivamente per mano dei guerrieri più formidabili e temerari: i mongoli.

Sullo sfondo delle montagne, tre pagode bianche si stagliano verso le nuvole come tre Pilastri del Cielo.

Continua da Partenza a sud delle nuvole

(Dali, 22 Agosto 2000)

1Il Regno di Nanzhao (VIII-IX sec.) e il Regno di Dali (937-1253), che ne fu la continuazione, erano regni la cui estensione corrispondeva pressappoco all’attuale Yunnan.

Il grande incrocio

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Se a Chengdu vi capiterà di andare nel quartiere di Wuhou, di fronte al grande santuario di Zhu Ge Liang, dall’altra parte della strada, passando tra la Banca delle Costruzioni e la Banca Commerciale, vi troverete a camminare su Wuhouci Hengjie, apparentemente una strada come tante altre ma vi potreste sentire completamente persi in un’altra dimensione, un piccolo mondo tibetano nella grigia monotonia che ormai caratterizza sempre di più questa città.

Monaci e lama dalle vesti rosso scuro e giallo zafferano,  donne tibetane con lucide acconciature e preziosi gioielli, nomadi coriacei dalle terre del Nord-Est con scarponi da montagna, khampa  con l’aria fiera di antichi guerrieri, vi guarderanno con curiosità, sospetto, entusiasmo.

Qualcuno interromperà il suo sussurrare di mantra con un saluto gentile, una manifestazione di rispetto, un sorriso dai denti d’oro, qualcuno invece vi seguirà con uno sguardo austero sparire all’interno di una porta, salire su una scala o girare dietro un angolo.

Ristoranti tibetani, hotel e bettole cinesi si affacciano qua e là tra negozi di statue buddhiste, thangka e altri oggetti rituali oltre a un’infinità di monili, pietre, portafortuna e souvenir di vario genere.

Ma quello che appare al comune viandante è solo la piccola parte di un labirinto su più livelli, esistono infatti degli spazi che l’occhio non vede, sale da tè e locali nascosti le cui finestre sono, spesso, celate dal fogliame di un albero o da una lunga balconata sopra a un generatore della corrente e a un groviglio di cavi dell’alta tensione.

Ci sono tanti posti segreti, cortili interni silenziosi, vicoli polverosi dove anziani cinesi sorseggiano tè su basse sedie di bambù giocando a majiang.1

Lungo la strada e nelle zone vicine, interi appartamenti vengono presi in affitto da tibetani e vengono trasformati in piccole pensioni  che possono arrivare a ospitare fino a venti o più posti letto al costo di circa 20 o 25 yuan ciascuno.

Gli odori che si sentono sono quelli che ormai caratterizzano Chengdu: o di gas di scappamento, solventi, polveri di costruzioni e di pneumatici, o di hot pot, peperoncino, olio e fritto dei ristoranti e dei baracchini per strada, o di fogna. Quando raramente si sente un profumo, questo si mischia a tutti o almeno ad alcuni di questi odori.

L’unico odore che manca e quello dell’aria.

Tutto questo sembra un paradosso visto che negli antichi testi tibetani Chengdu era chiamata la “Città degli Dei” o la “Città Profumata” e i tibetani la consideravano un luogo sacro.

Lasciandosi il santuario di Zhu Ge Liang alle spalle, e camminando su Wuhouci Hengjie per poco più di 200 metri si arriva al Grande Incrocio, il “cuore” della sinmo inchiodata sul suolo di Chengdu, il punto d’incontro più importante del quartiere tibetano insieme al Kangding Hotel, dove la via incrocia una strada perpendicolare che a sinistra diventa Ximianqiao Hengjie e a destra Wuhouci Dongjie.

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Queste due strade, che essenzialmente sono un’unica strada con due nomi, costituiscono le braccia della demonessa e avvolgono  tutto il resto del quartiere nelle sue zone di “luce” e di “ombra”.

Avvicinandosi al Grande Incrocio, le note delle canzoni dell’altopiano diventano sempre più forti e si possono vedere gruppetti di uomini e di donne a quasi tutte le ore del giorno e della notte.

Al Grande Incrocio sostano sempre una o più camionette e mezzi della polizia ma sono degli elementi talmente comuni da queste parti che la gente non sembra badarci molto e continua il proprio via vai con indifferenza. I poliziotti che spesso sostano in piedi o che pattugliano la strada ricevono meno considerazione dei manichini esposti nelle vetrine. Questi almeno catturano l’attenzione di chi è in cerca di vestiti da comprare.

Non c’è tibetano che sia venuto a Chengdu che non sia passato per Il Grande Incrocio, dall’ U Tsang, dal Kham, dall’Amdo, dalla remota terra occidentale di Ngari, migliaia di chilometri per arrivare qui.

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Sono ormai più di dieci anni che mi aggiro in questa zona, i miei passi l’hanno percorsa in lungo e in largo, entrando in ogni negozio, hotel, locale e ristorante, incrociando il cammino di grandi lama, mahasiddha , tertön e bodhisattva ma anche quello di falsi maestri, ladri, briganti, prostitute, imbroglioni, assassini e poliziotti in borghese.

Anche io, come loro, ho attraversato più volte questo crocevia, un posto piccolo ma con troppe storie, personaggi e situazioni per essere descritte in così poche righe. Storie di mercanti e artisti, di mendicanti, di pazzi, di gente mutilata e sfigurata, storie allegre e tristi, piccoli fili nell’infinita trama dell’umanità.

Tra queste, quella più bella è quella di un’anziana regina dei mendicanti. Un giorno ve la racconterò.

1Un gioco che ha molti elementi in comune con la nostra scala quaranta ma dove al posto delle carte vengono usati dei piccoli mattoncini colorati.

Partenza a sud delle nuvole

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E’ una splendida giornata, stamattina presto il sole illuminava la mia stanza di una luce calda e chiara, sono stato svegliato alle otto meno un quarto da due mie alunne Sönam Yanggye e Sönam Dengye e  un’altra di cui non ricordo il nome. Le due Sönam sono bambine di dieci anni e sono quelle a cui sono più affezionato insieme a Ma Jun, un bambino di poche parole ma dai grandi sorrisi e occhi vispi.

Sönam Yanggye e Sönam Dengye ieri hanno insistito per vedere la mia stanza e si sono messe a spazzare e a riordinarla alla perfezione nonostante avessi detto loro di lasciar stare.

Domani parto per Kunming nella provincia cinese dello Yunnan a una trentina di ore di treno da Lanzhou. Dovrei fare un pezzo di strada con il piccolo lama Benpa e il suo seguito che sono diretti alla montagna sacra Wutai.

Oggi è il giorno dei saluti, ma è solo un arrivederci a presto. Ho lasciato delle mie cose a Dorjetso.

(Labrang, 15 Agosto 2000)

Il 16 sono partito per Lanzhou e il 17 mattina ho preso il treno per Chengdu nella provincia del Sichuan.

Il Sichuan e il Gansu (dove si trova Labrang) sono due province confinanti e, basandomi su quanto mi aveva detto la gente, pensavo che ci sarebbero volute circa 15-16 ore. Ero salito nello scompartimento dei “sedili duri” (ying zuo) senza biglietto e non avevo un posto.

Dopo parecchie ore di treno scoprii che eravamo diretti verso Xian e che, per arrivare a Chengdu, avremmo impiegato  27 ore. Per via delle impervie catene montuose che attraversano il cammino, infatti, il treno deve tornare indietro verso est fino alla città di Xian nello Shanxi e da lì scendere verso Chengdu.

Sono rimasto seduto fino alle sei del mattino per terra sul mio zaino tra un vagone e l’altro, avevo fatto lo sbaglio di aver messo i soldi nello zaino e quindi avevo paura di lasciarlo incustodito, soprattutto non potevo andare in bagno.

Ero in compagnia di un’allegra brigata del Sichuan di ritorno da Lhasa. Un magro ragazzo liceale contadino, e un uomo barbuto muscoloso con un folto pizzetto nero che scherzava sempre, sembrava quasi un pazzo ma era divertente. Insieme a loro c’erano due ragazzi che sorridevano sempre e una ragazza magrissima piena di tagli e segni di bruciature su gambe e braccia che sembravano fatte con dei mozziconi di sigarette o qualcosa di rovente. La ragazza aveva un sorriso e degli occhi bellissimi.

Ad un certo punto in mezzo a noi buttati per terra, si è seduto un giovane basso e tarchiato con i capelli un po’ lunghi e dei tatuaggi che sembrava essersi fatto da solo, non parlava quasi mai, aveva un aria seria e dura  e per questo è stato chiamato da me “il taciturno”. Nel Sichuan sono molti quelli che si tatuano ideogrammi soprattutto sulle braccia, anche il barbuto ne aveva alcuni e, oltre a lui, altri vicino a noi.

Ero immerso nella melodia scherzosa e piacevole del dialetto del Sichuan e mentre sedevamo per terra e parlavamo cominciavano a girare cosce e ali di pollo e poi focacce, frutta, semi di girasole, un pane dolciastro tipo quello delle merendine confezionate e sprite.

Le ultime sei ore di viaggio ho trovato un posto a sedere. Arrivato a Chengdu mi sono fermato in un ristorantino di noodles vicino alla stazione e, dopo un’oretta e mezzo d’attesa alla stazione, sono salito subito sul treno per Kunming anche qui senza comprare il biglietto alla stazione e facendolo direttamente sul treno. Questo sistema che si chiama bu piao infatti permette di evitare le lunghissime file per comprare il biglietto (che cominciano a tre giorni dalla data di partenza) e di prendere il treno all’ultimo momento, ma non permette di prenotare il posto, quindi si rimane quasi sempre in piedi nello scompartimento dei “sedili duri” o comunque seduto non su sedili.

Rispetto ad altri treni che ho preso prima questo treno non è male, è ordinato e pulito, cosa non usuale nei treni cinesi, soprattutto nello scompartimento dei “sedili duri”.

Fuori dal finestrino scorre un paesaggio del Sichuan assolato.

(Chengdu, 18 Agosto 2000)

Ho passato la notte annodato sul sedile con lo zaino come cuscino e mi sento un po’ incriccato, anche se molto meglio di come mi sentivo sul treno per Chengdu. La musica di sottofondo è una canzone disco-melodica, successo di questi anni, Butterfly, dove una vocina canta accompagnata da potenti bassi e altri effetti musicali. Fuori dal finestrino scorrono i campi, le casette dai muri di terra o mattoni e i tetti di tegole scure.

Minuscole figurine di contadini dai vestiti colorati si intravedono qua e là nei campi, come un immenso presepio vivente.

Parallele alla ferrovia, sullo sfondo, scorrono delle montagne ondulate. Tutto è molto verde.

(Treno per Kunming, 19 Agosto 2000)

Lo spirito nella camera da letto

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Una mattina Gönpa, un mio amico di Dzoge che vive a Labrang, mi ha detto che stava andando da Alak Chomge, il lama anziano dove ero andato con Danpa qualche giorno prima.

Voleva chiedergli di scacciare uno spirito maligno che causava problemi e litigi fra lui e la moglie. Abbiamo preso un sanlunche1, siamo partiti per la strada principale e poi abbiamo continuato salendo per le vie laterali passando tra le  case dei monaci fino alla residenza del lama.

Entrati nella sua stanza, Gönpa si è inginocchiato davanti a lui tre volte, gli ha offerto un katak e ha cominciato a parlare con lui in tibetano. Dopo averlo ascoltato in silenzio, Alak si è messo a ridere e ha continuato a guardarlo con quel suo sguardo vitreo e misterioso  lasciando Gönpa senza parole, con un’espressione imbarazzata.

Io non capivo niente di quello che dicevano e uscendo ho chiesto al mio amico cosa avesse detto il lama.

“Ha letto la mia mente” mi ha risposto lui intimorito.

“Perché? Cosa è successo?”

“Alak ha detto: come posso aiutarti se non hai fiducia in me? Questa mattina volevi andare da un altro lama.”

“Ed è vero, questa mattina ero indeciso se andare da lui o da un altro lama importante del monastero e lui lo ha visto. Altrimenti come poteva saperlo?

“Incredibile! Ha letto la mia mente.” continuava a dire in inglese mentre ci allontanavamo.

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Protezione contro le influenze negative degli spiriti gyalpo.

10 agosto

Questa mattina c’era il sole, poi dopo pranzo si è messo a piovere e adesso, le 4 del pomeriggio, è rispuntato il sole.

Anche ieri mentre pioveva da una parte della città, dall’altra c’era il sole. Un versante della montagna era ombroso, mentre l’altro era soleggiato. Qui il tempo è strano.

Ieri con Danpa e Gönpa siamo tornati da Alak Chomge per chiedergli la trasmissione (lung) di alcuni mantra

Alak è un lama che vede chiaramente nel cuore delle persone, sembra vedere il passato e un probabile futuro e temevo che vedesse anche le mie paure, le mie contraddizioni interne, la mia inquietudine.

Il nervosismo e l’esitazione nel varcare la porta si sono dissolti in un istante quando ho udito la sua risata dolce e confortante. “Se riesce a vedere la mia mente allora è inutile essere nervoso.” “Sono come sono.”

“Chö demo”2 ho detto e Alak, con la stessa voce di un nonno che si rivolge a un nipote, ha risposto lentamente: “ya ya demo”.

Stava seduto sempre nella parte rialzata della stanza, mi sono inginocchiato davanti a lui per tre volte e gli ho porto un katak bianco con un’offerta in denaro. Sono rimasto in ginocchio davanti a lui a testa bassa e occhi chiusi mentre Alak pronunciava dei mantra e alcuni versi per me incomprensibili. Questo era un lung.

Alla fine della trasmissione mi ha detto che se avessi recitato questi mantra ogni giorno, avrei facilmente superato il problema in cui mi sarei imbattuto a 36 anni.

Alak mi ha dato anche un cordino rosso da mettere al collo e una sua foto sulla quale aveva sparso dei semi d’orzo sussurrando delle preghiere.

Avevo detto che il tempo oggi era strano? Si è rimesso a piovere.

Continua da La benedizione del lama sotto un mare di stelle

(Labrang, estate 2000)

1Una moto con dietro un rimorchio dove si possono sedere più persone (una specie di ape scoperto).

2 Un saluto comune in questa parte del Tibet .

La benedizione del lama sotto un mare di stelle

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Il sole stava per tramontare quando siamo andati alla casa del lama di Danpa, Alak Chomge.1

La sua casa era in alto in direzione della montagna, vicino alla khora. La strada sterrata saliva fino ad uno spiazzo su cui si affacciava una porta. Siamo entrati nella grande porta di legno a due ante e attraversato un ampio cortile salendo delle scalette di pietra.

In una stanza di legno ad un angolo del cortile  sedeva il lama  con altri due monaci. Mi dissero che aveva 84 anni ed era uno dei lama più anziani del monastero. Mi hanno colpito i suoi occhi, chiari per la vecchiaia, sembrava che vedessero oltre l’apparenza delle cose. Quando sono entrato la prima cosa che ho fatto è stata inginocchiarmi davanti a lui  porgendogli una sciarpa rituale  bianca (katak) tenuta con entrambe le mani e lui, dopo averla presa, me l’ha appoggiata sulle spalle e  toccandomi dolcemente le guance con entrambe le mani come si fa con i bambini  ha detto: “o ya!”

Sedeva in un angolo della stanza, questa era tutta rivestita di legno rossastro con katak bianchi, gialli e azzurri appesi alle pareti.

I monaci che stavano nella stanza ci hanno offerto una ciotola di yogurt. Abbiamo parlato un po’ con Alak Chomge, Danpa traduceva e di tanto in tanto l’anziano rideva calorosamente.

Danpa gli stava spiegando che avevo studiato e lavorato per un po’ a Pechino e che ero poi venuto a Labrang l’estate e il lama disse che vedeva tutte le cose che avevo fatto in precedenza. Ero molto emozionato, non ho mai creduto a queste cose ma mentre il lama parlava e mi guardava non avevo alcun dubbio che quello che diceva fosse vero.

Quando Danpa gli ha raccontato la mia paura riguardo a quello che mi sarebbe successo a 36 anni, lui si è messo a ridere, dicendo che se avessi recitato dei mantra la mia vita non avrebbe avuto problemi. Prima di andare via mi ha fatto mettere di nuovo in ginocchio davanti al piano rialzato dove sedeva e, prendendo un testo buddhista avvolto in una tela gialla, lo ha appoggiato sulla mia testa, poi sulla spalla destra, poi su quella sinistra, poi ancora sulla testa e così via, recitando dei versi in sanscrito a voce bassa che non capivo.

Alla fine ha appoggiato di nuovo il tomo sulla mia testa e ha concluso la recitazione con la parola samaya detta a voce un po’ più alta. In quel momento ho sentito un’energia penetrare nella sommità della testa e propagarsi verso il basso come un brivido.

Abbiamo salutato Alak Chomge e gli altri monaci e siamo andati via.

Stavamo andando a casa di Danpa e scendevamo giù per le vie del monastero. Era buio.

Quando siamo arrivati, il fratello di Danpa, Lobsang e il piccolo monaco allievo di Danpa, stavano preparando da mangiare. La stanza di legno era riscaldata dal calore della stufa. Dopo mangiato ho studiato un po’ di tibetano con Danpa e gli ho insegnato un po’ d’inglese. S’erano fatte le dieci, era tardi e l’indomani dovevo insegnare inglese ai bambini con il mio amico Gönpa, dovevo andare.

Danpa mi ha accompagnato con una piccola torcia lungo le strade di terra che serpeggiano irregolari tra le case dei monaci dai muri d’argilla. Tutto intorno era buio, solo la luce di stelle mai viste prima. La via lattea era chiara e distinta, sopra di noi brillava la costellazione dello scorpione con la sua stella rossa: Antares.

Continua da Aku Danpa

(Labrang, 3 Agosto 2000)

1 Alak Chomge è il settimo in ordine d’importanza a Labrang Thashikyil (su 65 lama). Alak è un termine molto usato in queste zone dell’Amdo davanti ai nomi dei lama per indicare la reincarnazione di un maestro (in altre zone è più usato il termine tulku  o rinpoche).

Aku Danpa

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Le cose che ci circondano, gli eventi che ci accadono, i nostri progetti, comprese le relazioni che abbiamo con gli altri, sono tutte interdipendenti (in tibetano tendrel). C’è una parola tibetana che indica una circostanza fortunata: thashi tendrel. Alcune persone pensano che thashi tendrel sia una cosa che possiamo creare, determinare ma essa si manifesta spontaneamente: in un giorno importante alziamo lo sguardo e vediamo un arcobaleno.

Se pensiamo di poterla creare la nostra mente comincia a ragionare calcolando e molto probabilmente non si manifesterà.

Voglio raccontare una storia che comincia da una di queste circostanze fortunate e  prosegue attraverso le tante  situazioni interdipendenti che da essa si sono dispiegate.

Un pomeriggio ero a Roma a Prati con mio nonno, in una delle varie “spedizioni” pratiche o burocratiche, stavamo  camminando sul marciapiede e improvvisamente il mio sguardo venne catturato dalla copertina di un libro in una vetrina di una libreria. Sulla copertina c’era l’immagine di un buddha: era il libro di Terzani “Un indovino mi disse” e mio nonno me lo regalò.

La storia di Terzani e dei suoi incontri con vari indovini e astrologi mi piacque molto, l’idea di conoscere  il mio futuro mi incuriosiva e allo stesso tempo mi spaventava. Per tutto quell’anno ne fui fortemente influenzato e nei miei viaggi in Asia, quando sentivo di un indovino o di un astrologo, lo volevo incontrare per farmi predire il futuro.

A Labrang quell’estate ho conosciuto un monaco che veniva da Trika (cin. Guide, nella provincia del Qinghai), si chiamava Aku Danpa e viveva nel monastero di Thashikyil insieme a suo fratello Lobsang. Entrambi avevano un viso che sembrava quello delle antiche statue di legno dorate  dei lama e dei buddha che si trovano ancora in alcuni vecchi monasteri.

Aku Danpa aveva studiato medicina tibetana e astrologia e subito pensai di farmi leggere il futuro. Era il primo dei miei indovini.

Gli dissi la mia data e ora di nascita e dopo qualche giorno Aku Danpa mi diede la risposta che aveva scritto su un foglio di carta.

“La tua vita andrà  sempre meglio ma a 36 anni (35 in occidente)1 avrai un  problema abbastanza grande che poi supererai”.

Sì, è vero l’avrei superato ma le parole “problema abbastanza grande” avevano fatto sorgere in me una certa agitazione.

Quando gli chiesi più spiegazioni, lui rispose che per dirmi con più precisione cosa sarebbe successo a 36 anni avrebbe dovuto fare un altro calcolo astrologico più specifico di quella fase della mia vita e che ora non aveva tempo ma  se volevo mi avrebbe portato dal suo maestro, un lama molto anziano, e  avrei potuto chiedere a lui.

1 Quando Aku Dampa mi lesse la risposta disse 36, ma molti tibetani a cui raccontai in seguito questa storia mi dissero che era 37 (In occidente 36 anni. Nell’astrologia tibetana e in quella cinese infatti si conta anche il periodo passato nel grembo materno e si aggiunge un anno). Nel 37° anno, infatti, si conclude il 3° ciclo dei 12 animali e l’elemento dell’anno è in contrasto con l’elemento del proprio segno e in genere si presentano negatività e ostacoli.  Per il serpente di fuoco (1977) il 37° anno è stato il serpente d’acqua (2013).

Sindhura, la valle di Chakrasaṃvara tra le due correnti

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“Sindhura, la valle di Chakrasaṃvara (Tib. Demchok) che si trova tra le due correnti”, così i tibetani chiamano questa valle che si trova all’interno di un ansa particolare del Fiume Giallo (tib. Machu), un luogo sacro, un nekhang, un posto unico con un feng shui perfetto e un energia particolare. Nominata in antichi testi indiani e meta di eremiti questa valle ha l’aspetto di un canyon di terra rossa (Scr. sindhura), le rocce sono friabili  con alcune zone più aride dove non cresce niente ed  alcune in basso più fertili, coperte di vegetazione e di alberi di hua jiao mano mano che ci si avvicina al fiume. Questo luogo è uno dei luoghi sacri di Demchok e ha una storia bellissima e misteriosa….

Uno yogi venuto dall’India si ferma in una grotta di questa valle a meditare. Una giovane ragazza del villaggio vicino lo vede e ogni giorno gli porta da mangiare. I due si innamorano provocando il dissenso della gente del posto. Un giorno una barca con a bordo la ragazza affonda, tutti si salvano ma la ragazza sparisce. Passa del tempo…. Un giorno una bambina del posto ode una voce: “aprite la porta! Aprite la porta!”, ma nella valle non c’era alcuna porta e la voce proveniva dalla parete rocciosa che sovrasta la valle, dal profondo della roccia. Dopo qualche giorno la bambina torna con la gente del posto, all’improvviso un pezzo di roccia salta via da solo e lo spettacolo che si para davanti ai loro occhi  li impressiona fortemente: lo yogi e la ragazza (che avevano già raggiunto la realizzazione suprema di Chakrasaṃvara) sono uniti nella karmamudrā. Cercano di separarli, di dividerli ma i loro corpi rimangono legati indissolubilmente l’uno all’altra, dopo innumerevoli tentativi alla fine vi riescono ma i due giovani  muoiono.

A ridosso della parete rocciosa dove si era aperta la grotta, ad una discreta altezza dal livello del suolo è stato poi costruito un piccolo lhakang, un santuario che conserva la statua dello yogi e dalla sua consorte in quella grotta.2 La ‘porta’ della caverna, la roccia saltata fuori della parete giace ancora a terra nella valle ad alcuni metri di distanza e i tibetani ci girano intorno nella circoambulazione rituale o  khora.

Un vecchio monaco ha vissuto qui, prendendosi cura del santuario per anni, dopo la sua morte un lama anziano di Labrang e venuto qui a recitare le scritture e a fare offerte alla divinità e agli spiriti del luogo. E’ questo lama che io e Sebastiano siamo venuti a trovare. Il lama, Aku, e’ un uomo non tanto alto, di corporatura grossa, i suoi abiti da monaco sono vecchi e strappati, la sua voce e la sua risata rauche e un grande senso dell’umorismo. Aku ci raccontava che a molti nel monastero di Labrang non piacciono i monaci poveri e stracciati come lui e a lui non piacevano quelli che sono monaci solo esteriormente e non nel cuore. I giorni nella valle con lui sono stati giorni bellissimi, indimenticabili: dormivamo all’aperto sotto i piccoli alberi ai piedi della parete di roccia, proprio sotto il santuario; cucinavamo con pochissimo, (tsangpa, melanzane e cavoli e noodles che Sebastiano aveva comprato lungo la strada) con legna e fuoco.

Aku aveva arrangiato sotto l’ombra degli alberi un tappeto, una stuoia  e dei lembi di stoffa che cingevano il tutto e dentro aveva riposto degli oggetti rituali, bandiere di preghiera, un piccolo focolare su delle pietre, una teiera d’alluminio annerita per il tè e una pentola. Durante il giorno il sole era forte e faceva molto caldo, la sera era fresco e bisognava coprirsi. Nella valle non c’era la luce e la notte sedevamo accanto al fuoco e dormivamo tutti e tre lì sulla stuoia e sul tappeto, sotto i piccoli alberi….sotto le stelle….e ci addormentavamo al sibilare del vento….non avevamo coperte e venivamo mangiati dalle zanzare.

Aku spesso dormiva in una piccola casa bassa dai muri d’argilla poco più in là,  a parte noi tre in questa valle le uniche persone erano gli abitanti di un villaggio più lontano e raramente qualcuno veniva nella nostra direzione. La mattina Aku ci dava  qualche breve insegnamento che non riuscivo a capire benissimo e il pomeriggio passavamo difronte ad uno dei massicci rocciosi che formavano questa sorta di canyon e andavamo a fare il bagno nel Fiume Giallo. Un giorno abbiamo provato un “avventura” come diceva Sebastiano e ci siamo e ci siamo inerpicati su una di queste grandi rocce, una salita abbastanza pericolosa, degna di lui e mentre salivamo e scendevamo sui sentieri scoscesi intonavamo allegramente la musichetta di Indiana Jones per caricarci e mantenere vivo l’entusiasmo e la determinazione a proseguire e non tirarsi indietro davanti agli ostacoli. In questa gola il paesaggio era magnifico: le grandi rocce rosse, il fiume, gli alberi profumati di huajiao, il Fiume Giallo e le sue rive erano pieni d’argilla ma l’acqua era pulita. Tra un tuffo è l’altro ci ricoprivamo tutto il corpo con il fango caldo e facevamo a gara con i bambini di un villaggio poco lontano a slittare sulla riva fangosa a pancia in giù e Sebastiano faceva i salti mortali. Nel fiume lavavamo gli unici vestiti che avevamo mettendoli ad asciugare al sole e il tempo era così caldo che si asciugavano subito.

Aku mi ha insegnato molte cose, ma soprattutto a vivere la libertà e la spontaneità del Dharma….la libertà e la spontaneità della vita.

L’ultimo giorno, quando stavamo andando via per tornare verso Labrang, Sebastiano mi ha detto che la magia di questo posto sarebbe finita presto.

“Perché?” Chiesi io.

“Hai visto la strada? Prima non c’era.”

“Ma chi potrebbe essere interessato ad un posto come questo?”

“I cinesi fanno di tutto per i soldi.” Rispose lui.

Sulla via del ritorno pensavo ai giorni passati a Luojiadong. Ero emozionato e felice ma queste emozioni erano velate da una leggera malinconia.

Continua da Il Giaguaro e la via per Liu Jia Xia

(24-27 luglio 2000)

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Parete rocciosa della valle (foto presa da un sito cinese).

 

1Un altro nome con cui è chiamato il bacino idrico di Liujiaxia.

2 Il racconto mi è stato fatto da alcune persone di Labrang e presenta alcune piccole imprecisioni e variazioni rispetto a quella ufficiale.

Il Giaguaro sulla strada per Liu Jia Xia

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Questa mattina ci siamo alzati prestissimo e, dopo una colazione a base di tsangpa, pane, uova sode e te con latte ci siamo avviati all’autobus per Linxia accompagnati da Dorjetso. Linxia si trova nella valle del fiume Daxia, un affluente del Fiume Giallo, per secoli ha costituito un centro religioso, culturale e commerciale importante della comunità islamica in Cina, qui infatti la maggioranza della popolazione è musulmana1 e con le sue innumerevoli moschee è chiamata dalla gente del posto la “piccola Mecca della Cina”.2

Ho portato con me solo l’essenziale: 2 quaderni, 1 libro, foglie di tè verde, mala, maglione di lana, carta igienica, un pezzo di pane e un uovo sodo avanzati dalla colazione, occhiali da sole di pietra per camuffamenti, mettendo tutto in una borsa di tela da monaco.

Gli unici vestiti sono quelli che ho addosso, pantaloni viola e maglietta arancione. Nell’autobus abbiamo incontrato un gruppo di ragazzi cinesi musicisti di Lanzhou che studiavano il buddhismo. Durante il viaggio abbiamo parlato un po’ e arrivati a Linxia ci hanno offerto il pranzo: shou zhua yang rou, grossi pezzi di carne di pecora da prendere con le mani, (la carne di pecora di questi luoghi è macellata alla maniera musulmana ed è famosa in tutta la Cina), chao mian pian, una specie di orecchiette in brodo, il tè ba bao, molto bevuto tra gli hui e gli altri musulmani della zona, e huang jiu, un vino con le bacche gou ji che va bevuto molto caldo.

Durante il pranzo abbiamo parlato di cultura e usanze cinesi e di cultura e usanze italiane e straniere, un ragazzo magro con il viso scavato e gli occhiali era esperto in buddhismo chan ed era interessato al buddhismo tibetano.

Dopo mangiato abbiamo cominciato a cantare e suonare la chitarra dentro il ristorante: loro hanno cantato una canzone del nord-ovest tutti insieme, l’esperto di chan alla chitarra accompagnato da un ragazzo con i capelli lunghi e l’orecchino  un po’ stile Hei Bao o Tang Chao (dei famosi gruppi hard rock cinesi) che io, preso dall’ebbrezza dello huang jiu, avevo soprannominato “Er Giaguaro”.

Con la sua poderosa chitarra il Giaguaro si è esibito in una serie di pezzi rock in perfetto inglese come “What’s Up” dei 4 Non Blond e “Holiday” degli Scorpions e, su mia richiesta, hanno cantato “Yi Wu Suo You” e altre canzoni di Cui Jian, il padre del rock cinese. Io ho cantato e  “The House of the Rising Sun”, “La Canzone del Sole”, “Knockin’ on Heaven’s Door” versione Guns ‘n’ Roses , “I Remember You” degli Skid Row….insomma  il mio solito repertorio con strimpelli da menestrello. Poi un accenno di “Grazie Roma”; “Acqua Azzurra” e “O Sole Mio”, in duetto con Sebastiano e  come gran finale abbiamo cantato tutti insieme due canzoni dei Tang Chao, l’ultima: “Tai Yang” (sole). Che cinesi strani e interessanti.

Dopo esserci salutati e scambiati gli indirizzi siamo andati alla stazione ovest per prendere l’autobus per Liu Jia Xia.

“No parte domani alle 6:30.” Ci dice un ragazzo hui (una delle minoranze musulmane della Cina).

E quindi eccoci qua, in una pensione-baracca difronte la stazione, è una pensione per cinesi, noi  siamo illegali qui, a 6 kuai a notte (1200 lire), non ho mai trovato niente di meno costoso in quasi due anni di Cina a parte i prati e il pavimento del salotto di Lei Jian a Pechino.3

Pensione? Le pareti sono di compensato con buchi che permettono di vedere le stanze adiacenti, la “porta” è un pannello di plexiglass scorrevole stile “giapponese”, le pareti di compensato e la porta potrebbero essere buttate giù in un attimo e per di più il pannello scorrevole è aperto in alto. Le stanze sono 2 metri per 2 o forse poco più; 2 letti con lenzuola a fiori non lavate, materassi sottilissimi e sporchi poggiati su assi di legno, il pavimento è di cemento e  la mobilia è tutta appiccicata: 2 letti e 1 comodino.

Non mancano i classici accessori del confort cinese: televisore Bei Jin, un thermos per l’acqua calda e due tazze sporche. Un cartello sul muro lercio dice qualcosa sull’igiene con la figura di un poliziotto che fa il saluto militare. L’acqua è quella del thermos e ci si lava nella bacinella e il bagno è quello della stazione degli autobus.

Vicino a noi c’erano dei grossi tibetani con dei grandi coltelli alla cintola e visto che le pareti di compensato e la porta di plexiglass non mi davano una sensazione di grande sicurezza e in più noi eravamo stranieri, all’inizio non ero molto tranquillo.

La città di Liujiaxia a è a due ore e mezzo da Linxia e si trova vicino all’omonima una gola sul Fiume Giallo, vicino alla città ci sono delle grotte con innumerevoli  buddha  scolpiti nella roccia e un posto sacro dove Sebastiano conosce un monaco che vive in ritiro.

Stasera abbiamo mangiato degli spiedini ad un banchetto per strada, bevuto del tè dolce e fatto due chiacchiere con la signora della pensione.

Domani mattina partiamo alle 6:30.

Nella stanza Sebastiano mi ha spiegato per la prima volta degli esercizi di meditazione e abbiamo meditato un po’ insieme, anche se non sono riuscito a concentrarmi un granché.

(23 Luglio 2000, Linxia)

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2 Rimane ancora oggi il centro principale degli ordini Sufi Qadiriyyah e Khufiyya in Cina e terra natale di Ma Mingxin (1719–1781), fondatore dell’ordine Sufi Jahriyya.

3 Non potevo immaginare che nel capodanno dello stesso anno, a Labrang,  ne avrei trovata una a cinque kuai a notte e che avrei poi raggiunto il record stando qualche giorno in una di tre.

La khora di Labrang

拉卜楞寺的转经筒长廊

20 luglio

Finalmente mi sono elevato dagli abissi di Lanzhou, una delle città più inquinate del mondo, alle montagne del Amdo, la Lamaseria di Labrang dove ho rincontrato i miei amici Gönpo e Sebastiano.

Erano due anni che non vedevo Sebastiano e sono stato contentissimo di parlare ancora con lui. Parlavamo sempre di tante cose: la visione della vita, il significato e il valore dei rituali e della spiritualità in genere e lui aveva sempre un grande senso dell’umorismo e di tanto in tanto faceva battute per sdrammatizzare il tutto.

Nel tardo pomeriggio siamo andati insieme ad un bambino olandese e ai suoi genitori a trovare un giovane tulku nella sua residenza poco lontano dalla Guesthouse del monastero.

Il tulku ha undici anni ed è la reincarnazione di un lama che nella vita precedente aveva raggiunto un alto livello di realizzazione.

Sono rimasto stupito dal suo inglese, decisamente inusuale per un bambino della sua età. Monaci, tutori, suo padre e sua madre gli stavano sempre vicino.

Tra loro c’era anche un ragazzo di Pechino, un tipo molto magro con un po’ di barba e baffi.

Era buddhista, aveva incontrato il piccolo lama alla montagna sacra Wutai in Cina ed era tornato qui con lui per insegnargli il cinese ed approfondire il suo studio e la sua pratica.

Questo fatto è decisamente inusuale infatti in Cina, a parte i monaci, qualche anziano e qualche curioso, finora non ho incontrato molti cinesi buddhisti e quelli che seguono il buddhismo tibetano sembrano essere ancora meno.

Sul piazzale del monastero vedo spesso pullman di turisti cinesi ma nessuno che preghi o che abbia una mālā in mano o al collo, si limitano a girare per i vari padiglioni seguendo goffamente una guida e a fare foto invadenti lungo la khora ai pellegrini suscitando reazioni di sdegno. I tibetani infatti non amano essere fotografati da loro o comunque non sembrano dargli il benvenuto.

Bempa, così si chiama il piccolo lama, ha un’energia e una voglia di giocare uguali a quelle di tutti i bambini. Abbiamo fatto qualche passaggio a pallone con lui fuori nel cortile ed era molto contento. Dopo un po’ siamo andati via.

La sera nella cameretta di Sebastiano, dietro al ristorante, abbiamo mangiato ancora tofu in salsa piccante, patatine fritte e dei funghi tibetani infarinati con l’orzo dal gusto burroso. Dopo una lunga chiacchierata sono andato a dormire, ero esausto.

Le stelle si stagliavano nitide e luminose su cielo nero….le stelle di sempre.

21 Luglio

Oggi dopo tanto tempo ho seguito la khora intorno a Labrang Thashikyil. Qui il sole è molto forte e le ore migliori per circoambulare il monastero sono quelle del primo mattino o del pomeriggio dopo le cinque, così io e Sebastiano ci siamo incamminati nel tardo pomeriggio, dopo aver comprato del pane, e preso del ketchup e della marmellata. E venuto anche con noi Asang un bambino tibetano molto vivace e ci seguiva con in mano un sacchetto d’uva fragola che gli aveva dato sua madre. Camminavo come tutti gli altri facendo girare le grandi ruote di preghiera (mani khorlo) colorate con una mano e tenevo la mālā (una sorta di rosario) nell’altra.

Alla fine di una fila di ruote e all’inizio di un’altra spesso c’erano delle piccole stanze scure, le pareti ricoperte di dipinti raffiguranti i buddha e i bodhisattva erano illuminate solo dalla luce fioca di lumini ad olio e al centro c’erano delle ruote dalle dimensioni enormi. Ruota dopo ruota, le lettere dorate dei mantra che giravano scintillando alla luce del sole mi facevano quasi perdere l’equilibrio.

Il nostro cammino era accompagnato da file di vecchiette rugose e sdentate, pastori sporchi dalle facce bruciate dal sole e sorrisi dorati, ragazze sorridenti e curiose e monaci dal passo spedito. Il bisbigliare di mantra ondeggiava nell’aria, come i cerchi provocati da un sasso in uno stagno.

Arrivati al Gungthang Chörten ho incontrato Kagya, il monaco custode che avevo conosciuto l’anno scorso e con cui mi fermavo spesso a parlare quando arrivavo in quel punto.

Le montagne ondulate, i falchi, il fiume, il ponte di legno con le bandierine di preghiera.

Passato un secondo e più piccolo chörten bianco in muratura siamo saliti lungo il sentiero che sovrasta gli ampi piazzali e i tetti d’oro del monastero e che costeggia la montagna, ci siamo fermati su dei gradini e alla rosea luce del tramonto abbiamo pasteggiato a base di pane, ketchup, marmellata e uva.

Demo” dicevano i monaci che passavano lungo la via. Eravamo rimasti lì seduti da un po’ a parlare e a goderci il panorama e quell’atmosfera di pace, quando è arrivato un uomo sporco e stracciato e rivolgendosi a noi, ha detto qualcosa per me incomprensibile. Sebastiano mi ha detto che l’uomo ci aveva invitato ad avviarci verso casa e che lui ascoltava sempre i consigli di uomini così.

“Hanno un sesto senso è meglio ascoltarlo.”

Così ci siamo incamminati, il sole era quasi tramontato del tutto. Le casette di meditazione sul fianco della montagna….due padiglioni con ruote enormi e lumini ad olio….un giro intorno ad un altro chörten….un ultima lunga fila di ruote ed eravamo al ristorante di Dorje.

Il giro era finito ed eravamo molto stanchi: due momo di yak fritti e a letto.

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28 luglio

Questa mattina come al solito ho fatto colazione al ristorante della famiglia di Dorje: il Labrang Monastery Restaurant con tsangpa e tè con latte. Finalmente, dopo tanti tentativi, l’impasto dello tsangpa mi riesce bene e non faccio più il solito pasticcio che fa ridere tanto i tibetani.

Dopo colazione sono andato a fare la khora, il tempo era brutto e lo è stato fino a sera, ha piovuto e tirava un vento freddo. A cena ho mangiato dei mian e sono tornato alla guesthouse del monastero.

Questa guesthouse si trova in una piccola traversa della via principale più sù poco lontano dal ristorante ed è una delle più economiche (un posto letto costa 5 kuai). Attraversando un cancello di ferro, si entra in un cortile di terra battuta intorno a cui si aprono delle porte di legno arancioni ognuna con accanto una finestra.  Dalle porte arancioni si accede direttamente nelle stanze che si trovano tutte al piano terra.

La mia stanza ha due letti, una stufa (di solito alimentata con sterco di yak essiccato) e un bollitore d’alluminio per l’acqua calda, la porta si chiude puntellando un asse di legno alla stufa. Come la maggior parte delle  abitazioni in Tibet e non c’è l’acqua corrente l’acqua si prende da un pozzo o dal bidone nella stanza di Kalsang, il gestore della guesthouse, e ci si lava in una bacinella nella stanza e il bagno è una latrina comune fuori.

Gli altri ospiti della guesthouse sono principalmente pellegrini tibetani o mongoli, che vengono a visitare il monastero e a fare la khora.

Di tanto in tanto per il cortile passeggia qualche vecchietta rugosa e sdentata.

Una vecchietta con i vestiti colorati e i capelli legati in piccolissime treccine divise in tre fasce, che arrivano quasi a terra, sorride ogni mattina.

Accanto al cancello c’è la stanza di Kalsang, un amico di Lama.

Kalsang è un uomo di bell’aspetto, magro con i capelli corti, ha vissuto in India per molti anni e parla bene inglese. La sera ho parlato con lui, è un tipo strano, di poche parole, un po’ enigmatico.

A Labrang girano tante storie su di lui e su alcuni dei suoi amici. Ogni tanto lo incontri sulla strada o lo vedi uscire  da dietro un angolo. Con quel suo sguardo furbo e furtivo sembra sempre essere in cerca di qualcosa o di qualcuno. Sembra saperne una più del Diavolo.

29 luglio

Oggi io e Dom, un ragazzo belga che avevo conosciuto la sera prima, ci siamo incamminati verso una delle montagne di fronte al Gungthang Chörten, abbiamo passato il ponte di legno ricoperto di bandierine di preghiera, siamo arrivati dall’altra parte del fiume, siamo saliti sulla montagna e ci siamo seduti sull’erba al sole ammirando il panorama: i tetti dorati del monastero e del chörten e le basse case d’argilla dei monaci. Vicino a noi c’erano un uomo e una donna che sedevano in silenzio con i rosari in mano e abbiamo parlato un po’.

Dopo un po’ è arrivato un ragazzo e insieme a lui siamo saliti più in alto fino ad un boschetto di pini alti e sottili che s’innalzavano sopra un soffice tappeto di muschio. Siamo rimasti lì per un po’ in silenzio ad ascoltare il suono del vento, un sibilo dolce che faceva muovere le cime degli alberi.

“Prima qui non c’erano alberi.” Ha detto il ragazzo.

“Qui un giorno il lama di Labrang  si e rasato e ha sparso i suoi capelli che sono diventati alberi di pino.”

“Quest’anno se ne è andato, quindi ci sono meno fiori.”

“Perché non ci sono i falchi?” Ho chiesto.

“Perché ieri è morto uno del paese e i falchi stanno dall’altra parte della montagna, dove hanno portato il corpo.”

“Hanno già finito?” Ho detto io alludendo al funerale celeste.

“Non ancora, adesso i lama stanno recitando le scritture e impiegheranno ancora qualche giorno.”

Dopo un po’ siamo riscesi e la sera ho giocato a xiangqi (scacchi cinesi) con il padre di Dorje, il padrone del Labrang Monastery Resaurant.

(Labrang, estate 2000)

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Il Tibet

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Molte persone mi chiedono come sono finito in Tibet e le ragioni del mio interesse per questa terra e per le sue tradizioni. Noi occidentali amiamo chiederci infiniti perché e pretendiamo sempre di avere una risposta precisa per ogni domanda. Una volta mi trovavo a casa di Sangye Öser, un lama anziano di tradizione Jonangpa. Avevamo appena finito di mangiare e come al solito sedevo vicino a lui a parlare bevendo il tè. “Rinpoche, se io oggi sono qui a parlare con te cosa vuol dire? Chi ero nella mia vita precedente?” gli chiesi preso da quella curiosità e voglia di fare domande che gli occidentali e i cinesi spesso hanno quando non riescono a rilassarsi nella situazione così com’è. Lui mi rispose con la sua voce affettuosa e gentile: “Eri uno che seguiva l’insegnamento del Buddha” e poi disse: “Noi staremo insieme tutta la vita”.

Nel ’97 studiavo alla facoltà di Lingue Orientali, quello era il mio primo anno e al corso di lingua cinese non avevo ottenuto grandi risultati, ero sul punto di mollare quando decisi di partire per la Cina. Ero da solo e andavo a trovare degli amici che avevano appena terminato il corso estivo di cinese per poi viaggiare insieme. Questo paese mi piacque moltissimo e pochi mesi dopo ci tornai per studiare la lingua all’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Alla fine del corso, nel mese di luglio, i miei amici avevano progettato di fare un viaggio nello Xinjiang, e in Tibet, la terra dalle montagne più alte del mondo ma non ero tanto attratto, non mi piaceva viaggiare con tante persone e quei luoghi erano in quel momento lontani dalla mia idea di Cina, un paese che per me era ancora tutto da scoprire, preferivo viaggiare da solo e vedere altri posti. Avevo con me una guida della Cina che mi aveva regalato mia madre, la sfogliavo ripetutamente in cerca di mete da raggiungere, quando la mia attenzione fu catturata da poche righe stampate:

Da Lanzhou prendete un autobus di primo mattino e preparatevi a uno scomodo viaggio di 10 ore (260 km di strade di montagna). Xiahe si trova a un’altitudine di circa 3000 metri. Ma vale la pena di affrontare qualche fatica perché è un posto davvero stupendo! Vi sembrerà di essere in Tibet o, meglio ancora, nel paradiso della Cina!

La città di Lanzhou era il capoluogo del Gansu e a quell’epoca per arrivarci ci volevano circa 30 ore di treno da Pechino. Partii con un piccolo zaino sulle spalle, nel cuore provavo un sentimento di eccitazione e allo stesso tempo un senso di timore, timore per ciò che non conoscevo, a cui non ero preparato.

Partii non sapendo che Xiahe, quel “piccolo paradiso” che per me si trovava nel bel mezzo della Cina, era la città di Labrang. Labrang si trova nell’area dei pascoli intorno all’alto corso del fiume Sangchu nel Tibet nord-orientale, l’Amdo ed è qui che sorge il più grande monastero di quelle terre, Labrang Tashikyil. Quel viaggio avrebbe segnato per me un cambiamento profondo.

Attraversai una zona piuttosto arida: pianure punteggiate da filari di pioppi, montagne color ocra, dove crescevano solo pochi ciuffi d’erba. Quello che mi colpì di più fu la scarsa vegetazione e la mancanza d’acqua che caratterizzava quelle zone, dove l’agricoltura sembrava essere davvero difficile. Di tanto in tanto il treno si fermava in un villaggio dalle casette di mattoni, oppure in una città dai palazzi di cemento dove una o più ciminiere sputavano fumo nero. Fuori dal grigiore delle città, tutte dall’aspetto trasandato e squallido, i colori prevalenti erano l’azzurro del cielo e il giallo ocra della terra.

Arrivai a Lanzhou e poi a Xining e mi ritrovai immerso in quel mare di etnie che caratterizza l’attuale Cina dell’ovest: cinesi (han), dungani (hui), tibetani, salar, dongxiang, uighur, ecc. Lì, dopo gli han, la popolazione è costituita soprattutto dagli hui (in quegli anni i tibetani erano ancora pochi) e tra gli edifici religiosi prevalgono le moschee.

A Xining andai a visitare il monastero di Kumbum che sorge in una valle vicino alla città e dove nacque Lama Tsonkhapa, il grande maestro che fondò la scuola dei Gelugpa, “i virtuosi”. Quello fu il mio primo contatto con un monastero tibetano in Tibet. Per Pechino quello era il “far west”, quello che oggi sta tentando di sviluppare con slogan che echeggiano da tutti i media nazionali.

Tornato a Lanzhou presi un autobus per Labrang. All’epoca le strade erano molto più dissestate e il viaggio durava circa dieci ore (oggi con la nuova strada si impiegano tre ore e mezzo). Ad ogni centro abitato o villaggio continuavano a salire persone con grossi sacchi sporchi e pecore e molta gente sedeva su sgabellini di plastica bassissimi in mezzo al corridoio. C’erano parecchi hui con i loro copricapi bianchi. Passata Linxia, oltre il Chörten Karpo1 di Tumen Guan cominciarono a vedersi tibetani con il loro lunghi vestiti tradizionali.

Gli uomini portavano grandi cappelli a falda larga e le donne i capelli lunghi pettinati in una o due trecce. Man mano che si saliva lungo i tornanti delle montagne queste diventavano più verdi, il caldo afoso diventava fresca aria di montagna e il cielo grigio pieno di foschia di Lanzhou diventava un limpido cielo azzurro. Avevo l’impressione di salire verso il paradiso.

Labrang era diversa dalla Cina che avevo visto fino a quel momento: in effetti di cinese sembrava avere solo gli ideogrammi sui cartelli e la burocrazia. Alloggiavo nella parte alta della città alla Tara Guesthouse, di fronte alla khora2 del monastero e qui vedevo quasi esclusivamente tibetani. L’atmosfera era leggera, tutt’intorno si vedevano i profili ondulati delle montagne, nell’aria si sentiva il profumo del sang3 e si udiva un tintinnio di campanelli. Il sole brillava sui vestiti rossi dei monaci e su quelli variopinti dei pellegrini, dando anima a quei colori come per incanto.

Al ristorante del monastero incontrai Sebastiano, un ragazzo italiano che aveva passato lì molto tempo. Sebastiano era fidanzato con una ragazza del posto e parlava il cinese e il dialetto tibetano dell’Amdo. Inoltre aveva cominciato a studiare il Buddhismo e, per me, sapeva già molte cose. I racconti di Sebastiano, il fascino di quel luogo e della sua gente fecero nascere in me il desiderio di conoscere quella cultura, di comunicare con quelle persone usando la loro lingua. Il primo giorno avevo già imparato a salutare: “demo” e a ringraziare: “shata”.

Nei giorni successivi cominciai a studiare quella lingua con Lama4, un tibetano amico di Seba che parlava un po’ d’inglese. Mi annotavo le frasi su un block notes usando una traslitterazione fonetica improvvisata. Lama mi fece comprare un libro di lingua tibetana per bambini continuò a insegnarmi: mi assegnava dei compiti che controllava il giorno dopo e facevamo un po’ di conversazione.

Ogni giorno, facevo colazione al ristorante del monastero e studiavo. Dopo lo studio seguivo i pellegrini lungo la khora, la via che gira intorno al monastero. La khora di Labrang è di circa tre chilometri e perciò lungo la strada molti pellegrini mi facevano cenno di fermarsi a riposare. Ci sedevamo sulle pietre a ridosso della strada o, passato il vecchio ponte di legno sul Sangchu, salivamo sulla collina davanti al Gungthang Chörten e sedevamo sull’erba. Mi offrivano pane e frutta facendo dei grandi sorrisi. La nostra comunicazione avveniva a gesti, sguardi e sorrisi e ogni tanto qualche parola: “nyima tsage” (Il sole scotta) o “chö shage” (Sei bravo). Quando indicavano la mālā che avevo in mano, io recitavo prontamente: “Om Mani Padme Hum” e loro mi sorridevano e i loro occhi brillavano.

Volevo comunicare con quella gente cercando di avere un rapporto diverso da quello che ha di solito un turista. Molti di loro erano nomadi e pastori, le nostre vite erano così diverse e l’unica cosa che avevamo in comune era il percorrere quella via, la khora, che per me fu il primo giro della Ruota del Dharma.

Così mi avvicinai al Buddhismo ingenuamente, come per gioco, non conoscevo l’insegnamento e passavo molto tempo a circo-ambulare il monastero con i monaci e i pellegrini. Spesso venivo invitato dai monaci a prendere il tè e facevo delle piacevoli deviazioni lungo il percorso. La khora era un luogo di incontri e aveva un valore sociale oltre che religioso: qui si incontrava tutto il paese e si incontravano i pastori nomadi dei pascoli vicini e di quelli lontani.

Sono stati proprio quei pastori ad aprirmi il cuore…. a loro andrà sempre la mia riconoscenza.

Negli anni successivi sono tornato nuovamente a Pechino per perfezionare lo studio del cinese e ho compiuto molte altre escursioni in Tibet: nel Kham (Gyeltang e Dartsedo*) e soprattutto nell’Amdo (Mewa; Ngawa; Golok; Machu; Labrang e la zona del Sangchu; Rebkong*). Nell’inverno del 2000-2001 festeggiai a Labrang il primo capodanno, il più freddo che abbia mai trascorso. Quell’anno, l’anno del Serpente di Metallo, il losar cadde il 24 Gennaio e il primo giorno dell’anno fece una gran nevicata.

* A parte Labrang, gli altri sono nomi di aree più vaste e non di singoli centri abitati.

1Un chörten, “supporto per le offerte”, è un monumento che al suo interno conserva delle reliquie di esseri realizzati o/e testi buddhisti. Il suo nome sanscrito è stūpa. Il Chörten Karpo (lett. chorten bianco) si trova sulla strada che da Linxia porta a Labrang. Si pensa che questo fosse l’antico confine tra Cina e Tibet. Un anziano di Labrang mi ha riferito che qui i tibetani, tra tutte le altre merci, scambiavano i loro cavalli con il tè proveniente dalla Cina. I cinesi chiamano questo luogo Tu Men Guan, poco lontano dal chörten infatti si trova una porta con questo nome di recente costruzione (Labrang, 2005).

2 La khora è la strada percorsa dalla gente durante la circoambulazione rituale di un monastero, santuario o luogo sacro.

3 Il sang, offerta di fumo profumato effettuata bruciando ramoscelli di ginepro e altre sostanze. Cfr. Stein R. A. La Civiltà Tibetana , Torino: Einaudi 1986, p.178. Per una descrizione più dettagliata del culto del sang vedi Namkhai Norbu, Drung, Deu e Bön, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 1996, pp 193-197.

4 In questo caso Lama è un nome proprio.

Incontro con Amnye Mokri

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A Jangkya ero ospite a casa di Pema Tsering, un giovane ngakpa del villaggio. Io, Pema e i suoi famigliari stavamo tutti in cucina e guardavamo un documentario sugli oracoli di Nechung e Palden Lhamo, persone in cui discendevano queste divinità (tib.lhaba).

“Ce l’abbiamo anche qui.” Mi dissero.

“Tra qualche giorno la divinità della nostra montagna, Amnye Mokri discenderà tra la gente del villaggio.”

“Dove?”

“Nel santuario, lì si radunerà la gente del villaggio a rendergli omaggio e lui farà delle divinazioni”. Disse lo zio di Pema.

“A tutti?”

“No, solo a chi vuole. La gente che chiede la divinazione si farà farsi dei tagli sul viso con un coltello e ripagando l’oracolo con il proprio sangue.”

Lo zio di Pema, un uomo di grossa corporatura e dal viso largo, aveva un moderno taglio di capelli che teneva pettinati all’indietro e dei grandi occhiali quadrati. Trascorse qualche giorno, era pomeriggio e stavo seduto nella cucina della casa. Avevo passato ore seduto accanto alla stufa mangiando pane e sorseggiando tè con il latte come fa la gran parte degli uomini qui. Qualcuno, non ricordo chi, entrò e disse: “arriva!” La divinità, discesa nel corpo del lhaba, stava facendo il giro del villaggio.

Uscimmo tutti nel cortile della casa e ci fermammo ad aspettare….in lontananza si sentiva un suono di tamburi.

Le persone stavano in piedi con dei katak1 fra le mani ai lati del cortile. Io ero molto teso, sapevo che Amnye Mokri era una divinità mondana e ne avevo un po’ paura. La musica si fece a poco a poco più forte e improvvisamente entrò un gruppo di uomini. In mezzo a loro c’era il lhaba.

Era un uomo dalla testa rasata che danzava volteggiando al ritmo lento dei tamburi, aveva il volto contratto in una smorfia, gli occhi spiritati e uno strano ghigno: la sua era un’espressione di felicità mista ad ira. La gente gli offriva dei katak e le sue spalle ne erano già ricoperte. Dietro la sua schiena, legato ad un katak, era stretto un quadretto che raffigurava la divinità Amnye Mokri, quello che riuscii a scorgere fu l’immagine di un guerriero dal volto rosso. Gli uomini che lo accompagnavano si erano schierati tutt’intorno, suonavano e lanciavano grida di gioia, qualcuno di loro aveva in mano una bottiglia di bai jiu (grappa cinese) e ne versava un po’ in una tazza che veniva offerta ad Amnye Mokri e questo, mentre continuava la sua danza, ne beveva alcune sorsate. La cosa andò avanti per alcuni minuti, dopo di che il gruppo uscì per proseguire il suo giro intorno al paese entrando in ogni cortile.

“Ogni anno c’è un lhaba diverso o e sempre lo stesso?” Chiesi.

“Sempre lo stesso.”

“E’ un monaco?”

“No.”

Apprendo che il medium è un semplice abitante del villaggio come la gente che lo segue.

(Jangkya, Rebkong losar 2006)

Il video delle foto delle miei viaggi tra i ngakpa di Rebkong e Hongyuan nel 2005-2006 è qui.

1Sciarpa rituale di seta o materiali sintetici.

Padmasambhava sconfigge il demone

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Un pomeriggio Pokhwa Gyap (un ngakpa del villaggio) mi invita da lui, sediamo nel cortile di casa al sole su degli sgabellini di legno e beviamo tè e sidro alla frutta. Mi offre un grosso pezzo di carne bollita, da tagliare col coltello e delle pere maturate al sole.

“Mangia sono buone, sono una specialità del posto.”

Ne addento una con un po’ di esitazione perché è maturata a tal punto da diventare scura e grinzosa…..è freddissima ma dolce e succosa.

In Tibet il freddo invernale viene mitigato durante il giorno dalla forte luce del sole e, imbacuccato come ero, avrei potuto star seduto lì delle ore. Mi avevano detto che a Rebkong era apparso Padmasambhava e uno di quei luoghi era proprio vicino a Jangkya.

Pokkhwa Gyap si offre di portarmici, rimango ancora un po’ seduto a parlare con lui, la moglie e le bambine: la più grande conosce qualche parola d’inglese ma è molto timida e parla poco. Dopo un po’ usciamo e ci incamminiamo per una ripida stradina che si inoltra tra le case e scende alla sponda del Guchu, poco lontano. Il fiume è in gran parte ghiacciato e lo passiamo facilmente, Pokhwa Gyap è molto premuroso e mi sostiene durante tutto il percorso, poggia sempre per primo i piedi sul ghiaccio per assicurarsi che non ceda e poi mi invita a camminare seguendo le sue “orme sicure”. Oltre il fiume attraversiamo dei campi brulli e polverosi che di lì a poco sarebbero stati coltivati e arriviamo a una strada cosparsa di sassi che sale verso nord.

“E’ là”.

Di fronte a noi, sul ciglio della strada, Pokkhwa Gyap mi indica una grande masso con una forma strana. Avvicinatosi di più alla pietra si inginocchia tre volte toccando con la fronte il terreno e io mi inginocchio dopo di lui.

“Qui Padmasambhava ha ucciso la sinmo.”

L’impronta del corpo del demone è impressa nella roccia.

“Questa è la testa……” dice cercando di farmi capire e poi simula la posizione mettendosi sdraiato su un fianco.

Qui infatti Guru Padmasambhava uccise una feroce sinmo che vagava in questa parte della valle. Rimaniamo un po’ di tempo seduti vicino alla pietra a parlare. Gli chiedo se ha terminato il ngöndro, le pratiche preliminari del Vajrayana, e lui mi dice che le ha completate due volte. Gli domando quale lignaggio Nyingmapa segua e lui risponde che ha ricevuto le trasmissioni sia del lignaggio di Mindröling che di quello del Longchen Nyingthig.

Restiamo per un po’ fermi in silenzio a osservare il panorama e ad ascoltare il sibilo del vento….poi ritorniamo sui nostri passi in direzione di Jangkya.

(Jangkya, Rebkong losar 2006)

Il video delle foto delle miei viaggi tra i ngakpa di Rebkong e Hongyuan nel 2005-2006 è qui.

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I lha, gli nyan e i lu

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Stiamo percorrendo una strada nuova, come mi è già capitato di vedere in Tibet, lungo le strade che salgono all’interno di strette gole, ampie zone della valle sono state sommerse  e sono state costruite dighe per la produzione di energia elettrica. In questa zona il Fiume Giallo è diventato lago che si estende tra le montagne,  limpido, calmo e profondo.

“Pensi che questo cambiamento abbia portato dei miglioramenti o dei peggioramenti?” chiedo a Xiao Ma, l’autista hui che mi sta portando a Rebkong.

“Dei miglioramenti. La gente del posto dispone di più energia elettrica a un costo più basso.”

“Tutta quest’acqua non influenzerà negativamente l’agricoltura e l’ambiente?”

“No, con più acqua la zona è diventata più umida e questo compensa la siccità favorendo le coltivazioni.”

Forse è vero che ci sono stati dei miglioramenti ma le frane, le sempre più frequenti inondazioni nella Cina continentale, le precipitazioni anomale, i tifoni e altre calamità mi fanno pensare che la visione di Ma, come quella della maggior parte delle persone, sia solo a breve termine e che non tenga conto della stretta relazione di interdipendenza che lega i vari fattori ambientali.

Al contrario i Tibetani hanno sempre dato molta importanza al rispetto della natura, il cui equilibrio non doveva mai essere alterato, in essa infatti dimorano delle entità invisibili, dei genii loci, la maggior parte dei quali non sempre amichevole. Essi infatti sono spesso infastiditi dall’atteggiamento prepotente e indiscriminato dell’uomo nei confronti della natura, che costituisce la loro ‘casa’, e possono reagire causando malattie e calamità naturali di vario genere. In questo contesto l’uomo non è padrone ma ‘ospite’ e come tale deve comportarsi secondo delle norme ben precise di ‘convivenza pacifica’.

Queste entità possono essere suddivise (secondo una classificazione più semplice) in lha, nyan e lu. Secondo Trungpa Rinpoche i lha dimorano sulle vette delle montagne innevate, nel punto dove la terra è più vicina al cielo e dove per prima batte la luce del sole quando sorge.

Gli nyan abitano invece lo spazio intermedio: i versanti delle montagne con le loro rocce e le loro foreste e la superficie della terra con le sue pianure e distese erbose.

I lu hanno come casa gli oceani, i fiumi, i grandi laghi: tutto il regno dell’acqua e del sottosuolo. Tagliare alberi, rimuovere pietre sacre e scavare i fianchi delle montagne o il suolo, inquinare le risorse idriche, deviare il corso dei fiumi con degli argini o drenare l’acqua per mezzo di canali, compiere lavori in muratura o costruire edifici in genere, ecc. causano la vendetta di questi e di molti altri esseri non umani. Oggi in Tibet come nel resto della Cina stanno avvenendo molti lavori di modernizzazione che, in un’ottica a breve termine, sicuramente, in una certa misura, porteranno alcuni benefici ma, in questa selvaggia corsa allo sviluppo, si sta tenendo poco conto dell’impatto che tutto questo sta avendo sull’ambiente e delle relative conseguenze. Oggi la maggior parte delle persone non crede all’esistenza di queste entità e pensa che siano solo frutto della fantasia dei tibetani ma che queste ci credano o no, si troveranno poi a subirne le conseguenze.

(Rebkong, losar 2006)

Il video delle foto delle miei viaggi tra i ngakpa di Rebkong e Hongyuan nel 2005-2006 è qui.