5 Febbraio 2016
Era notte inoltrata, stavo in piedi vicino ad un indian kebab in un’affollata zona di bar e pub quando mi si è avvicinata una piccola signora indiana chiedendomi se poteva parlare con me. Aveva il viso scavato e rugoso ma degli occhi grandi pieni di vitalità come quelli di una bambina. Mi disse di chiamarsi Sujaya (ho pensato fosse stato meglio cambiarne il nome).
Come quasi tutte le persone del subcontinente indiano, Sujaya era molto comunicativa e riusciva facilmente a catturare i suoi interlocutori con note giocose di gioia e solennità. Io ero stanco di stare in piedi, Sujaya nel frattempo si era avvicinata a Sunny, il bengalese che lavorava all’indian kebab, e stava tornando verso di me con una bottiglia di un qualche cocktail alla vodka. Ci spostammo in un piccolo spiazzo all’ombra delle fioche luci elettriche, su una panchina di legno circondata da bottiglie di vetro vuote. Davanti a noi c’era un ininterrotto viavai di ragazzi in camicia e pantaloni e ragazze in minigonna e scarpe coi tacchi, molti dei quali già barcollavano, si trascinavano o venivano trascinati in avanti per effetto dell’alcol.
Non nascondo di essere venuto anche io lì con il desiderio di conoscere delle ragazze e parlare con quella piccola signora per la mia “piccola mente” era un allontanarmi da quel “obbiettivo”.
Quasi sempre infatti i desideri che formuliamo nella nostra mente non corrispondono a quello che vogliamo profondamente.
La vita, come un grande specchio, manifesta a noi quello di cui abbiamo veramente bisogno in quel preciso momento.
Insomma i nostri desideri non vengono esauditi come quelli del genio della lampada, almeno non nella maniera e nei tempi in cui le nostre menti limitate si aspettano.
Quella notte, quella piccola signora indiana era la mia manifestazione e sicuramente era lì per insegnarmi qualcosa, qualcosa che spesso è al di là delle parole.
Sujaya cominciò a raccontarmi in modo non lineare storie e aneddoti della sua vita e io cercai di ascoltarla profondamente abbandonando ogni altro pensiero.
Nel corso della narrazione di tanto in tanto faceva delle pause, guardava davanti a sé, sorseggiava il suo cocktail alla vodka ed ecco che improvvisamente la sua voce tuonava e mostrava lo sguardo coraggioso e la dignità di una tigre. Come me, anche a lei piaceva rapportarsi alle persone in modo diretto, parlando del più e del meno. Anche lei, come me, era un’osservatrice, una cantastorie.
Sono sempre stato attratto dalle storie della gente comune, vite di gente piccola e ordinaria, che vive e lascia un contributo per il solo fatto di essere sé stessa e, senza pretese e troppe ambizioni, si muove silenziosamente nei tanti retroscena della vita, invisibile agli occhi di chi cerca il grande. Vite nobili nella loro insignificante unicità, vite minute e graziose, quelle che Acheng chiama vite minime.

L’Arrivo a Hong Kong e i viaggi in altri paesi dell’Asia
Sujaya era nata a Lahore, in Pakistan. Suo padre faceva il pilota di aerei così lei era venuta a Hong Kong da ragazza con la famiglia e aveva studiato a Macau. Era cristiana e diceva che Dio era lo stesso per tutti anche se con nomi diversi, per i cristiani, musulmani, buddhisti e indù e non le piacevano le persone prepotenti con menti ristrette.
Era stata in tanti paesi dell’Asia ma per lei Hong Kong era il posto migliore. Infatti diceva che, anche se il costo della vita era alto, se lavoravi molto potevi guadagnare molto, che il sistema legislativo era buono come in Gran Bretagna e che la polizia non era corrotta come in Pakistan e in Malaysia. Nel corso degli anni era tornata più volte in Pakistan a Lahore ma non sarebbe voluta tornare a viverci per via della mancanza di un sistema legislativo valido che tutelasse la popolazione.
Sembrava però capire la corruzione dei poliziotti del suo paese quando diceva che erano troppo poveri e che le loro famiglie erano numerose. Nelle sue parole c’era quasi un tono di complicità.
Quando le chiesi com’era la Malaysia, mi rispose che lì la sicurezza non era buona. Gli dissi di farmi un esempio e lei rispose che una volta era stata scippata per strada.
Diceva che a Singapore, per quanto in certi aspetti simile ad Hong Kong, si guadagnava troppo poco rispetto al costo della vita.
“A Hong Kong se non ti vai a cercare problemi non hai problemi.” Affermava con tono deciso.
“Hong Kong è il posto migliore!”

Dio, fantasmi e fatture: il ruggito della tigre.
Come la maggior parte delle indiane a Sujaya piaceva parlare di Dio, dei fantasmi e della magia ma il suo atteggiamento verso queste cose era attivo, aveva come un fuoco che ardeva dentro di lei e bruciava ogni ostacolo.
“Qualcuno ha paura dei fantasmi io no, cosi gli dico: perché hai paura? Una notte in un bagno pubblico ne ho visto uno. Era una signora di mezza età che mi ha sorriso e poi, quando mi sono girata, non c’era più. Sono uscita ma non c’era nessuno. Un’altra volta ho visto uno scheletro azzurro vestito elegante e gli ho detto: ciao! Dove vai?” Pronunciò queste ultime parole con grande veemenza e poi scoppio a ridere.
“Non ho paura, se hai paura vincono loro!” Diceva con la profonda convinzione di chi ha realizzato quello di cui sta parlando.
“Quando li vedo li colpisco con una ciabattata in testa e loro spariscono.”
Ho pensato che dicesse così forse perché con il caldo a Hong Kong vanno tutti in giro in ciabatte. Comunque io non avrei avuto lo stesso sangue freddo infatti da piccolo, e non solo da piccolo, dormivo sempre con una luce accesa proprio per tenere lontani i mostri o i fantasmi.
Poi Sujaya cominciò a raccontare di come una volta la moglie del suo capo, un’indiana, gelosa delle attenzioni del marito verso di lei, le avesse fatto una fattura mettendole qualcosa nel cibo e di come lei, dopo aver finito di mangiare il pasticcio incantato, le avesse detto in tono di scherno: “Tu hai tanti dei! (Infatti la donna era musulmana e credeva in un solo dio ma Sujaya intendeva gli dei della magia nera). Non mi potrai fare niente!”
Mi confessò che una volta anche lei aveva usato la magia per conquistare un uomo di cui era innamorata ma che poi aveva lasciato perdere. Incuriosito le chiesi come facesse a durare un qualcosa basato su un trucco magico e lei mi ripose con semplicità, con quel suo inglese dall’accento indiano, che bastava andare ogni sei mesi dal mago e pagarlo per rifare la magia, tutto qui.
“Queste cose come la magia nera esistono ma chi le usa riceverà una punizione da Dio in questa stessa vita, non dopo.” Diceva con il suo fervore. Capivo perfettamente quello che voleva dire, per me quel suo Dio era una forma personalizzata della realtà assoluta e del karma.
“Sei sposata?” Chiesi.
“No, non mi sono mai sposata. Una volta mi piaceva un uomo in Pakistan, io vivevo a Londra e gli mandavo i soldi ma poi ho capito che lui era interessato solo a quelli.
“E poi?”
“Poi ho saputo che andava da un mago per far sì che io continuassi a stare con lui così sono andata da un mago anch’io e ho interrotto la relazione.”
I venditori di biscotti
Sujaya inoltre mi confermò che quei poveri indiani, pakistani e bangladeshi che avevo visto per la strada giorni prima e che sembravano vendere i biscotti della nonna erano solo pesci piccoli e che i grandi boss erano locali.
“A Hong Kong ci sono tanti trafficanti di droga e il governo li protegge, altrimenti come farebbero ad esserci così tante persone ricchissime con macchine di lusso.” (Visto che Hong Kong è uno dei più importanti porti del mondo questo potrebbe anche essere vero).
Sujaya forse alludeva alle tante Porsche, Ferrari e Lamborghini che si vedono in città. Sfrecciano rombando nella notte per quelle vie strette ma ahimè! I proprietari possono sfogare quel loro desiderio di libertà solo da un semaforo all’altro, tra un verde e un rosso.
Insomma come accadeva nel passato in Cina, i mercanti sono locali ma i cavalli e le spezie sono stranieri.
Le storie di Sujaya erano divertenti e piene di quella passione e giocosità che non avevo trovato al mio arrivo ad Hong Kong. Ma tra i tanti segreti che Sujaya mi aveva svelato, per uno come me, dal forte spirito bucolico, amico di Orazio e Virgilio, uno è stato quello più prezioso e per questo l’ho lasciato per ultimo.
Raccontai a Sujaya la mia delusione riguardo al fatto che a Hong Kong non si potesse stare seduto a lungo in un ristorante e che non si potesse dormire sulle panchine o nei parchi e lei mi diede la chiave e cioè che bastava prendere il cibo, il tè o il caffè takeaway e sedersi in un parco. “Così te la puoi prendere con calma e stare quanto vuoi.”
“Non c’è problema! Puoi tranquillamente dormire sulle panchine, se qualcuno ti dice qualcosa fregatene. Digli: io non vado via, andate via voi.”
Mi raccontò poi di come, quando lei si metteva a dormire sulle panchine e arrivava la polizia, alzasse la voce e li facesse andar via.
“Non ho paura di niente! Solo di Dio!” Diceva guardandomi con il suo sguardo di tigre e le movenze di un pirata dei sette mari.
“Se hai paura vincono loro!”
Era questo forse l’essenza dell’insegnamento di Sujaya? Non so, forse la prossima volta che mangerò un bel panino con prosciutto cotto e formaggio all’ombra di un albero mi verrà in mente qualcosa. Qui non vendono panini con la mortadella.

Si, li vendono a pochi passi da dove ti trovavi tu! Vai ad Admiralty, comprane uno e ti sembrerà ancora più interessante quello che ti racconta la gente!
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Buono a sapersi, la mia rivelazione è più vicina! Grazie! 😄
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