Stasera ho attraversato Nathan Road proseguendo lungo Jordan Road fino all’ingresso di Temple Street dove mi sono fermato a mangiare in un negozio una specie di porridge dolce con dei legumi. Temple Street (Miao Jie) è una via famosissima che da Austin Road taglia Jordan Road e arriva a Yao Ma Tei dove c’è il vecchio tempio di Tin Hou, l’Imperatrice del Cielo.
Mentre proseguivo lungo la via, una bella signora ben vestita mi ha rivolto la parola dandomi dei volantini e chiedendomi se sapevo che Gesù Cristo mi amava e voleva per me la salvezza eterna nel Paradiso. Ho capito subito che era una missionaria ma ho voluto ascoltarla dandole il dono dell’ascolto permettendole così di compiere la sua buona azione. Il suo inglese era quasi perfetto sembrava solo avere un lieve accento di Hongkong ma ascoltandola con più attenzione di tanto in tanto riuscivo a cogliere anche un leggero accento coreano. Alla mia domanda se era coreana ha risposto di sì ma che viveva a Hong Kong da tanti anni dove aveva studiato il Vangelo.
Parlava con il cuore, era una grande oratrice e l’ascoltavo con piacere, soprattutto qui nel centro di Hong Kong dove il contatto umano tra persone che non si conoscono è pressoché inesistente e, quando c’è, è quasi sempre per qualcosa di funzionale come pagare qualcosa o chiedere un informazione. Gli unici che ti parlano per strada sono gli indiani, pakistani e bangladeshi vicino alla Chungking Mansion, lungo Nathan Road che ti vogliono vendere vari tipi di droghe, sempre con la loro cortesia e gli occhi dolci come se ti stessero vendendo i dolcetti della nonna. “Sir! Where are you going? Do you want something Sir?” Oppure che ti vogliono vendere orologi o portare dal loro tailor ma forse alla fine ti chiedono anche se vuoi quel something.
Altri sono un po’ meno discreti: “Hashish? Opium?” Alcuni fanno direttamente il gesto della sniffata ma alla fine rimangono sempre tutti d’un pezzo e ti fanno un sorriso come se fosse stato tutto uno scherzo a cui tu avevi creduto. Come gli incantatori di serpenti i loro occhi sono magnetici. Gli altri che cercano il contatto per strada, a quanto pare, sono gli evangelizzatori, mentre il resto della gente di Hong Kong si muove roboticamente sui marciapiedi, sulle strisce pedonali e nelle stazioni della metro (MTR), guardano avanti, per terra o lo schermo del cellulare, comunque cercano di evitare qualsiasi tipo di contatto.
I loro movimenti sono lineari e veloci e sono scanditi da bip e click, insomma tutto è inumanamente efficiente. Si muovono tutti senza fermarsi, sembra che fermarsi sia negativo, quasi proibito. Così quando mi fermo e mi guardo intorno senza guardare uno smartphone, mi guardano con sospetto forse pensando che sia un tipo losco, ma qui ragionano come nei menù fissi di Mac Donald, se non è il N.1 è il N.2, quindi forse penseranno che sia un indiano o un evangelizzatore.
Ecco forse perché la sera vedi quegli stessi indiani bere birre e altri alcolici ai lati della strada o nei Seven Eleven, con faccie depresse e alienate. Loro, abituati a casa a sorseggiare lentamente il loro chai e a guardare film di Bollywood, dove tutto gira intorno ai sentimenti e alla passione, in un posto dove il contatto umano è visto con sospetto e, a volte, percepito come una minaccia. “Pyar” amore , “musti”, “pagel” pazzo, “diwana” folle, cantano le loro canzoni.
Proprio a un gruppo di loro in un Seven Eleven ho cantato alcune di queste canzoni regalandogli più gioia in dieci minuti di quella indotta da i loro svariati alcolici in non so quanto tempo e per questo sono finito anche su Facebook.
A volte quello di cui la gente ha più bisogno è ascolto, uno sguardo o un sorriso sincero che li faccia sentire umani e, se non siamo in grado di darglieli, siamo noi poveri, poveri che corrono dietro al denaro, quindi siamo noi i veri mendicanti.
La stessa cosa del Seven Eleven è accaduta ieri sera in un pub a Lan Kuai Fang, quando ho cantato le stesse canzoni ai camerieri, un indiana e due nepalesi. Abbiamo cantato insieme ed erano così contenti che ci hanno offerto da bere, dicendo che pagava la casa. A Hong Kong si trova tutto ma la felicità non sembra essere un bene di consumo, altrimenti molti ricchi l’avrebbero già comprata.
A Hong Kong le panchine sono pochissime e di quelle poche che ci sono, alcune, come quelle dietro Yao Ma Tei, sono scomode della grandezza di una sedia con vicino scritto ” Area di Riposo Temporaneo” per scoraggiare ogni idea di lunga permanenza, le piazze sono praticamente inesistenti e la maggior parte della vita sociale si svolge in luoghi dove si deve spendere soldi: bar, ristoranti e shopping centres ma, per via dell’afflusso continuo di gente, ci si deve alzare e cedere il posto dopo poco tempo quindi si è costretti a rimettersi in moto o consumare nuovamente.
Gli unici luoghi dove si può stare a lungo sono le catene internazionali come Mac Donald e Starbucks (anche Starbuks però qui non ha i soliti divanetti e poltroncine, i tavoli sono più piccoli, concede solo 30 minuti di Wi-Fi per ogni consumazione e ha pochissime prese per la corrente).
Dopo il freddo degli ultimi giorni è uscito il sole e finalmente io e Donald, un mio amico scozzese che ha girato il mondo in bicicletta e che ora insegna inglese a Chengdu, abbiamo trovato rifugio dal caos e dallo stress cittadino in una piccolissima oasi di verde in mezzo a questa giungla di cemento: il Kowloon Park.
Qui siamo rientrati in contatto con quella che dovrebbe essere la vera casa dell’essere umano: la natura. Per la prima volta dopo tanto tempo abbiamo potuto riposare lo sguardo dagli infiniti logo, brand e pubblicità di cui la città è sommersa e che dopo un po’ ti fanno girare la testa (una specie di Sindrome di Stendhal per i Brand), abbiamo passeggiato all’ombra degli alberi, riascoltato il cinguettio degli uccelli, rivisto la gente camminare piano e non in preda alla frenesia come al solito ma soprattutto, dopo tanto tempo ci siamo potuti sedere e rimanere seduti senza consumare o spendere niente.
Camminando lentamente ci siamo avvicinati ad una piazzetta circolare vicino ad una delle uscite del parco e ci siamo seduti al sole sul basso muretto che circonda l’aiuola al centro della piazza. Donald vi si è sdraiato sopra e io gli ho detto scherzando che forse stavamo facendo qualcosa di illegale. “È un giorno così bello, che importa!” Mi ha risposto.
Pensando che avesse ragione è che sarebbe stato bello concedersi un riposo in questa città che non dorme e non si ferma mai, mi sono sdraiato anch’io sotto il sole come un rettile e ho chiuso gli occhi rilassandomi finalmente un attimo. Dopo neanche due minuti una donna inserviente del parco si è avvicinata: “Non si può dormire, si può solo sedere!”
“Ma come? In un giorno di sole così bello!” Le ha risposto Donald.
“Questa è la regola” Ha risposto lei ma in fondo sembrava capirci.
Siamo ancora qui e seguiamo la regola, non dormiamo ma il lato positivo è che almeno stiamo seduti senza fare o comprare niente. Solo semplicemente seduti.


grazie di condividere tanto e di dare luce alla tua sensibilità con i tuoi incontri e racconti! ❤
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Grazie Roxy, il tuo è il primo commento del 2016. È di buon auspicio! Continuerò:)
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