Questa mattina ci siamo alzati alle quattro e da Serta siamo partiti per Ta’u (cin. Daofu). L’autista era un tibetano dalla faccia rotonda di piccola statura con un taglio di capelli con la riga che mi ricordava quello di un mio amico turkmeno.
In macchina c’erano alcuni cinesi: un uomo di mezza età con gli occhiali e l’accento del nord, due sorelle di Ziyang, un tipo del Guangxi molto entusiasta che faceva agli altri discorsi sul buddhismo, sulle vite precedenti e future e sul sedile davanti era seduta una ragazza alta dai capelli lunghi, silenziosa e pallida che soffriva il mal di macchina.
Ci siamo fermati a Luhuo (tib. Dranggo) per una breve colazione in uno dei tanti mian guan, negozi di noodles ai lati della strada. Il tipo del Guangxi sgranocchiava contento del pane fritto tibetano durissimo cercando di offrirlo a chi gli stava intorno. Dopo un po’ siamo ripartiti arrivando a Ta’u verso le nove.
Ta’u è una piccola cittadina dell’altopiano tibetano ma la bassa altitudine, i campi coltivati, il verde e gli alberi che la circondano non gli fanno avere quel aspetto di polverosa città del far west come se ne vedono tante soprattutto nel Qinghai e nel Gansu. L’aria è più umida e la temperatura più mite e questo è di per sé già più riposante.
Appena scesi dalla macchina veniamo fermati da un gruppo di autisti che ci vogliono portare in destinazioni diverse e, come spesso accade, nel posto da cui siamo appena venuti. Prendo il numero di un’autista massiccio dai capelli mossi e dai lobi prominenti che mi dice di chiamarsi Orgyan ma che non sa scrivere il suo nome in tibetano.
Attraverso la strada e vado in un negozio a comprare due katak e chiamo il mio amico Targye che si presenta poco dopo in una macchina nera con un altro monaco del Karchö Gönpa.1 Targye ci chiede per prima cosa se abbiamo mangiato, io dico di no e così finiamo tutti in una sala da tè in quella che sembra la via principale, dove al centro, sotto un ponticello sormontato da un gazebo cinese (ting zi), scorre un torrente.

La sala da té, come altre in cui mi era già capitato di andare, è in “stile vittoriano” con lampadari a finte gocce di cristallo (probabilmente plastica). Tutto intorno scintillano oro e specchi che riflettono la luce che entra dalle grandi finestre. Accanto alle finestre sono sistemati dei tavoli con divani di finto velluto scuro con incastonati tanti grossi diamanti di plastica.
Ci sediamo sui divani e ordiniamo del tè e dei noodles che ci vengono portati da uno dei ristorantini lì vicino. Targye e il suo amico scompaiono di nuovo lasciandoci per un tempo lungo e indeterminato a sorseggiare le nostre bevande.
In Tibet vivi veramente il fatto che il tempo come lo intendiamo noi, con i secondi, i minuti e le ore, non esiste e che sia solo un artificio, una costruzione mentale ma la buona notizia è che, dopo aver scoperto di non avere niente sotto controllo, puoi finalmente farti due risate e rilassarti.
A questo proposito mi viene in mente una storia divertente accadutami tanti anni fa in India…
Eravamo in Kerala, forse proprio a Kovalam, io mia madre e una sua amica e stavamo seduti in uno dei tanti ristoranti “per turisti” che hanno nei menù anche il caffè, i toast e altre cose dei western breakfast. Avevo ordinato dei toast con la marmellata e un chai, il tè con il latte e altre spezie indiano e, dopo tanto tempo che aspettavo, di tanto in tanto facevo dei cenni al cameriere, un ragazzo giovane dalla pelle scura, ricordandogli della mia ordinazione, lui sorrideva e mi guardava con uno sguardo rassicurante facendo dei movimenti ondulatori con la testa come fanno gli indiani del sud quando affermano qualcosa. Intanto il tempo passava e alla mia crescente impazienza lui continuava a reagire con estrema calma, senza il minimo imbarazzo, come se quell’attesa fosse la cosa più normale del mondo, senza scomporsi di un millimetro. Dopo circa quaranta minuti si presenta al tavolo portando in mano solo una tazza, ancora nessun toast e poggiando la tazza davanti a me dice: “your coffee sir!” io rimango sorpreso, mi coglie completamente alla sprovvista, “coffee?” penso tra me e me “ma io avevo ordinato un chai!” per un momento ho pensato di dirglielo ma poi, un po’ per la fame, un po’ per paura di aspettare altri quaranta minuti e un po’ perché mi ero, appunto, arreso, mi sono messo a ridere e ho cominciato a sorseggiare il caffè ed era buono anche quello. Ora non mi ricordo bene cosa ne è stato dei toast ma a quel punto non era più importante perché era quasi ora di pranzo e abbiamo ordinato del pesce.
Ok, torniamo alla sala da tè. Dopo un paio d’ore Targye e l’amico tornano a prenderci, risaliamo in macchina e ci fermiamo a comprare delle cose in un negozio per poi uscire dalla città.
La macchina comincia a salire su una strada sterrata che serpeggia sopra dei pendii scoscesi a ridosso di alte montagne coperte di alberi. In basso nella valle scorre un grande fiume, nei campi le spighe dell’orzo hanno già assunto il loro aspetto dorato e qua e là si vedono dei piccoli villaggi dalle colorate case tradizionali di pietra e legno. Siamo diretti a Mukrong, il paese di Targye.
Comincia a cadere una pioggia leggera, Targye ci dice che è un segno di buon auspicio e la macchina prosegue sobbalzando a ritmo di musica disco di artisti occidentali semi sconosciuti.
La natura sembra incontaminata. Ci fermiamo per una sosta.
Nell’aria si sente un profumo di alberi e fiori. Anche qui ci sono le stelle alpine, ne vediamo tante crescere proprio sul ciglio della strada.
Passiamo vicino ad una grande roccia con sopra scolpiti dei mantra bön, quello di Matri e di Shenlha Ökar. 2
“Qui vicino c’è un monastero bön e quella è la montagna sacra Drakkar.”
Finalmente arriviamo ad un villaggio con un piccolo monastero.
“Quello e il Karchö Gönpa.”
Siamo arrivati a casa.
(Ta’u, 17 Agosto 2016)
1 Monastero di Karchö.
2 Nomi di due divinità bön.
mi aspetto un seguito?
un abbraccio
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Sì, scriverò altri due o tre post. Un abbraccio
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