Il Tibet

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Molte persone mi chiedono come sono finito in Tibet e le ragioni del mio interesse per questa terra e per le sue tradizioni. Noi occidentali amiamo chiederci infiniti perché e pretendiamo sempre di avere una risposta precisa per ogni domanda. Una volta mi trovavo a casa di Sangye Öser, un lama anziano di tradizione Jonangpa. Avevamo appena finito di mangiare e come al solito sedevo vicino a lui a parlare bevendo il tè. “Rinpoche, se io oggi sono qui a parlare con te cosa vuol dire? Chi ero nella mia vita precedente?” gli chiesi preso da quella curiosità e voglia di fare domande che gli occidentali e i cinesi spesso hanno quando non riescono a rilassarsi nella situazione così com’è. Lui mi rispose con la sua voce affettuosa e gentile: “Eri uno che seguiva l’insegnamento del Buddha” e poi disse: “Noi staremo insieme tutta la vita”.

Nel ’97 studiavo alla facoltà di Lingue Orientali, quello era il mio primo anno e al corso di lingua cinese non avevo ottenuto grandi risultati, ero sul punto di mollare quando decisi di partire per la Cina. Ero da solo e andavo a trovare degli amici che avevano appena terminato il corso estivo di cinese per poi viaggiare insieme. Questo paese mi piacque moltissimo e pochi mesi dopo ci tornai per studiare la lingua all’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Alla fine del corso, nel mese di luglio, i miei amici avevano progettato di fare un viaggio nello Xinjiang, e in Tibet, la terra dalle montagne più alte del mondo ma non ero tanto attratto, non mi piaceva viaggiare con tante persone e quei luoghi erano in quel momento lontani dalla mia idea di Cina, un paese che per me era ancora tutto da scoprire, preferivo viaggiare da solo e vedere altri posti. Avevo con me una guida della Cina che mi aveva regalato mia madre, la sfogliavo ripetutamente in cerca di mete da raggiungere, quando la mia attenzione fu catturata da poche righe stampate:

Da Lanzhou prendete un autobus di primo mattino e preparatevi a uno scomodo viaggio di 10 ore (260 km di strade di montagna). Xiahe si trova a un’altitudine di circa 3000 metri. Ma vale la pena di affrontare qualche fatica perché è un posto davvero stupendo! Vi sembrerà di essere in Tibet o, meglio ancora, nel paradiso della Cina!

La città di Lanzhou era il capoluogo del Gansu e a quell’epoca per arrivarci ci volevano circa 30 ore di treno da Pechino. Partii con un piccolo zaino sulle spalle, nel cuore provavo un sentimento di eccitazione e allo stesso tempo un senso di timore, timore per ciò che non conoscevo, a cui non ero preparato.

Partii non sapendo che Xiahe, quel “piccolo paradiso” che per me si trovava nel bel mezzo della Cina, era la città di Labrang. Labrang si trova nell’area dei pascoli intorno all’alto corso del fiume Sangchu nel Tibet nord-orientale, l’Amdo ed è qui che sorge il più grande monastero di quelle terre, Labrang Tashikyil. Quel viaggio avrebbe segnato per me un cambiamento profondo.

Attraversai una zona piuttosto arida: pianure punteggiate da filari di pioppi, montagne color ocra, dove crescevano solo pochi ciuffi d’erba. Quello che mi colpì di più fu la scarsa vegetazione e la mancanza d’acqua che caratterizzava quelle zone, dove l’agricoltura sembrava essere davvero difficile. Di tanto in tanto il treno si fermava in un villaggio dalle casette di mattoni, oppure in una città dai palazzi di cemento dove una o più ciminiere sputavano fumo nero. Fuori dal grigiore delle città, tutte dall’aspetto trasandato e squallido, i colori prevalenti erano l’azzurro del cielo e il giallo ocra della terra.

Arrivai a Lanzhou e poi a Xining e mi ritrovai immerso in quel mare di etnie che caratterizza l’attuale Cina dell’ovest: cinesi (han), dungani (hui), tibetani, salar, dongxiang, uighur, ecc. Lì, dopo gli han, la popolazione è costituita soprattutto dagli hui (in quegli anni i tibetani erano ancora pochi) e tra gli edifici religiosi prevalgono le moschee.

A Xining andai a visitare il monastero di Kumbum che sorge in una valle vicino alla città e dove nacque Lama Tsonkhapa, il grande maestro che fondò la scuola dei Gelugpa, “i virtuosi”. Quello fu il mio primo contatto con un monastero tibetano in Tibet. Per Pechino quello era il “far west”, quello che oggi sta tentando di sviluppare con slogan che echeggiano da tutti i media nazionali.

Tornato a Lanzhou presi un autobus per Labrang. All’epoca le strade erano molto più dissestate e il viaggio durava circa dieci ore (oggi con la nuova strada si impiegano tre ore e mezzo). Ad ogni centro abitato o villaggio continuavano a salire persone con grossi sacchi sporchi e pecore e molta gente sedeva su sgabellini di plastica bassissimi in mezzo al corridoio. C’erano parecchi hui con i loro copricapi bianchi. Passata Linxia, oltre il Chörten Karpo1 di Tumen Guan cominciarono a vedersi tibetani con il loro lunghi vestiti tradizionali.

Gli uomini portavano grandi cappelli a falda larga e le donne i capelli lunghi pettinati in una o due trecce. Man mano che si saliva lungo i tornanti delle montagne queste diventavano più verdi, il caldo afoso diventava fresca aria di montagna e il cielo grigio pieno di foschia di Lanzhou diventava un limpido cielo azzurro. Avevo l’impressione di salire verso il paradiso.

Labrang era diversa dalla Cina che avevo visto fino a quel momento: in effetti di cinese sembrava avere solo gli ideogrammi sui cartelli e la burocrazia. Alloggiavo nella parte alta della città alla Tara Guesthouse, di fronte alla khora2 del monastero e qui vedevo quasi esclusivamente tibetani. L’atmosfera era leggera, tutt’intorno si vedevano i profili ondulati delle montagne, nell’aria si sentiva il profumo del sang3 e si udiva un tintinnio di campanelli. Il sole brillava sui vestiti rossi dei monaci e su quelli variopinti dei pellegrini, dando anima a quei colori come per incanto.

Al ristorante del monastero incontrai Sebastiano, un ragazzo italiano che aveva passato lì molto tempo. Sebastiano era fidanzato con una ragazza del posto e parlava il cinese e il dialetto tibetano dell’Amdo. Inoltre aveva cominciato a studiare il Buddhismo e, per me, sapeva già molte cose. I racconti di Sebastiano, il fascino di quel luogo e della sua gente fecero nascere in me il desiderio di conoscere quella cultura, di comunicare con quelle persone usando la loro lingua. Il primo giorno avevo già imparato a salutare: “demo” e a ringraziare: “shata”.

Nei giorni successivi cominciai a studiare quella lingua con Lama4, un tibetano amico di Seba che parlava un po’ d’inglese. Mi annotavo le frasi su un block notes usando una traslitterazione fonetica improvvisata. Lama mi fece comprare un libro di lingua tibetana per bambini continuò a insegnarmi: mi assegnava dei compiti che controllava il giorno dopo e facevamo un po’ di conversazione.

Ogni giorno, facevo colazione al ristorante del monastero e studiavo. Dopo lo studio seguivo i pellegrini lungo la khora, la via che gira intorno al monastero. La khora di Labrang è di circa tre chilometri e perciò lungo la strada molti pellegrini mi facevano cenno di fermarsi a riposare. Ci sedevamo sulle pietre a ridosso della strada o, passato il vecchio ponte di legno sul Sangchu, salivamo sulla collina davanti al Gungthang Chörten e sedevamo sull’erba. Mi offrivano pane e frutta facendo dei grandi sorrisi. La nostra comunicazione avveniva a gesti, sguardi e sorrisi e ogni tanto qualche parola: “nyima tsage” (Il sole scotta) o “chö shage” (Sei bravo). Quando indicavano la mālā che avevo in mano, io recitavo prontamente: “Om Mani Padme Hum” e loro mi sorridevano e i loro occhi brillavano.

Volevo comunicare con quella gente cercando di avere un rapporto diverso da quello che ha di solito un turista. Molti di loro erano nomadi e pastori, le nostre vite erano così diverse e l’unica cosa che avevamo in comune era il percorrere quella via, la khora, che per me fu il primo giro della Ruota del Dharma.

Così mi avvicinai al Buddhismo ingenuamente, come per gioco, non conoscevo l’insegnamento e passavo molto tempo a circo-ambulare il monastero con i monaci e i pellegrini. Spesso venivo invitato dai monaci a prendere il tè e facevo delle piacevoli deviazioni lungo il percorso. La khora era un luogo di incontri e aveva un valore sociale oltre che religioso: qui si incontrava tutto il paese e si incontravano i pastori nomadi dei pascoli vicini e di quelli lontani.

Sono stati proprio quei pastori ad aprirmi il cuore…. a loro andrà sempre la mia riconoscenza.

Negli anni successivi sono tornato nuovamente a Pechino per perfezionare lo studio del cinese e ho compiuto molte altre escursioni in Tibet: nel Kham (Gyeltang e Dartsedo*) e soprattutto nell’Amdo (Mewa; Ngawa; Golok; Machu; Labrang e la zona del Sangchu; Rebkong*). Nell’inverno del 2000-2001 festeggiai a Labrang il primo capodanno, il più freddo che abbia mai trascorso. Quell’anno, l’anno del Serpente di Metallo, il losar cadde il 24 Gennaio e il primo giorno dell’anno fece una gran nevicata.

* A parte Labrang, gli altri sono nomi di aree più vaste e non di singoli centri abitati.

1Un chörten, “supporto per le offerte”, è un monumento che al suo interno conserva delle reliquie di esseri realizzati o/e testi buddhisti. Il suo nome sanscrito è stūpa. Il Chörten Karpo (lett. chorten bianco) si trova sulla strada che da Linxia porta a Labrang. Si pensa che questo fosse l’antico confine tra Cina e Tibet. Un anziano di Labrang mi ha riferito che qui i tibetani, tra tutte le altre merci, scambiavano i loro cavalli con il tè proveniente dalla Cina. I cinesi chiamano questo luogo Tu Men Guan, poco lontano dal chörten infatti si trova una porta con questo nome di recente costruzione (Labrang, 2005).

2 La khora è la strada percorsa dalla gente durante la circoambulazione rituale di un monastero, santuario o luogo sacro.

3 Il sang, offerta di fumo profumato effettuata bruciando ramoscelli di ginepro e altre sostanze. Cfr. Stein R. A. La Civiltà Tibetana , Torino: Einaudi 1986, p.178. Per una descrizione più dettagliata del culto del sang vedi Namkhai Norbu, Drung, Deu e Bön, Arcidosso: Shang Shung Edizioni 1996, pp 193-197.

4 In questo caso Lama è un nome proprio.

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